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1. Il naturalismo in Europa

1.9. Il verismo

La prima vera definizione del «metodo» verista si deve a Luigi Capuana, critico e teorico del movimento, che a partire dagli anni ‘80 inizia a pubblicare una serie di saggi raccolti negli Studi di letteratura italiana contemporanea (1872), Per l’arte (1885), Gli ismi contemporanei (1898) e la “Prefazione” alla seconda edizione di Giacinta.

Fu grazie all’attenta lettura delle opere del collega siciliano, come Vita dei campi (1880) e I Malavoglia (1881), che Capuana individuò una rinnovamento nell’ambito della letteratura italiana di questi anni. Verga aveva messo a punto una rivoluzionaria strategia narrativa dopo gli anni di apprendistato milanesi che vedono la nascita di Nedda194 (1874), «schizzo di costumi siciliani», e di Fantasticheria195 (1880), esercizio narrativo che porta alla stesura del ciclo dei Malavoglia196.

L’approdo di Capuana al verismo si deve all’influenza di esperienze culturali: vale ricordare le suggestioni di De Sanctis e De Meis, la lettura degli scrittori francesi quali Balzac, Flaubert e lo stesso Zola, ma soprattutto l’esemplare magistero di Manzoni.

194 La novella Nedda racconta la storia di una fanciulla sfortunata e costretta a lavorare per mantenere la madre ammalata. Dopo la morte di questa, Nedda è sedotta da Janu, un contadino, che precocemente la lascerà vedova e incinta. La bimba nata, anche lei «vinta» in un mondo di sciagurati, morirà. A questo punto Nedda, povera e fallita, dovrà sopravvivere in un mondo ostile che preclude qualsiasi tipo di riscatto.

195 Si tratta della novella che apre la raccolta de Vita dei Campi. In Fantasticheria è espressa l'ideologia di Verga che si basa sul cosiddetto «ideale dell'ostrica» che fa riferimento, in senso lato, a chi rimane sempre attaccato al suo «scoglio», cioè alla terra natia. La novella si presenta come una lunga lettera dove l’autore racconti dei due giorni che un’elegante signora francese ha trascorso con lui ad Aci˗Trezza; dal racconto che ci viene fatto, si capisce subito il differente stile di vita tra una donna di mondo borghese e un provinciale.

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Capuana non solo difese il verismo, ma lo distinse nettamente dalla scuola naturalista; già nell’opera Il teatro contemporaneo (1872) individua quelli che sono i capisaldi della nuova poetica: “Io innanzitutto amo in arte la vita. Quando l’artista riesce a darmi il personaggio vivente davvero non so chiedergli altro e lo ringrazio. Pel solo fatto di essere vivente, quel personaggio è bello, è morale…”197.

Dunque per lo scrittore, i principi che definiscono la letteratura verista sono: la rappresentazione del vero, della vita dell’uomo, l’impersonalità narrativa e soprattutto la concezione dell’arte come «forma». Il romanziere deve partire dal concetto astratto che vuole rappresentare per poi trasformarlo e tradurlo in «forma vivente». A rivestire un ruolo fondamentale è il linguaggio che, come già aveva teorizzato Zola, doveva aderire al parlato quotidiano198. Grazie alla lettura della “Prefazione” a L’Assomoir si risolse quello che da tempo rappresentava il problema stilistico dei romanzieri veristi: la ricerca di un linguaggio semplice ma colorito ed espressivo.

Zola si era dovuto difendere dallo scandalo dovuto dalla rivoluzione linguistica da lui introdotta: “L'Assommoir è indubbiamente il più casto dei miei libri. […]. La gente se l’è presa con le parole. Il mio delitto sta nell’aver avuto la curiosità letteraria di raccattare e di colare in uno stampo adeguatamente elaborato la lingua del popolo. La forma! la forma! il gran delitto sta lì. Eppure ne esistono di dizionari di questa lingua, ce ne sono di letterati che la studiano e vanno in

197 M. Santoro riporta il pensiero espresso da Capuana ne Il teatro contemporaneo, in Civiltà

letteraria italiana del XX secolo (1860˗1970), Felice Le Monnier, Firenze, 1973, p. 57.

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solluchero per la sua freschezza, per l’imprevisto e la forza delle sue immagini”199.

