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Letteratura e conoscenza. Gli scritti di Elémire Zolla su «Tempo Presente» (1957-1960)

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Corso di Laurea magistrale

in Filologia e Letteratura italiana

Tesi di Laurea

Letteratura e conoscenza

Gli scritti di Elémire Zolla su «Tempo

Presente» (1957–1960)

Relatore

Ch. Prof. Attilio Bettinzoli

Laureando

Giulia Tomba

Matricola 805334

Anno Accademico

2012 / 2013

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INDICE

Introduzione

1. Presentazione della rivista pag. 6

2. Elémire Zolla: profilo biografico pag. 15

La narrativa

1. Minuetto all’inferno pag. 21

2. Visita angelica in Via dei Martiri pag. 32

3. Cecilia o la disattenzione pag. 45

La critica letteraria

1. La letteratura italiana pag. 52

2. Cinque tesi sul «Dottor Zivago» pag. 64

3. La rassegna delle riviste inglesi e americane pag. 72

La critica della cultura

1. Civiltà di massa e industria culturale pag. 85

2. Civiltà di massa e religione pag. 95

3. Eclissi dell’intellettuale pag. 99

Appendice

1. Visita angelica in Via dei Martiri pag. 108

2. Rassegna delle riviste americane pag. 123

3. L’uomo negativo pag. 125

4. Rassegna delle riviste inglesi pag. 126

5. Rassegna delle riviste americane pag. 127

6. L’isola di Arturo pag. 128

7. Rassegna delle riviste inglesi pag. 130

8. Le vie traverse del conformismo pag. 131

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10. La ciociara pag. 132

11. Psicologia e sociologia pag. 134

12. Rassegna delle riviste inglesi pag. 137

13. Rassegna delle riviste americane pag. 138

14. Teorie televisive pag. 140

15. Rassegna delle riviste inglesi pag. 141

16. Logica aziendale e teologia pag. 142

17. Le ceneri di Gramsci pag. 144

18. Il vero Silvestri pag. 145

19. Valentino pag. 146

20. Eclisse dell’intellettuale pag. 147

21. Rassegna delle riviste americane pag. 156

22. Nuovo storicismo pag. 158

23. Justine pag. 159

24. Rassegna delle riviste inglesi pag. 160

25. Rassegna delle riviste americane pag. 161

26. Risposta a «Questioni sul realismo» pag. 163

27. Rassegna delle riviste americane pag. 164

28. Tre romanzi-documento pag. 166

29. Alchimia e senso del lavoro pag. 167

30. Rassegna delle riviste americane pag. 169

31. Sociologia religiosa pag. 170

32. Cinque tesi sul «Dottor Zivago» pag. 171

33. Rassegna delle riviste americane pag. 175

34. Quindici tragedie pag. 177

35. Rassegna delle riviste americane pag. 178

36. Un popolo inerme pag. 180

37. Fantaletteratura pag. 182

38. Rassegna delle riviste americane pag. 182

39. Erotica di massa pag. 184

40. Rassegna delle riviste americane pag. 193

41. Esercizi d’attenzione pag. 195

42. Rassegna delle riviste americane pag. 196

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44. «Esperti» e procreazione pag. 199

45. Apocalisse e manzonismo pag. 200

46. La sordina pag. 201

47. Rassegna delle riviste americane pag. 202

48. Massa e valori di cultura pag. 203

49. Rassegna delle riviste americane pag. 204

50. Rassegna delle riviste americane pag. 205

51. Forza dell’imbecillità pag. 207

52. Odori subliminari pag. 208

53. Morte e pianto rituale pag. 208

54. Silenzio a Milano pag. 209

55. Massa e valori di cultura pag. 210

56. «Marketing» e narrativa pag. 212

57. Rassegna delle riviste americane pag. 213

58. I racconti di Calvino pag. 215

59. Nobili lazzi pag. 216

60. Gli sradicati pag. 217

61. Rassegna delle riviste americane pag. 218

62. Un uomo semplice pag. 219

63. Rassegna delle riviste americane pag. 221

64. Notte e giorno pag. 223

65. Il Gattopardo pag. 232

66. Rassegna delle riviste americane pag. 233

67. Rassegna delle riviste americane pag. 234

68. Razzismo dritto e capovolto pag. 236

69. Filosofia a Little Rock pag. 238

70. Casistica pag. 240

71. Narrativa di Brecht pag. 241

72. Tempo impedito pag. 242

73. Stenografia e pudore pag. 243

74. Rassegna delle riviste americane pag. 243

75. Rassegna delle riviste americane pag. 245

76. Coscienze cattoliche pag. 247

(5)

78. Rassegna delle riviste americane pag. 248

79. La finta critica pag. 249

80. Sillabario pag. 250

81. Rassegna delle riviste americane pag. 252

82. Donne d’Italia pag. 254

83. Sillabario pag. 255

84. Rassegna delle riviste americane pag. 257

85. Un nuovo marxismo pag. 259

86. Sillabario pag. 260

87. Rassegna delle riviste americane pag. 261

88. Babele pedante pag. 263

89. La penitente e il fariseo pag. 264

90. Sillabario pag. 265

91. Rassegna delle riviste americane pag. 267

92. Rassegna delle riviste americane pag. 268

93. Sillabario pag. 270

94. Come nasce l’antisemitismo pag. 272

95. Rassegna delle riviste americane pag. 278

96. Giustizia e libertà pag. 280

97. La rosa bianca pag. 281

Bibliografia pag. 283

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INTRODUZIONE

1. Presentazione della rivista

La rivista «Tempo Presente» venne fondata nell’aprile del 1956 da Ignazio Silone e Nicola Chiaromonte. La redazione della rivista ebbe sede a Roma in via Gregoriana 7, per poi trasferirsi, dal maggio del 1960, in via Sistina 23. Della redazione facevano parte solamente il critico d’arte, giornalista e poeta ligure Cesare Vivaldi e la segretaria Nicoletta Coppini. Diretta dagli stessi fondatori Silone e Chiaromonte, la rivista ebbe come redattore responsabile Vittorio Libéra. L’editore, Stefano De Luca era l’erede di Luigi De Luca, figura di primo piano nella scena culturale romana tra le due guerre, che rese la casa editrice da lui fondata un punto di riferimento per numerosi artisti. La rivista uscì mensilmente per dodici anni, fino al 1968, «nonostante avesse poco più di mille abbonati, una scarsa distribuzione nelle edicole e nessun sostegno dall’industria culturale».1 Il solo aiuto finanziario, che fu fondamentale al fine della pubblicazione della rivista, provenne dall’Associazione internazionale per la libertà della cultura e, indirettamente, dalla Ford Foundation, da cui l’associazione riceveva fondi consistenti.

L’Associazione per la libertà della cultura (Congress for Cultural Freedom, nota anche con la sigla CCF) fu fondata nel 1950 presso il Titania Palace di Berlino Ovest dal gruppo Americans for Intellectual Freedom, guidato dal professore di filosofia Sidney Hook, docente alla New York University e tra i fondatori della rivista socialista «The New Leader». Il gruppo comprendeva intellettuali liberali e socialisti, come il filosofo e sociologo Dwight MacDonald, la scrittrice Mary McCarthy, il compositore Nicolas Nabokov (nato in Russia ma diventato cittadino americano nel 1939, sarà per quindici anni il segretario generale del Congress for Cultural Freedom) e molti altri pensatori occidentali, rappresentanti una varietà eterogenea di discipline e fedi politiche con il comune denominatore di una cultura liberale e contraria ai totalitarismi. Il congresso, che nella conferenza berlinese contava quasi                                                                                                                

1 Tempo Presente: un’acropoli culturale, in «Tempo Presente». Antologia 1956 – 1968. Gli

scritti più significativi di una rivista simbolo», a cura di Tommaso E. Frosini, Firenze, Liberal libri, 1998, p. XII.

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200 delegati provenienti dai diversi paesi (tra gli statunitensi Tennessee Williams, l’intellettuale conservatore James Burnham ma anche il presidente dell’Atomic Energy Commission, David Lilienthal) e oltre 4.000 partecipanti, si fece promotore di un dibattito plurale che in primo luogo si impegnava a contrastare il comunismo e l’influenza sovietica, considerandoli una minaccia per l’arte e il sapere, si da attaccarne il presupposto di superiorità morale e affermare, allo stesso tempo, la legittimità della cosiddetta democrazia borghese nel farsi veicolo dei valori della cultura. L’assemblea berlinese fu organizzata probabilmente in risposta ad una conferenza sulla pace mondiale tenutasi nel marzo del 1949 al Waldorf-Astoria Hotel di New York e sponsorizzata dal National Council of the Arts, Sciences and Professions su iniziativa del Cominform, l’ufficio di informazione dei partiti comunisti, creato in Polonia nel 1947 con lo scopo di avversare la politica del presidente statunitense Truman e l’attuazione del Piano Marshall. Alla conferenza newyorkese presero parte figure intellettuali vicine al marxismo e al pacifismo, come Arthur Miller, Norman Mailer e, delegato russo, il compositore Dmitri Shostakovich, tutte unite nel comune intento di promuovere uno scambio culturale tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica e opporsi al bellicismo americano, salvo scontare l’accusa di farsi con ciò sostenitori della propaganda comunista e filosovietica in territorio nemico. Il giorno dell’inaugurazione dei lavori della Conferenza culturale e scientifica sulla pace mondiale, Sidney Hook organizzò un comitato di protesta, che prese appunto il nome di Americans for Intellectual Freedom, e occupò diverse suite del Waldorf-Astoria con lo scopo di boicottare la conferenza. Tra gli intellettuali che aderirono a questo comitato (tutti ex marxisti e trockisti ora vicini ad ideologie liberal-democratiche o di destra e che ben conoscevano gli ambienti comunisti frequentati dai partecipanti) figuravano Dwight MacDonald, i direttori della «Partisan Review» William Phillips e Philip Rahv e lo stesso Nicola Chiaromonte.

Dal momento della sua fondazione il Congress for Cultural Freedom si impegnò subito a reperire fondi sufficienti per creare organi di diffusione culturale e produrre pubblicazioni (come l’inglese «Encounter», fondata nel 1953 e attiva fino all’inizio degli anni Novanta e le americane «Partisan Review» e «Kenyon Review»), diventando presto attivo in ben trentacinque paesi. Quando, nel 1967, in seguito ad un’inchiesta della rivista «Rampant» e del «Saturday Evening Post»,2 per

la prima volta emersero i legami che l’Associazione aveva con l’Intelligence                                                                                                                

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americana, minando notevolmente la credibilità dei suoi intenti, venne avviata un’operazione di ripulitura che condusse a cambiarne il nome in International Association for Cultural Freedom (abbreviato in IACF). L’inchiesta rivelava come il Congress for Cultural Freedom fosse in realtà un organizzazione creata e finanziata dalla CIA con lo scopo di creare, durante la guerra fredda e in funzione filo-americana e anti-comunista, degli organismi di intervento nel mondo della cultura e delle arti. Molte altre inchieste vennero pubblicate a riguardo negli anni a venire, facendo emergere come la CIA avesse regolarmente finanziato, spesso attraverso la copertura di organizzazioni filantropiche, fondazioni e associazioni nel corso di tutti gli anni Sessanta. L’opera che, probabilmente, ha avuto più diffusione a riguardo è

La guerra fredda culturale. La Cia e il mondo delle lettere e delle arti3 di Frances

Stonor Saunders. Saunders, giornalista del settimanale londinese «New Statesman», individua, per quanto riguarda la situazione italiana, in Ignazio Silone e Nicola Chiaromonte le figure di punta del Congress for Cultural Freedom e in «Tempo Presente» la relativa pubblicazione. Silone fu una delle figure di punta del congresso al Titania Palace nel 1950, insieme allo scrittore e filosofo ungherese naturalizzato britannico, Arthur Koestler, come lui fuoriuscito dal partito. Entrambi rappresentavano le più convinte forme di opposizione al comunismo sovietico: diretto e impetuoso Koestler, più sottile Silone, che voleva contrastarne l’influenza attraverso riforme politiche e sociali.

Anche se, nel corso degli anni, i loro rapporti si andranno guastando, le vicende politiche di Ignazio Silone e Nicola Chiaromonte seguirono percorsi e svolgimenti affini che sono utili a comprendere le posizioni intellettuali da loro difese e l’orientamento che si delinea più degli inizi in «Tempo Presente».

Silone nasce a Pescina, in provincia de L’Aquila, nel 1900 ma si trasferisce appena diciassettenne a Roma, dove si iscriverà all’Unione Giovanile Socialista. La fine degli anni Dieci del Novecento fu un momento di instabilità ma allo stesso tempo di grande crescita per il Partito Socialista: diviso tra varie correnti, la prevalente era quella massimalista, guidata da Giacinto Menotti Serrati, che aveva come obiettivo l’instaurazione di una repubblica socialista. Polemico rispetto a questa maggioranza era l’orientamento di estrema sinistra e marcatamente rivoluzionario, vicino al comunismo russo e all’esperienza dei Soviet. La rottura di                                                                                                                

3 FRANCES STONOR SAUNDERS, La guerra fredda culturale: la Cia e il mondo delle lettere e

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questo filone con la componente massimalista avvenne in occasione dell’espulsione dal Partito Socialista di una terza corrente, quella riformista di Turati e Treves, come richiesto dalla Terza Internazionale, contraria al riformismo social-democratico, l’orientamento più moderato all’interno del partito, nel momento stesso in cui si assisteva all’avvento del Fascismo. Alla guida della corrente rivoluzionaria vi erano Amedeo Bordiga, Nicola Bombacci e Antonio Gramsci, coloro che in seguito saranno i fautori della scissione di Livorno da cui, nel 1921, nascerà il Partito Comunista d’Italia. Vicino a quest’ultima corrente, Silone sarà tra i fondatori del nuovo partito e, nello stesso anno, a Mosca tra i delegati alla Terza Internazionale (occasione in cui conoscerà Lenin). Alla fine del 1922, nel crescendo della repressione fascista, venne arrestato per la prima volta e accusato di propaganda sovversiva. Uscito di prigione si rifugiò, come molti altri dissidenti, a Berlino; in seguito verrà inviato in Spagna dall’Internazionale Giovanile come corrispondente per i comunisti francesi. Si stabilì a Parigi dopo un ulteriore arresto ma, segnalato anche qui dalle forze di polizia, venne estradato in Italia nel 1925.

A partire dal maggio del 1927, quando con Palmiro Togliatti è delegato all’ottavo plenum dell’Internazionale, a Mosca, cominciano a manifestarsi le sue perplessità nei confronti del regime leninista, soprattutto circa l’atteggiamento verso gli oppositori del gruppo dirigente (come Zinov’ev, Kamenev e, soprattutto, Trotsky). Quando queste epurazioni riguarderanno anche il partito comunista italiano, come nel caso del linciaggio politico e morale compiuto da Togliatti nei confronti di Alfonso Leonetti, Paolo Ravazzoli e Pietro Tresso, vicini alla corrente trotskista, il crescente rifiuto per le istituzioni comuniste si tradurrà nel distacco definitivo di Ignazio Silone dal Partito Comunista.4 Durante il secondo conflitto mondiale si trasferì a Zurigo, dove diventò rapidamente una figura di primo piano nella vita culturale europea. Autentico sostenitore della libertà e della giustizia, la sua violenta avversione per il dogmatismo ideologico lo portò all’attacco di tutti i totalitarismi, dal fascismo al comunismo (definito anche fascismo rosso). Negli anni                                                                                                                

4 Riguardo alla posizione assunta da Silone all’interno del partito nel momento

dell’allontanamento di Leonetti, Ravazzoli e Tresso è di qualche interesse la ricostruzione di INDRO MONTANELLI, I protagonisti, Milano, Rizzoli, 1976. Togliatti chiese a Silone appoggio contro i tre e firmò per lui la dichiarazione, mai convalidata da Silone, che ne decretava l’espulsione dal gruppo. Allo stesso tempo Silone scrisse privatamente a Pietro Tresso, dichiarandogli la sua contrarietà ai metodi adottati nei loro confronti. Questa missiva fu intercettata e pubblicata, dopo essere stata accuratamente rimaneggiata, dai giornali trotzkisti. A Mosca, di fronte alla dichiarazione di Togliatti e al falso filotrotzkista, Silone fu accusato di fare il doppio gioco ed espulso dal partito.