Verga riconosce la novità dei principi zoliani, ed è per questo che sceglie di far parlare i propri personaggi con una lingua adatta al loro status sociale, senza ricorrere al dialetto puro e incomprensibile fuori dai confini della Sicilia. Il suo proposito è quello di usare una linguaggio che dia l’idea del vero, che sia pura mimesi del reale; per questo sceglie di dare un accento locale alle sue creature, affinché esse appaiano al lettore così vere da avere la sensazione di conoscerle già. Per dare questa illusione di realtà, l’autore deve «scomparire dietro la penna» e lasciar agire e parlare i suoi personaggi, i quali assumono una “nuova dimensione teatrale”200 come attori che sulla scena si distinguono facendosi conoscere e riconoscere dagli spettatori.

È la tecnica dell’impersonalità narrativa, ereditata dal naturalismo francese, che estromette lo scrittore col suo stile raffinato, permettendo al “lettore di vedere il personaggio, […] l’uomo […], qual è, dov’è, come pensa, come sente, da dieci parole e dal modo di soffiarsi il naso”201.

Per Capuana, ma anche per De Roberto e Verga, è essenziale il “principio dell’autonomia dell’arte”202 che ha come obiettivo quello di rappresentare la realtà del mondo contemporaneo senza filtri, di raccontare fatti di cronaca senza alcun intento ideologico o pedagogico. Lo scrittore deve presentare il «documento umano» ˗per riprendere una formula zoliana˗ senza mai fare di esso

199 É. Zola, L’Assomoir, introduzione di J. Dubois, trad. a cura di L. G. Tenconi, Rizzoli, Milano, disponibile a: cfr. http://books.google.it/, edizione elettronica del 2013.

200 Cfr. E.Bacchereti, op. cit., p. 75.

201 I. Gherarducci ed E. Ghidetti, Guida alla lettura di Verga, La Nuova Italia Editrice, Scandicci (FI), 1994, p. 111.

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strumento di una tesi, deve dimenticare se stesso, immedesimarsi nel suo personaggio e vivere la sua vita: “Parmi questo il modo migliore per darci completa l’illusione della realtà”203, scrive Verga in una lettera indirizzata a Cameroni.

È così che egli intende il realismo, come una ricerca antiletteraria priva di retorica ed ipocrisie, senza essere asservita a scopi precisi, ribadendo: “ho cercato di essere vero senza essere né realista, né idealista, né romantico, né altro”204. Mentre i naturalisti rappresentano la realtà con la freddezza e precisione di un «giudice istruttore», identificando la storia dei loro personaggi con un’inchiesta poliziesca, per il romanziere verista il «documento umano» prende «forma vivente» solo attraverso l’immaginazione.

Tale questione rimanda a quello che per Capuana è il problema del rapporto dialettico tra ricreazione artistica e realtà, dal momento che “la creatura dell’arte può sembrare infine più viva e vera di quella in carne ed ossa che magari è all’origine dell’ispirazione”205.

In poche parole la fantasia è indispensabile se si desidera rendere più umano il personaggio rispetto alla figura reale. Come racconta Verga in uno dei carteggi con l’amico Cameroni: “Io mi sono messo in pieno, e fin dal principio, in mezzo ai miei personaggi e ci ho condotto il lettore, come ei li avesse tutti conosciuti diggià, e più vissuto con loro e in quell’ambiente sempre. […] man mano che i miei attori si fossero affermati colle loro azione essi avrebbero acquistato maggior rilievo, […] come persone vive”206.

203 I. Gherarducci ed E. Ghidetti, op. cit., p.109. 204 Ivi, pp. 82˗3.

205 E. Bacchereti, Il Naturalismo. Storia e testi, Casa Editrice Le Lettere, Firenze, 1995, p. 71. 206 Vedi nota 203.

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Starà poi al lettore giudicare se il principio di verosimiglianza è stato applicato in maniera corretta, secondo la teoria narratologica dei romanzi veristi che vedono nella creazione in mente auctoris una verifica in mente lectoris207.

Altro terreno comune per i tre grandi scrittori veristi è la scelta di rappresentare una realtà popolare, quella delle classi proletarie e operaie, e l’interesse per una tematica regionalistica e provinciale. Queste intenzioni vengono presentate inizialmente come il prezzo da pagare all’apprendistato artistico che consente poi di occuparsi delle classi alte: “Allora, per ripiego, rivolgemmo la nostra attenzione agli strati più bassi della società dove il livellamento non è ancora arrivato a rendere sensibili i suoi effetti; e vi demmo il romanzo, la novella provinciale, (più questa che quello) per farci la mano, per addestrarci a dipinger dal vero, per provarci a rendere il colore, il sapore delle cose, le sensazioni precise, i sentimenti particolari, la vita d'una cittaduzza, di un paesetto, d'una famiglia…”208.