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della guerra entrò definitivamente nel Partito Socialista, intensificando il suo impegno al ritorno in patria, nel 1944. Propugnatore di una politica che doveva instancabilmente nutrirsi di cultura, si schierò per l’autonomia socialista assumendo posizioni innovative, come l’apertura verso la Chiesa, e continuando insieme ad essere un fermo oppositore del comunismo sovietico. Abbandonerà definitivamente la politica attiva all’inizio degli anni Cinquanta, senza rinunciare tuttavia ad essere figura di riferimento nel panorama culturale italiano, soprattutto in seno all’Associazione per la libertà della cultura, e sarà allora vicino a figure come Jean-Paul Sartre e, soprattutto, Simone Weil. L’indipendenza intellettuale di Silone, la sua forte autonomia di pensiero, saranno particolarmente evidenti nel corso degli anni Sessanta, quando denunciò l’esistenza di un regime partitocratico che spostava il centro del potere dal parlamento agli esecutivi dei partiti5 e una sempre maggiore

influenza delle gerarchie ecclesiastiche nella politica, soprattutto nel principale partito italiano di ispirazione cattolica, la Democrazia Cristiana. Da qui il suo definirsi un «cristiano senza chiesa», sostenitore di un cristianesimo che recuperasse nel suo messaggio, la purezza delle origini e di un socialismo cristiano, lontano da sovrastrutture e apparati.

Nicola Chiaromonte, di origini lucane, nasce nel 1905 a Rapolla in provincia di Potenza ma compie gli studi a Roma, dove si trasferisce durante l’infanzia. Le sue prime esperienze nell’antifascismo militante risalgono agli anni dell’università e in lui, come in Silone, matura ben presto la coscienza di un impegno politico che non può essere scisso dalla riflessione intellettuale. Per questo motivo, già dai tempi della guerra civile spagnola (scoppiata nel 1936), a cui aveva partecipato come mitragliere nella squadriglia dell’aviazione repubblicana organizzata dallo scrittore e politico francese André Malraux, egli si era definitivamente staccato da quell’antifascismo che mal sapeva conciliare questi due elementi, ridotto ad un’infruttuosa sequela di parole d’ordine astratte e categoriche. La guerra civile in Spagna fu per lui la conferma di tutte le riflessioni sul totalitarismo elaborate nel corso di quegli anni. Sia lo stalinismo che il nazi-fascismo avevano in comune la trasgressione al principio kantiano dello Stato di diritto, con l’annessa salvaguardia delle libertà dell’uomo che rappresentava il fondamento della civiltà europea. Cercando di risalire ai motivi di fondo della crisi della civiltà europea, queste idee, insieme alla polemica                                                                                                                

5 A riguardo, un articolo nella rubrica Discussioni di «Tempo Presente» del novembre 1958:

IGNAZIO SILONE, Apparati di partito e partitocrazia - Un dibattito a Rodi, in «Tempo Presente», anno III, 1958, n.ro 11, pp. 57-65.

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antistoricistica, che rifiuta la tradizione neoidealistica italiana tanto di Croce quanto di Gentile, emersero già nel 1933, con la pubblicazione su «Solaria» del saggio Nota

sulla civiltà e le utopie.6

Trasferitosi in Francia nel 1934 per sfuggire ad un mandato di cattura, si avvicinò al gruppo Giustizia e Libertà e ai fuoriusciti italiani, come Andrea Caffi, con cui poi, nel 1935, creerà (insieme a Mario Levi e Renzo Giua) il gruppo dissidente dei “novatori”. I “novatori” si allontanarono da Giustizia e Libertà non condividendo l’esclusivo impegno antifascista del movimento, declassato a polemica spicciola senza la lungimiranza di un movimento più vasto respiro sovranazionale che avrebbe potuto attribuirgli il rango di una forza capace di «contribuire in modo positivo al rinnovamento della tradizione socialista e», più che liberale, «libertaria»7.

Dopo essersi spostato prima a Tolosa e poi ad Algeri (dove conobbe Camus con cui iniziò un solido legame di amicizia e affinità intellettuale) e infine a Casablanca, Chiaromonte partì per gli Stati Uniti nel 1941. A New York iniziò a collaborare al settimanale italiano «L’Italia libera», diretto da Salvemini, ma anche a riviste in lingua inglese come «Partisan Review» e «Politics». Nel 1953 tornò a Roma, dove si stabilì definitivamente. La questione dell’autonomia intellettuale fu in questi anni al centro dei suoi interessi, in opposizione al conformismo culturale sia di destra che di sinistra che conduceva l’intellettuale moderno all’estremo bisogno di una «religione non religiosa, e cioè di un’ideologia efficace […] segno visibile della forza collettiva»,8 un concetto che egli vedeva efficacemente riassunto nella parabola politica di Jean-Paul Sartre. Questi temi furono ampiamente dibattuti da Chiaromonte sulle riviste dell’epoca, come «Il Mondo» e «Nuovi Argomenti», e troveranno una compiuta definizione nel saggio apparso su «Tempo Presente», La

tirannia moderna,9 dove le cause della mancanza di libertà vengono fatte risalire alla crescente collettivizzazione e meccanizzazione dell’esistenza, connesse alla necessità della crescita materiale. Molte, importanti, voci della letteratura europea contribuirono a questa riflessione sulle pagine di «Tempo Presente» – Hanna Arendt,

                                                                                                               

6 NICOLA CHIAROMONTE, Nota sulla civiltà e le utopie, in «Solaria», anno VIII, 1933, n.ro

4-5, pp. 16-17.

7 ANDREA CAFFI, Scritti politici, Firenze, La Nuova Italia, 1970, p.162.

8 NICOLA CHIAROMONTE, Il tempo della malafede: il comunismo e gli intellettuali, Roma,

Associazione italiana per la libertà della cultura, 1953.

9 NICOLA CHIAROMONTE, La tirannia moderna, in «Tempo Presente», anno XIII, maggio

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Albert Camus, Hans Magnus Enzensberger – anticipando motivi che si riveleranno estremamente attuali negli anni a venire.

La sezione italiana del Congress for Cultural Freedom fu costituita da Ignazio Silone negli ultimi mesi del 1951 e prese il nome di Associazione italiana per la libertà della cultura, divenendo «il centro di una federazione di circa cento gruppi culturali indipendenti, ai quali l’associazione forniva conferenzieri, libri, libelli, film e uno spirito cosmopolita».10 Le sue attività furono pubblicizzate da un bollettino, «Libertà della Cultura», ma la rivista ufficiale dell’associazione fu «Tempo Presente». La sua pubblicazione proseguì fino al 1968, dopo che, nel maggio dell’anno prima, in seguito alla duplice inchiesta di «Rampant» e del «Saturday Evening Post», emerse l’ombra della CIA sul Congress for Cultural Freedom e sui finanziamenti alla rivista. Silone e Chiaromonte, di cui Darina Silone, moglie dello scrittore, ricorda l’incredula disperazione, si dichiararono all’oscuro della natura delle sovvenzioni americane e si dimisero immediatamente dal Congresso, decidendo inoltre di porre fine alla pubblicazione della rivista. Le vicende di «Tempo Presente» d’altronde mantennero sempre una certa autonomia da quelle dell’Associazione italiana per la libertà della cultura, la cui attività e i cui intenti sembrarono vacillare già poco dopo la sua costituzione. Lo stesso Nicolas Nabokov, segretario generale del Congress for Cultural Freedom, inviato a Roma per tentare di sollecitare il distaccamento italiano a favorire gli interessi sostenuti dal Congresso, denunciò una situazione di apatia intellettuale, spesso troppo critica nei confronti della casa madre americana e troppo sottoposta all’influenza di Silone. Quando fu chiara l’ostilità verso l’ingerenza delle gerarchie clericali nella vita politica italiana, con la conseguenza di complicare i rapporti dell’Associazione con la Chiesa, Nabokov convinse Jacques Maritain a scrivere una lunga lettera alle autorità vaticane da cui emergesse con tutta evidenza che il Congress for Cultural Freedom e l’Associazione italiana per la libertà della cultura seguivano due politiche differenti.