Capuana presenta questa scelta come una soluzione momentanea e transitoria, un passaggio obbligato che lo scrittore verista deve compiere se vuole poi cimentarsi nello studio del mondo borghese o aristocratico.

Anche Verga nella “Prefazione” ai Malavoglia sostiene che “il meccanismo delle passioni […] in quelle basse sfere è meno complicato […]. Man mano che cotesta ricerca del meglio di cui l’uomo è travagliato cresce e si dilata, tende anche ad elevarsi, e seguire il suo moto ascendente nelle classi sociali”209.

207 Vedi nota 205.

208 L. Capuana, Per l’arte, tratto da Per l'arte, a cura di Riccardo Scrivano, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1994, disponibile a: cfr. http://www.liberliber.it, edizione elettronica del 22 luglio 2007, p. 6.

209 G. Verga, I Malavoglia, “Prefazione” del 22 gennaio 1881, a cura di F. Cecco, Edizioni il Polifilo, 1995, p. 3.

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In pratica questa operazione “gnoseologica condotta in basso, verso la verità”210 è dovuta alla scelta che lo scrittore fa per essere il più fedele possibile alla realtà «vera» e caratteristica, propria del mondo contadino e operaio che quotidianamente sperimenta la miseria e la delinquenza.

Nelle opere di Verga che testimoniano la sua conversione al verismo, quali Nedda, Vita dei campi, Rosso Malpelo, Jeli il pastore e I Malavoglia, i poveri abitanti dei villaggi siciliani sono portatori di sentimenti inalterati e lottano eroicamente contro la fame; ma essi sono anche preda della “febbre moderna”211 che li conduce al fallimento finale. Ritorna qui quell’«ideale dell’ostrica» messo a punto in Fantasticheria: finché quei pescatori e contadini rimarranno ancorati al proprio lavoro, alla propria famiglia e alle credenze locali, vivranno al sicuro. Quando però prevarrà il desiderio di cercare fortuna altrove per migliorare la propria condizione, allora l’unico risultato sarà la drammatica rovina finale. “˗Insomma l'ideale dell'ostrica!˗ direte voi. ˗Proprio l'ideale dell'ostrica! e noi non abbiamo altro motivo di trovarlo ridicolo, che quello di non esser nati ostriche anche noi˗. Per altro il tenace attaccamento di quella povera gente allo scoglio sul quale la fortuna li ha lasciati cadere, mentre seminava principi di qua e duchesse di là, questa rassegnazione coraggiosa ad una vita di stenti, questa religione della famiglia, che si riverbera sul mestiere, sulla casa, e sui sassi che la circondano, mi sembrano ˗forse pel quarto d'ora˗ cose serissime e rispettabilissime anch'esse”212.

210 E. Bacchereti, op. cit., p. 61.

211 R. Bigazzi, I colori del vero. Vent’anni di narrativa: 1860˗1880, Nistri˗Lischi, Pisa, 1978, p. 404.

212 G. Verga, Fantasticheria, in Vita dei campi, tratto da Verga: I grandi romanzi e tutte le

novelle, (edizione integrale) a cura di C. Greco Lanza, Newton Compton Editori, 1992, edizione

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Per Verga la vita è una costante lotta per la sopravvivenza; sebbene la società nel suo complesso sembri caratterizzata da un continuo progresso che costringe molti a soggiacere ad un destino di sconfitta213. Il mondo verghiano è un teatrino di creature «vinte», che inutilmente hanno tentato di affrancarsi dalla loro condizione di miseria.

Se nei Malavoglia, Mastro˗don Gesualdo e Vita dei Campi era stato facile produrre l’effetto del reale e avviare, dal punto di vista linguistico, la ricerca del «colorito giusto», con la rappresentazione delle classi altolocate entra in crisi il progetto di Verga214. Egli si renderà presto conto che ritrarre le vanità che caratterizzano l’alta società implica adottare nuovamente una lingua convenzionale che mette in crisi la pratica narrativa dell’impersonalità, su cui si basava tutto il programma verista215.