La volontà di proporsi come «terza via», rispetto alla polarizzazione politica e ideologica che caratterizza il secondo dopoguerra italiano, è dunque programmatica di «Tempo Presente». Come riportato nella seconda di copertina, «Tempo Presente» «è una rivista internazionale di informazione e discussione fondata sul principio della libertà di critica. Essa intende promuovere il riesame dei modi di pensare correnti mettendoli a confronto con la realtà del mondo attuale». In un tempo in cui i confini                                                                                                                

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politici ed etnici diventano labili e problematici e in cui si assiste ad una perdita sempre maggiore dei valori sovraindividuali, la necessità di una comunicazione schietta che riesca a fornire un’immagine vera e non appiattita della realtà risulta fondamentale nella formazione della coscienza dell’individuo. Sarà proprio dove questa si esprime in maniera più libera e autentica che può aprirsi uno squarcio nella trama omogenea di una società massificata e controllata dai grandi poteri economici e politici e si può sperare nella creazione di «un centro di prestigio intellettuale e morale indiscusso e valido per tutti».11 L’informazione e la discussione diventano quindi gli strumenti principali per la missione intellettuale che si propone la rivista. Un’informazione che, lontana dai particolarismi, riesca a guardare capillarmente alla realtà nazionale e sovranazionale. Una discussione che permetta il libero scambio di idee e si concentri sull’uomo, su ciò che pensa e su come agisce, poiché è in questo che la coscienza si forma e si nutre, non nelle vicende «del potere, della forza e della fortuna».12 «Tempo Presente» non si proponeva in tal senso come veicolo di nessuna ideologia settaria, respingendo l’idea di una realtà globale e sistematica; l’unica linea della rivista era il categorico rifiuto di ogni provincialismo.

Alla luce di questa impostazione ideologica e della volontà di offrire lo squarcio di un panorama culturale, europeo ma non solo, ricco e polimorfo, Chiaromonte e Silone nutrono la rivista dei contributi dei maggiori nomi intellettuali del loro tempo. Già nel primo numero, dell’aprile 1956, possiamo leggere interventi di Alberto Moravia, Isaiah Berlin, Leonardo Sciascia, Mauro Calamandrei – che con l’articolo Questione negra negli Stati Uniti anticiperà un tema a lungo dibattuto e analizzato tra le pagine di «Tempo Presente». Dello stesso numero è un racconto inedito di Albert Camus, La donna adultera, qui tradotto da Natalia Ginzburg, che anticiperà il ritorno dello scrittore francese alla narrativa, e l’intervento di un autore che, nella sua condizione di esule, ebbe molto a cuore la rivista: Gustaw Herling. Per Herling, a cui fu impossibile rientrare nella Polonia comunista dopo le denunce sul sistema concentrazionario sovietico, la partecipazione a «Tempo Presente» fu l’occasione di ritrovare la sua libertà di scrittore e saggista. Nella situazione culturale italiana del dopoguerra, fortemente polarizzata in senso ideologico, lo stesso Herling fu vittima di ostracismi e diffidenze ma trovò una possibilità di espressione nella rivista di Silone e Chiaromonte, dove i temi politici erano ampiamente dibattuti.                                                                                                                

11 Editoriale, in «Tempo Presente», anno I, 1956, n.ro 1, pp. 1-2. 12 Ivi, p. 2.

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L’impostazione liberale della rivista permise dunque l’aprirsi di una breccia nella rigida contrapposizione ideologica italiana e l’espressione di quanti, critici sia nei confronti del comunismo che del fascismo, si trovavano privi di un punto di riferimento culturale entro cui agire ed esprimersi.

Negli anni della collaborazione di Zolla con «Tempo Presente», vediamo ancora in diversi numeri la partecipazione di un giovanissimo Alberto Arbasino, con contributi che spaziano dalla saggistica (I giornali malati, La scienza rivalutata,

L’Académie si difende), alla recensione (Una biografia della Stein), al racconto (La narcisata); di Luciano Codignola il quale, oltre a molti saggi di critica letteraria e

teatrale, si occupava di recensire, insieme a Mario Marchi e Cesare Vivaldi, i periodici d’oltralpe nella Rassegna delle riviste francesi. Le riviste italiane e la rispettiva rubrica venivano seguite principalmente da Ferdinando Virdia, del critico letterario Ettore Mazzali, e da Mario Diacono ed Enzo Forcella; al radicale Aloisio Rendi furono affidati gli spogli di opere e riviste di area tedesca (Lettera da Berlino,

Tu felix Germania? E appunto la Rassegna delle riviste tedesche) mentre lo scrittore

argentino, naturalizzato italiano, Juan Rodolfo Wilcock si occupò della rassegna delle riviste in lingua spagnola ed inglese (quest’ultima inizialmente curata da Zolla), e fu anche attivo con una costellazione di interventi e recensioni sui temi più diversi (Agnosticismo, Vantaggi dell’Apartheid, Viaggio sulla luna).

Un affresco significativo della poesia italiana del tempo emerge, tra le pagine di «Tempo Presente» dalle poesie di Giorgio Caproni (Mattinale), del poeta e regista italiano Nelo Risi (fratello del più noto Dino), anche traduttore di molta poesia francese, di Maria Luisa Spaziani, dello scrittore e giornalista Giovanni Arpino, di Mario Luzi, Giuseppe Ungaretti, Vittorio Sereni (Gli amici), Andrea Zanzotto, Elsa Morante, Sandro Penna. Mentre tra i poeti stranieri compaiono Jorge Luis Borges, Paul Celan, Hans Magnus Enzensberger, l’americano Robert Penn Warren – uno dei fondatori del New Criticism, il catalano Joan Vinyol (traduttore di Rilke), Boris Pasternak, il greco Costantino Kavafis.

I tardi anni Cinquanta rivelano una legittimazione sempre maggiore in campo culturale della settima arte; in «Tempo Presente», un’analisi del cinema e dei suoi contenuti è il tema di molti articoli dello sceneggiatore e regista Fabio Carpi (Il

melodramma sociale in Visconti, La poesia impura di Fellini, La cronaca pura di Rossellini), ma anche del già citato Arbasino (Contro un brutto film). Nonostante la

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notevole è riservato alla narrativa, sia italiana che straniera; sono presenti racconti brevi ed anticipazioni di romanzi di autori quali lo stesso Zolla, Leonardo Sciascia (La morte di Stalin, L’antimonio), Wilcock, Yukio Mishima (Hanjo), Italo Calvino (Avventura di un lettore), Goffredo Parise, Heinrich Böll (La bilancia dei Balek), Giorgio Caproni, Raffaele La Capria. Tuttavia, la maggior parte degli interventi sono – come si diceva – di carattere critico e nell’analisi di opere letterarie e fatti culturali, offrono una pregevole sintesi delle maggiori figure intellettuali della metà del secolo scorso. Si leggono, tra gli altri, interventi di Hannah Arendt (Che cos’è l’autorità), Jean-Paul Sartre, Theodor W. Adorno (Conciliazione forzata: Lukacs e l’equivoco

realista), W. H. Auden, dello storico Giorgio de Santillana, di Bertrand Russell

(Autobiografia filosofica) e, tra gli italiani, Cristina Campo, Pietro Citati (Il romanzo

delle analogie), Elio Vittorini, Elena Croce.

2. Elémire Zolla: profilo biografico

Elémire Zolla nasce a Torino il 9 luglio 1926. Il nome, omaggio allo scrittore francese Elémir Bourges, gli venne dato dal padre, Vincenzo Venanzio Zolla, pittore nato a Colchester ma di radici vigevanesi. La figura paterna viene spesso ricordata dal figlio come un animo distratto, bohémien e poco ligio alle convenzioni sociali; il libro più annotato della sua biblioteca era L’arte cortese di crearsi nemici, di James Abbott McNeil Whistler, pittore di fine Ottocento eccentrico e spregiudicato, che successivamente non sfuggirà all’attenzione dello stesso Elémire. La madre – Blanche Smith, inglese del Kent – era musicista (suonava l’organo e il pianoforte); evocata nelle memorie famigliari come una donna rigida e orgogliosa, dava ripetizioni al piano inferiore allo studio del marito e spesso accompagnava allo strumento la proiezione di film muti. L’ambiente di formazione del giovane Zolla si presenta fervido di suggestioni intellettuali, ricco di spunti critici ma permeato completamente del rigore e della disciplina, ossimoricamente ribelle, dei genitori. Sarà, come è naturale, quell’ambiente stesso a caratterizzarlo nella sua forma mentis, che presto lo renderà inflessibilmente convinto della necessità di una meticolosa e globale preparazione per affacciarsi allo scenario dell’esistenza. I frequenti spostamenti del padre, soprattutto a Londra e Parigi, gli permetteranno presto di padroneggiare l’inglese e il francese e lo indurranno successivamente a volgere la

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sua attenzione allo spagnolo e al tedesco; fin dai primi anni della scuola dell’obbligo Zolla riterrà il sapere la forza fondamentale da cui dipende l’evolversi dell’esistenza. Tanto gli studi furono intensi e determinati quanto l’autore maturò un peculiare senso di isolamento dai propri coetanei e, per l’educazione ricevuta, quasi naturalmente portato alla repressione dei sentimenti e delle sensazioni più istintive. Sospeso nella dimensione creata dall’ambiente famigliare, si dedicava alle attività principali dei genitori – la pittura e il pianoforte, ma soprattutto alla lettura. Non lesse mai libri per l’infanzia: nella prima giovinezza gli strumenti formativi che preferiva furono La storia d’Europa di Benedetto Croce e L’anima dell’uomo sotto il

socialismo di Wilde, i periodici stranieri, la voce della BBC alla radio.

L’establishment culturale e sociale che dominava nel nostro paese durante il ventennio della dittatura fascista fu da lui sempre chiaramente esecrato,13 mentre

trovava occasioni di più ampio respiro durante i suoi soggiorni all’estero. Finito il liceo si iscrisse alla facoltà di Legge dell’Università di Torino, con l’intenzione di frequentare ogni corso gli fosse stato congeniale; nel frattempo sorgeva in lui un notevole interesse per la psichiatria. Si laureò in diritto commerciale con una tesi che in più parti richiama alle idee poi sviluppate in Eclissi dell’intellettuale (1959), riguardanti in particolar modo l’assenza di sensibilità nella società contemporanea, assediata da molteplici forme di volgarità che impediscono la formazione di un giudizio critico sul presente. I suoi studi furono d’altra parte perennemente affiancati dall’esercizio dell’attività letteraria, che considerava l’unico piacere di una vita destinata altrimenti ad apparire priva di significato.

L’esordio di una carriera lunga, estremamente erudita e caratterizzata da una vastissima produzione letteraria in italiano ed inglese, avvenne nel 1947, quando l’autore era appena ventunenne, con i Saggi di etica ed estetica in cui fa la sua apparizione un tema tra i più spinosi nell’opera zolliana, quello riguardante l’idea di persona. La convinzione che l’io-persona sia una parvenza, una maschera del vuoto, si sviluppa nel pensiero zolliano sin dai primi anni della sua formazione e trova un primo nutrimento negli studi giuridici, per svilupparsi poi compiutamente nel                                                                                                                

13 “Non incontrò se non fascisti in Italia” scrive Grazia Marchianò, orientalista e seconda moglie dell’autore, nel volume Elémire Zolla. Il conoscitore di segreti, la più ampia e dettagliata biografia del pensatore, pubblicata da Rizzoli in occasione dell’ottantesimo anniversario della sua nascita, su cui si basa prevalentemente anche questo breve profilo. La Marchianò sottolinea come sin dai tempi della scuola il giovane Zolla disprezzasse quanti, nell’ambiente che lo circondava, erano portatori delle idee e peculiarità che il totalitarismo aveva seminato nel panorama sociale italiano e che, incline ad occultare i sentimenti, preferì presto condurre un’esistenza non integrata e refrattaria al conformismo diffuso; iniziò a percepire un cambiamento del pensiero comune durante la guerra, attendendo l’arrivo degli alleati.

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confronto con la teoria buddhista, che Zolla incontrerà negli anni a venire. Negli stessi anni pubblicò molti saggi ed articoli in riviste come «Letterature moderne», diretta da Francesco Flora, «Il pensiero critico» di Remo Cantoni, «Lo spettatore italiano»; ma la prima grande attenzione gli venne, nel panorama intellettuale del tempo, con la pubblicazione nel 1956 di Minuetto all’inferno (Einaudi), per cui riceverà il Premio Strega, il primo degli scritti narrativi in cui viene alla luce la ferma convinzione di Zolla che la casualità dell’esistenza non ponga comunque l’uomo in una condizione di impotente subordinazione ai capricci della fortuna, ma che un’arte di vivere forte e caparbia sia in grado di piegare il determinismo degli eventi. La sorte, come sosterrà l’autore in un suo scritto dei primi anni Sessanta, diviene il punto di congiunzione tra le vicende umane e il trascendentale, in quanto elemento che scatena il caos nel fluire del destino.

Due anni dopo, nel 1957, lo scrittore si trasferì nella capitale, dove vivrà per trentaquattro anni. Si aprì a lui in quel periodo una possibilità di frequentazioni e di stimoli che non era riuscito a trovare nel capoluogo piemontese, ma che, sebbene desiderata, venne vissuta con notevole distacco ed indipendenza intellettuale, in una sacrale difesa della sua vita privata, tra le vie capitoline e i suoi appartamenti, tra gatti ed odore di essenze. Frequenta il salotto di Elena Croce e Mario Praz, vede a cena Moravia, Citati, Siciliano, più raramente Pasolini, intellettualmente a lui piuttosto estraneo, ma generalmente le sue sono frequentazioni a distanza, come se lo scrittore avesse avuto «l’accortezza di stendere una cortina invisibile tra il suo mondo e il mondo di fuori»,14 passatempi salottieri condotti con un piacere distaccato. Furono gli anni del breve matrimonio con la poetessa Maria Luisa Spaziani, della relazione con Cristina Campo, a cui resterà unito fino alla morte di lei nel 1977, e della prima cattedra all’Università La Sapienza. Nel 1960 venne pubblicato da Garzanti il secondo e ultimo romanzo di ambientazione romana,

Cecilia o la disattenzione. Tra le due opere, un trittico di esercizi narrativi: Visita angelica in via dei Martiri, pubblicato nel 1957 su «Tempo Presente» e nel 1961, in

inglese nel semestrale diretto da Saul Bellow «The Noble Savage»,15 L’Africa nel

cortile, inserito nell’antologia L’amore in Italia16 e pubblicato anche in versione accorciata con il titolo Giuditta, nel 1958, nella rivista «Il mondo» e, infine, Marco e                                                                                                                

14 GRAZIA MARCHIANÒ, Elémire Zolla. Il conoscitore di segreti, Venezia, Marsilio, 2012, p.

56.

15 Il racconto è stato ristampato a cura di G. Marchianò nel 2010, nella nuova serie di

Conoscenza religiosa.

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il gatto Mammone pubblicato nel 1957 sul quotidiano torinese «Gazzetta del

Popolo». Un ultimo racconto dal titolo Veio, un cane, la minestra comparirà nel 1962 su «Paragone».