A chiudere questa parabola letteraria è Federico De Roberto, che nella raccolta di novelle Documenti umani (1888) avvia la sua riflessione teorica. Per il giovane scrittore il metodo impersonale, a lungo sostenuto da Capuana e Verga, non può essere l’unico valido per ogni tipo di contenuto: “L’arte è una, come una è la realtà che essa si propone di rappresentare; i metodi e gli obiettivi sono diversi, come diversi sono i temperamenti che li scelgono. Accade un fatto; cento persone vi assistono, nessuna di esse ne darà una versione del tutto corrispondente a quella del vicino. Se in mezzo vi è un morto, uno esclamerà: "Che disgrazia!" un altro sentenzierà: "La solita storia!" un terzo dirà: "Vi è un

213 M. Santoro, Civiltà letteraria italiana del XX secolo (1860˗1970), Felice Le Monnier, Firenze, 1973, p. 71.

214 Si tratta delle ultime opere di Verga, che avrebbero dovuto concludere il lungo ciclo de I Vinti:

La duchessa di Leyra (incompleta), L’onorevole Scipioni e L’uomo di lusso che non verranno

iniziati.

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morto," senza commenti. La vita che i romanzieri e i novellieri si propongono di ritrarre, è quella che è; la diversità consiste nell'organismo che la osserva”216. In poche parole la scelta dei temi, degli ambienti, dei caratteri condiziona la tecnica rappresentativa: pertanto, ogni scrittore interpreta la realtà secondo il suo temperamento, la sua ideologia, i suoi gusti217. Come scrive all’editore Treves nella “Prefazione” dei Documenti umani: “Quando io ho scelto un argomento, mi trovo di aver scelto nello stesso tempo il mio metodo; viceversa: se io mi propongo di conseguire certi effetti, non sono più libero di scegliere un soggetto qualunque: il mio campo è circoscritto. Abbracciare un sistema, in arte come in politica, importa negare certe cose e crederne delle altre”218. Parlando delle “due scuole: l’idealista e la naturalista”219, De Roberto riconosce la validità di entrambe, dal momento che ogni metodo è legittimo purché sia consono all’argomento scelto e funzionale al risultato che l’artista vuole conseguire220. Quando egli elabora i Documenti umani, il verismo inizia a eclissarsi, e il rinnovamento che esso aveva apportato alla letteratura un decennio prima non soddisfa più i gusti letterari di fine secolo.

216 F. De Roberto, “Prefazione” ai Documenti umani, Fratelli Treves Editori, Milano, 1888, disponibile a: cfr. http://www.liberliber.it/, edizione elettronica del 29 febbraio 2008, p. 4. 217 Cfr. E. Bacchereti, Il Naturalismo. Storia e testi, Casa Editrice Le Lettere, Firenze, 1995, p. 77.

218 Vedi nota 216.

219 “Voi dite invece che la realtà ha dei caratteri definiti, ˗precisa De Roberto nella “Prefazione” ai Documenti umani, rivolgendosi ad entrambi i fratelli Treves˗ che essa è, per se stessa, in un certo modo determinato? […]. Quindi: se naturalisti e idealisti sono, per il loro modo di vedere, o entrambi nel vero, o entrambi nel falso, il loro modo di vedere è una qualità sopprimibile, come quantità sopprimibili, nei due membri di un'equazione, sono i termini eguali. Che cosa resta? Resta il quid artistico, l'x da trovare. Lasciamo stare l'algebra. […]. Fate del naturalismo artistico, ma dell'idealismo etico al tempo stesso; in altre parole: descrivete naturalmente il bello ed il buono." Chi ragiona così dimentica che ogni metodo d'arte porta con sé la sua propria filosofia, che un modo di scrivere è anche un modo di vedere, che ad ogni contenuto s'impone una forma determinata ˗e reciprocamente”, disponibile a: cfr. http://www.liberliber.it/, ibidem.

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Ormai lo scenario culturale è cambiato: le sicurezze scientifiche del positivismo, il pessimismo schopenhaueriano, la descrizione puntuale della realtà e il metodo dell’impersonalità appaiono un ricordo lontano, mentre si profila all’orizzonte la corrente del decadentismo.

Alcuni scrittori, i maggiori dell’inizio del secolo XX, tra cui Gabriele D’Annunzio, Italo Svevo e Luigi Pirandello, entrano in contatto in un primo momento con la corrente verista per poi abbandonarla definitivamente in favore delle nuove mode letterarie.

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2. Dal naturalismo europeo