Il primo periodo romano ci rivela uno Zolla appena trentenne le cui riflessioni, oltre agli scritti narrativi, vertono essenzialmente attorno alla critica sociale con posizioni e modalità analoghe a quelle che furono proprie dei filosofi e sociologi dell’Institut für Sozialforschung, la Scuola di Francoforte, e in particolare del metodo che Theodor Adorno teorizzava come dialettica negativa. Stimolato e partito nella sua riflessione critica da presupposti comuni, in particolare dalla teorizzazione per cui il totalitarismo sia contenuto tanto nel fascismo che nel capitalismo, Zolla finirà col distanziarsi chiaramente dalle posizioni di Adorno per quel che riguarda soprattutto la metodologia critica, parassitaria, del filosofo tedesco, incline a sfruttare il punto di vista dell’avversario onde minarne dall’interno i processi argomentativi, e per le sue considerazioni sul trascendentale, visto non come un’istanza al di là della ragione e del processo storico ma come forma mercificata del sublime e elemento di dominio. Tuttavia l’antimodernismo dell’autore partirà dalla piena consapevolezza della necessità di una critica radicale alla società di massa e da una sostanziale presa di posizione anti-illuminista, elementi costitutivi di una delle opere più conosciute di Adorno, La dialettica dell’illuminismo. La polemica antimoderna si spiegherà diffusamente negli scritti di quegli anni, tracciando un ritratto dell’autore in cui eresia e libertà si mescolano, onestà e coerenza intellettuale si fanno feroci nell’indignazione, nella presa di posizione decisa e solitaria. Uno sguardo erudito ed impietoso verso una società in rovina si ritrova tra le pagine di Volgarità e dolore (1962), Che cos’è la tradizione (1971) e soprattutto di Eclissi dell’intellettuale (1959) – il più importante degli scritti polemici – nonché nell’intensa attività pubblicistica dello scrittore su quotidiani («Corriere della sera», «Il messaggero», «Il giornale d’Italia», «La nazione») e riviste dell’epoca («Nuova Antologia», «Il pensiero critico», «Elsinore»).

Nel primo periodo dell’attività intellettuale di Elémire Zolla, oltre alla narrativa e agli scritti di critica sociale, emerge una terza via di insospettata consistenza. Sono gli scritti di critica letteraria: una moltitudine di interventi su riviste e quotidiani, cui si aggiungono prefazioni e saggi critici, come la prefazione a Confessioni e immagini di Franz Kafka (Mondadori 1960), a l’Età del jazz di Fitzgerald (Il Saggiatore 1960), al Clarel di Melville (Einaudi 1965), l’edizione commentata delle Opere di Sade

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(Longanesi 1961), una scelta di scritti di Emily Dickinson radunati sotto il titolo di

Selected poems and letters (Mursia 1961), e una costellazione di contributi sparsi su

periodici, riflesso di una cultura sconfinata e di un’insaziabile erudizione, che seppe fornire un quadro straordinariamente limpido ed articolato del suo tempo, recensendo di fatto gran parte delle più significative uscite in campo editoriale di quegli anni.

Di questo periodo è anche la collaborazione con la rivista «Tempo Presente», che costituisce l’oggetto specifico di questo lavoro. Iniziata nel 1957 su invito di Nicola Chiaromonte, si interromperà nel 1960, quando Zolla riceve, per iniziativa di Mario Praz, la cattedra di Lingua e Letteratura anglo-americana all’Università La Sapienza di Roma.17 Tuttavia, durante il periodo della libera docenza, l’urgenza di mantenersi scrivendo era incalzante; fu così che accettò di prendere parte come collaboratore alla redazione della rivista. Nonostante la missione intellettuale di «Tempo Presente» fosse precisa e ampiamente dichiarata, la collaborazione di Zolla non fu il frutto di un’adesione senza riserve agli intenti di quell’operazione culturale ma una delle tante collaborazioni che in quel periodo contribuirono ad alimentare la sua indefessa attività scrittoria. Con Silone i rapporti erano distanti ed ebbe qualche fastidio nei rapporti con il redattore Libéra; evitava per questo motivo di fermarsi a lungo in via Gregoriana, dove si recava solo per consegnare gli articoli. Come risulta dai racconti di Grazia Marchianò, «gli articoli battuti a macchina erano consegnati con una puntualità ineccepibile. Se li scriveva a mano, non c’era interpunzione, tratto di lettera che non fosse precisato con minuzia da calligrafo e l’occhio che scorreva la pagina indugiava volentieri su quel nome e cognome allacciati nella firma in un arpeggio elegante e deciso».18

Nonostante l’autore, non essendo parte della redazione, non potesse rivendicare alcuna preferenza o criterio di scelta sul tema degli articoli di cui gli veniva assegnata la compilazione, in «Tempo Presente» emerge un panorama chiaro e ben definito della prima produzione zolliana, nelle sue tematiche dominanti, nei suoi più tipici spunti ed interessi. Il mio lavoro si occuperà di delineare le principali ramificazioni di questa prima fase dell’attività intellettuale di Elémire Zolla e il dedalo di suggestioni che vi si intersecano, riflesse nello specchio della partecipazione a «Tempo Presente». La collaborazione alla rivista, che va dal 1957 al 1960, si snoda in un arco temporale che copre quasi interamente gli anni di questo                                                                                                                

17 Zolla otterrà l’ordinariato nel 1967. In seguito insegnerà per un anno all’Università di

Catania e successivamente a Genova.

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primo periodo. Del 1956 è la pubblicazione del primo romanzo Minuetto all’inferno. Del 1959 è il primo degli scritti del ciclo anti-moderno, Eclissi dell’intellettuale, mentre una svolta silenziosa ma senza ritorno nella prospettiva intellettuale e spirituale dell’autore, come la definisce Marchianò nella biografia Il conoscitore di

segreti, avvenne già nel 1962, con la compilazione dei due tomi de I mistici dell’Occidente e sarà definitiva nel 1975 con il trattato sull’alchimia, Meraviglie della natura. Da qui in poi la feroce critica antimoderna viene sostituita da quattro

temi di fondo che caratterizzano gli scritti zolliani fino alla sua morte: la costruzione di una morfologia spirituale unitaria nelle culture del mondo antico, le indagini sulla diversità (otherness) indigena, sciamanica e orientale, il recupero di una visione della natura e del mondo vivente anteriore alla rivoluzione scientifica e la riscoperta di una conoscenza nutrita degli apporti dei saperi tradizionali, tra cui, ultimo, lo studio degli archetipi. Campi di interesse che non contrastano con le posizioni iniziali espresse nella feroce critica anti-moderna, ma si evolvono, andando a sostituire all’istanza di critica negativa dominante nel corpus iniziale dell’opera un’istanza tutta construens a favore di un umanesimo post-novecentesco, tarato sulle caratteristiche di una società planetaria, dove tradizione e innovazione, valori umani e tecnologie, laicità e fede cessano di confliggere potenziando le rispettive risorse che sono, le une rispetto alle altre, inconfondibili e insostituibili.

I 97 articoli scritti da Zolla nei quattro anni di collaborazione a «Tempo Presente», qui riproposti insieme per la prima volta, sono distribuiti tra le quattro sezioni della rivista – gli articoli firmati e le rubriche «Rassegna delle riviste», «Libri» e «Gazzetta» – e documentano i tre ambiti principali in cui si articola la prima produzione dell’autore: la narrativa, la critica della cultura e la critica letteraria. A tali ambiti saranno perciò dedicati anche i capitoli seguenti di questa tesi.

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CAPITOLO PRIMO

La narrativa

1. Minuetto all’inferno

Per Elémire Zolla l’ingresso nella vita letteraria avvenne nel 1947 quando, appena ventunenne, pubblicò per le edizioni Spaziani Saggi di etica e estetica, un’indagine filosofica dove prende in esame la teoria del contrasto in Benedetto Croce. Lo stile del primo Zolla è ancora tortuoso, ellittico e sembra andare di pari passo con un’altra iniziazione: quella artistica, che il giovane aveva sperimentato sulle orme del padre Venanzio. Gli esercizi letterari, tuttavia, erano stati un’attività costante durante l’intero corso dei suoi studi giuridici; la scrittura, «nutrita di un sapere prelibato e raro»,1 diventa per lo Zolla ancora studente una dimensione analoga a quella della vita, un piacere a cui abbandonarsi e attraverso cui seguire i fili sottili di un’evasione, in cui trovare riparo dal marasma spesso insignificante del quotidiano e, soprattutto, dalle limitazioni a cui lo costringevano i ricorrenti problemi di salute. La tubercolosi, dopo una polmonite contratta nell’infanzia, esplose nel 1948 quando lo scrittore era appena ventenne, per aggravarsi un paio di anni più tardi; a causa dell’infermità fisica – tra fasi di crisi e latenza – anche gli studi subirono una battuta d’arresto e solo quando la malattia sembrò concedere finalmente una tregua fu possibile al giovane Zolla portare a compimento e discutere la sua tesi di laurea.2 La malattia fu però anche un’esperienza di trasformazione che permise allo scrittore di elevare la sua percezione dell’esistenza ad uno stadio più sottile, più penetrante, come se quel senso particolare che permette di intuire e comprendere le cose del mondo si fosse fatto in lui più acuto e adamantino.

                                                                                                               

1 GRAZIA MARCHIANÒ, Introduzione, in E. ZOLLA, Minuetto all’inferno, Torino, Aragno,

2004, p. 12.

2 La tesi, discussa all’Università di Torino nell’anno accademico 1952-1953, si intitolava Le

compensazioni private e gli affari di reciprocità nel diritto commerciale. Negli anni degli studi universitari Zolla aveva coltivato anche uno spiccato interesse per la medicina legale, soprattutto per quanto concerneva la giurisdizione legata alla malattia mentale.

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«Per il giocatore in erba – e di fronte alla vita quale giovane non lo è? – un certo numero di giocate preliminari simulate è una tentazione incoercibile, e poiché nelle vene di EZ scorreva inchiostro da scrittore, quelle giocate di prova furono narrazioni»,3 scrive Grazia Marchianò nella biografia dello scrittore. Il primo frutto in ordine temporale, della triplice ramificazione tematica che caratterizza la più antica produzione zolliana, fu dunque la scrittura narrativa.

La conquista di uno stile letterario fu graduale e trova in Minuetto all’inferno un primo, fondamentale, approdo della sua evoluzione. «Il tirocinio letterario iniziò dall’orecchio. Affinarlo allo stile dei grandi: Yeats, Dickinson, Melville, Mann, Kafka, Proust era il primo passo. Poi bisognava inoltrarsi nel bosco di notte delle loro ossessioni più recondite».4 Fu Marcel Proust che, più di altri, riuscì a insinuare

nello scrittore un elemento di identità; è del periodo di gestazione di Minuetto

all’inferno la lettura di Jean Santeuil, romanzo incompiuto del giovane Proust che si

lega a molti dei temi approfonditi poi nella Recherche. Fu un passo, in particolar modo, che fece trasalire il giovane Zolla: «In quanto al regno dello spirito, egli lo immaginava come sovrapposto alla terra, ma senza che dalla terra vi penetrasse mai nulla, eccetto i profumi, la pietà, la corruzione, la malinconia e i gatti».5 Lo scrittore percepì una corrente di immedesimazione tra sé e il personaggio proustiano; gli sembrò di trovarvi quel senso di straniamento e familiarità allo stesso tempo con l’altrove, che sentiva pesare analogamente sulla sua vita. Non soltanto; coltivare l’idea che il mondo dello spirito fosse permeabile alla soavità ma anche alla bruttura dice molto della mente del giovane Zolla: una mente gnostica, saturnina, consapevole di cercare la luce e insieme di non poter sfuggire alla tenebra. Una mente sottomessa al destino, più che alla necessità storica, quasi un lucido abbandono che si presentava qui nella sua forma aurorale, per inverarsi più avanti nella sua produzione letteraria.

La prima delle opere del tirocinio letterario di Zolla è Minuetto all’inferno, scritto negli anni in cui la ricaduta della malattia rallentava la stesura della tesi di laurea, e pubblicato nel 1956 per Einaudi. A quel tempo lo scrittore viveva ancora                                                                                                                

3 GRAZIA MARCHIANÒ, Elémire Zolla. Il conoscitore di segreti, cit., p. 50.

4 GRAZIA MARCHIANÒ, Introduzione, in E. ZOLLA, Minuetto all’inferno, Torino, Aragno,

2004, p. 13. Marchianò, in questa breve lista di suggestioni fondamentali, ha anche raccolto le figure che più hanno interessato le pagine di critica letteraria di Elémire Zolla e alle quali si è già accennato in precedenza in questo mio lavoro.

5 Il passo del Jean Santeuil, di cui sopra, verrà poi posto in calce alla seconda parte di

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nel capoluogo piemontese (si trasferirà a Roma l’anno successivo); ed è sotto il cielo di una Torino surreale – tra i rettilinei e le straducole tortuose, con le madonnine cariche di ex-voto, negli ultimi anni del regime fascista, che si allacciano le vite dei protagonisti del romanzo. L’opera è suddivisa in due parti simmetriche. Nella prima si intrecciano le storie degli amanti Giulia Pautasso, pittrice, in arte Utasso, e Lotario Copardo. Quando i loro destini si congiungono, si apre la seconda parte (quella che più aveva suscitato un moto di ripulsa in Vittorini), quasi un Prologo in cielo e un

Epilogo in terra, e compaiono sulla scena due nuovi protagonisti: Satana e un

Dittatore, o Demiurgo, che già aveva fatto il suo ingresso nel nono capitolo («Dio o il Demiurgo o il Demonio – o come, con minor fantasia altri preferisce dire – il Destino, o il Genio della storia o lo Spirito umano, insomma il folle e malvagissimo signore che tenta di dimenticare il suo spleen creando sempre nuovi […] frangenti disperati o non del tutto disperati all’umano formicaio, decise di vedere come diamine se la cavassero i personaggi della presente storia»).6

I primi otto capitoli, dedicati alternativamente alla Storia di Lotario e alla

Storia di Giulia, presentano i due protagonisti, dall’infanzia alla prima età adulta.

Lotario Copardo nasce nel 1918 e di lui si narra che «aveva saputo da sempre certe cose fondamentali e segrete», le quali «finirono col dargli un consapevole distacco da tutti, da tutti quegli altri che non erano al corrente di verità così ovvie».7 La convinzione, fin dall’infanzia, di vivere in una finzione ben congegnata lo portava a fingere a sua volta slanci di commovente patetismo, a manifestare una sensibilità lacrimevole; come calandosi continuamente in una rappresentazione ipocrita e calcolata faceva, in questo modo, di sé un piccolo dio che teneva le redini di quel gioco dell’irrealtà, su cui l’infanzia avrebbe dovuto modellarsi, e si deliziava di riceverne in cambio sentimento e meraviglia. Dopo la morte della madre, per mano del padre e della cameriera concubina, l’educazione di Lotario venne affidata alla vecchia lionese mademoiselle Bernabé, che avrebbe dovuto insegnargli il francese (ma in realtà lo rimpinzava di cronaca nera), e ad un’insegnante privata. La vita in questo piccolo mondo teatrale e sospeso, di cui il padre – animalesco ed esuberante – era instancabile animatore, gli sembrava un gioco da palcoscenico, spesso fumosa ma placida. Dodicenne, Lotario, si era appassionato alla lettura e aveva appreso, dagli amici paterni, le regole basilari del commercio; mancava però di «quella                                                                                                                

6 ELÉMIRE ZOLLA, Minuetto all’inferno, Torino, Aragno, 2004, p. 167. 7 Ivi, p. 36.

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rapidità di riflessi, di guizzi belluini propria ai ragazzi che abbiano appreso lezioni di crudeltà e destrezza dai coetanei».8 Fu il ginnasio ad iniziarlo alla vita condivisa: la crudeltà dei compagni da un lato; l’ottusa disciplina del regime fascista, che trovava nella scuola il veicolo più efficace per indottrinare i giovani all’ideologia, dall’altro. L’estraneità di Lotario a quella rappresentazione in miniatura della società fascista rivela sicuramente un parallelismo con la biografia di Elémire Zolla che, sin dalla prima gioventù, disprezzò le idee e le peculiari distorsioni che il totalitarismo aveva disseminato nell’ambiente che lo circondava e nel panorama sociale italiano.9 Lotario, nella sua muta e spesso incredula contemplazione, imparò soprattutto che la vita in comune non può che essere disgustosa e fu cosciente, come concluse una sera scrutando dalla finestra della sua camera, che «sotto quella fungaia di comignoli non avrebbe mai trovato altro che laidezza, inganno, aridità, vuoto e lussuria, o vuoto e follia».10 Diciottenne, era un giovane elegante e raffinato, che recava sempre sul

volto un sorriso condiscendente, maturato in anni di annoiata e schifata solitudine, che lo avevano messo al riparo dall’ostentazione di qualsiasi emozione. Si iscrisse a medicina e trascorse i primi anni universitari con entusiasmo, entrò a servizio in ospedale. La sua fiducia nei metodi dell’accademismo medico, fatto di teorie in voga e di una prassi che nega le cause profonde a favore di una costellazione di fattori o funzioni particolari, presto tuttavia si incrinò. Decise che non avrebbe dato altri esami. La critica alla medicina moderna come una delle schiavitù a cui viene costretto l’uomo nell’età post-industriale, sarà uno degli argomenti esplorati da Zolla nel 1959, nel saggio Eclissi dell’intellettuale: l’ospedale, in cui la società moderna ha relegato la nascita e la morte, è il luogo di un esilio forzato ritmato dalle più feroci consuetudini, una catena di montaggio di cure raramente somministrate con vero discernimento.

Di Giulia Pautasso si racconta l’infanzia rurale; dopo la tragica morte dei genitori, allevata dalla zia Katia, erbaiola dedita a rituali stregoneschi e «tuttora immersa in un mondo cristallizzato attorno all’anno 1000».11 Creatura dal temperamento distaccato, acquatico, «ella fu da sempre negata agli sfinimenti di cuore, alle sollecitudini pratiche e insieme disinteressate, materne. Era curiosa e                                                                                                                

8 Ivi, p. 77.

9 Lo scrittore, incline ad occultare i sentimenti, preferì presto condurre un’esistenza non

integrata e refrattaria al conformismo diffuso; fu solo durante la guerra che iniziò a percepire un cambiamento del pensiero comune, attendendo l’arrivo degli alleati.

10 ELÉMIRE ZOLLA, Minuetto all’inferno, cit., p. 94. 11 Ivi, p. 39.

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proterva fin da fanciulla, incapace d’affetti, e orgogliosa spettatrice di quelli altrui… ma forse è inutile volerla racchiudere in un’enumerazione di qualità: era diversa, modellata via via dagl’istanti che le accadeva di vivere. Era il genere di creatura che nel medioevo sarebbe stata paventata al pari dei gatti neri, sarebbe stata tenuta a distanza come stregata dalle silfidi, dai geni delle acque, gl’incostanti».12 Presto cosciente della sua posizione privilegiata – lo zio Vladimiro era professore a Torino, dove Giulia avrebbe continuato gli studi – non tardò a percepire l’elettiva superiorità che la separava dalla gente del villaggio che presto si abituò a trattare con sprezzo, aspettando il giorno in cui sarebbe potuta fuggire in città. L’alterigia precluse a Giulia qualsiasi rapporto con i coetanei, confinandola a sovrana di un mondo surreale, diviso tra il cimitero del paese e il solaio di casa. L’unico moto di curiosità lo ebbe per la Lena, una ragazza di cinque anni più anziana, che trascorreva al villaggio i mesi delle vacanze. «Lunga e secca aveva uno scintillio d’occhi che denunciava un’imperiosa caparbia, una vena volitiva all’estremo anche se non maligna»,13 la Lena presto condusse Giulia oltre una semplice amicizia; con lei Giulia esplorò la tirannide del desiderio, la scoperta di una forma aurorale di sentimento, fatta di languori, litigi e riconciliazioni. Vi si arrese, succube dell’amica che aveva imparato a premere in lei i tasti giusti, quelli dell’orgoglio e del disprezzo. Così lontana da qualsiasi forma di tenerezza, per Giulia l’iniziazione al sentimento amoroso fu piuttosto un’iniziazione alla percezione del suo corpo, per la prima volta delineato e sensibile. Il soffio delle parole di Lena all’orecchio, i suoi modi insinuanti, il suo sorriso ambiguo, lacerarono per sempre il mondo innocente di Giulia, fatto dei rapporti fragili ma puliti che avevano animato il suo mondo di bambina. Il rapporto tra le due ragazze non si interruppe nemmeno quando Giulia andò a vivere a Torino, dallo zio professore, Vladimiro; Lena la seguì per proseguire gli studi, mentre l’amica prendeva lezioni di pittura dall’anziano e irascibile maestro Sirchia, facendosi poi negli anni conoscere con il nome d’arte di Utasso. Nella vita di città che le due giovani donne condividevano, Giulia iniziò la sua metamorfosi. Liberata dall’influenza paesana assunse nuovi modi, un nuovo viso, cambiarono anche i suoi moti impetuosi e puerili che diventarono più simili a quelli di Lena, l’atteggiamento stupito e lento, la voce penetrante. «Non procedevano allacciate, come ai giorni già distanti della vita al paese, bensì con passo staccato e fiero                                                                                                                

12 Ivi, p. 39. 13 Ivi, p. 66.

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d’amazzoni, nei vestiti di foggia schietta e militaresca, stringendo fra le dita ancora adolescenti, ma già di ambiguo aspetto per la laccatura violetta, carica delle unghie – la trousse con le sigarette egiziane dalla carta rossa, odorose di fichi. Strana mistura di equivoca raffinatezza e di aspra severità».14 Fu seguendo il maestro Sirchia, ad una festa del gruppo chiuso dei suoi mecenati – un universo che affascinava le due donne, che sembrava portare alla luce i loro dormiveglia – che Giulia incontrò per la prima volta Lotario («Lotario scorge solo un giovane corpo che una folata improvvisa di vento modella, irrompendo per la volta spalancata, entro la veste a fiorami. Gli pare anche di scorgere, quando attraversando la stanza ella viene investita da una ventagliata di luce, un volto morbosamente dolce»).15 Sarà invece durante un soggiorno a Capri, che Giulia conoscerà l’avvocato milanese Edmeo Nepote. Nepote in realtà non si era mai laureato, abitava con l’anziana madre in tre stanze in soffitta e viveva nell’ozio, dedicandosi al corteggiamento di ogni donna ricca che incontrava. L’autunno successivo al loro primo incontro, Edmeo, che la considerava una sorta di ripiego dopo il fallimento della corte ad una delle figlie di un federale napoletano, la chiese in sposa, sicuro che il matrimonio gli sarebbe stato comunque proficuo. Lei, abituata ad innaturali amori, accettò; mentre pronunciava il suo sì all’altare «un globo di luce dorata le splendette nel petto, raggiando sempre più chiaro e più forte, via via che si ripeteva: Te l’ho fatta, Lena».

Giulia e Lotario si incontrarono di nuovo durante la guerra, quando entrambi erano sfollati in un villino in collina. Lotario, che aveva scoperto in sé la vocazione alla scultura, vide per la prima volta Giulia durante una passeggiata, mentre procedeva lenta in automobile: «Ella l’aveva guardato, con l’occhio attento e rapido che non ha più bisogno di indugiare, pensò Lotario. Si sorprese a desiderare di incontrarla nuovamente», nonostante il suo consueto distacco, «per natura alieno perfino dai trasporti miti dell’umana simpatia».16 Giulia non si sorprese di provare le medesime sensazioni; nella speranza di rivedere Lotario si mescolavano il rancore e la vendetta: rancore per Lena, che si era presentata a casa dei Nepote per svelare a Giulia i maneggi intrapresi da Edmeo in vista del loro matrimonio. Vendetta nei confronti del marito, a cui voleva ora far pesare la situazione, ricordandogli di essere la detentrice dei loro beni, anche se con il tempo egli era più preso dalla cura di sé, dalla disposizione di un fiore nel vaso, dall’incrocio tra un ireos e una camelia, che                                                                                                                

14 Ivi, p. 109. 15 Ivi, p. 134. 16 Ivi, p. 176.

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