L’Occidente è vissuto e forse perirà per il dissidio dei due miti che si contendono il campo nel suo spirito: il prometeico e l’orfico. Prometeo sottomette la natura a prezzo di aspre sofferenze, reprimendo in sé ogni spontaneità e armandosi contro Pandora, il disordine. Orfeo placa la natura, mirando non a soggiogarla ma a conciliarsi con essa, non a reprimere ma ad ammansire. Tanto Prometeo che schianta o schiva ogni ostacolo sul suo cammino quanto Orfeo armato soltanto della sua lira sono ideali inattuabili della nostra civiltà. Il titanismo e la seraficità sono inadeguati del pari a ispirare la vita quotidiana, eppure il mito prometeico appare «realistico». Di fatto, educare i giovani a ammirare le impossibili gesta dell’eroe prometeico, che è pura efficienza e disprezzo degli affanni e degli affetti, significa farli crollare nella nevrosi almeno quanto istigarli all’orfica dolcezza e liberalità significherebbe esporli a essere travolti e schiacciati.
Ma toccherà promuovere piuttosto il momento orfico, l’idea della socievolezza, dell’eros diffuso ma non orgiastico, contro il regno della forza e della ragione della forza, ormai che l’uomo si va pietrificando nel prometeismo. Toccherà ricordare l’avvertimento di Baudelaire: «La vraie civilisation ne consiste pas dans le gaz, ni
dans la vapeur, ni dans le tables tournantes. Elle est dans la diminution des traces du péché originel»: nella rinuncia
allo spargimento di sangue e nella dissacrazione del sudore.
Montaigne nel capitolo sui «cannibali», Diderot nel supplemento al viaggio di Bougainville, Melville nei suoi viaggi nei mari del Sud proponevano un modello di convivenza orfica; e non diversamente Engels nell’Origine
della famiglia cercava nel profondo pozzo del passato gentilizio una prefigurazione del regno della libertà. Sempre
più commossa e apparentemente oziosa diventa oggi la ricerca del modello che smentisca il tratto sufficiente, «realistico» del dileggio che la nostra civiltà prometeica rovescia addosso al sogno orfico. Margaret Mead scoprì negli Arapesh della Nuova Guinea un ordinamento esente da crudeltà e violenza, ma dove questo affrancamento sembra scontato con l’inerzia del pensiero, la superficialità del sentire, la paura del fascino amoroso. Fra i Ciambuli, sempre nella Nuova Guinea, la Mead scoprì un ordinamento dove la crudeltà ha il suo posto, ma in certo modo è superata perché tutto vi ruota attorno all’attività estetica: fra i Ciambuli le cerimonie iniziatiche non servono a formare i ragazzi, ma piuttosto i ragazzi sono iniziati affinché si abbia pretesto per una sontuosa cerimonia. Meno suggestivo era l’esempio dei Bororo esplorati da Lévy-Strauss. Ora un popolo, da quel che se ne sa, esemplare e propriamente orfico si propone all’attenzione: i Piaroa, indii del Venezuela, visitati da Giorgio Costanzo, che ha raccolto con garbo le sue impressioni e tradotto i canti in Poesie degli Indios Piaroa (edizioni Scheiwiller, Milano, 1957).
I Piaroa vivono ora tra putride foreste e livide savane; forse in tempi remoti ebbero una patria meno avara e insidiosa: il loro rifiuto della violenza li ha confinati in un ridotto tropicale protetto dalla povertà e dall’impervietà, dove la tisi li assottiglia e stronca prima che raggiungano l’età matura. Sono nudi, vivono in capanne vastissime arredate di amache e sgabelli, coniugano i verbi soltanto al presente. Non solo tollerano senza ribellione le efferatezze ed i ratti dei vicini bellicosi e dei bianchi (gli «uomini pelosi dagli occhi lucenti», gli «uomini dalla voce di cane»), ma fra loro non ricorrono mai alla punizione penale. Esiste una formula d’allontanamento per la nube tempestosa, per lo spirito del male, per l’adultera alla quale non si voglia concedere perdono, ma non si conosce fra loro il gesto chirurgico della sanzione punitiva. Non esiste un capo dotato di autorità, ma soltanto un consigliere
autorevole ed il mago è soltanto colui che «si preoccupa» dei malati. Chi viene colpito dalla riprovazione sociale si allontana: può rifugiarsi fra i bianchi o in altra tribù, di fatto si uccide nella selva. I bambini sono formati non dalle percosse, ma dalla minaccia di essere esclusi, ignorati dalla comunità. Dice il Costanzo che «i Piaroa camminano con passo elegante e morbido, parlano poco e a bassissima voce, non gesticolano mai, non manifestano reazioni di meraviglia, di sorpresa, di paura». Si intrattengono con i fiori e gli animali, mormorano poesie fra sé e sé variamente modulando la voce. La loro economia è rudimentale, la pesca e il commercio del curaro sopperiscono ai bisogni; la religione è altrettanto semplice e non conosce manifestazioni rilevanti. I giovani e le giovinette si frequentano liberamente prima del matrimonio, ma è riprovato il costume di farsi doni durante questa età promiscua: garanzia, questa, di purezza nei loro rapporti. Il matrimonio si celebra con un pasto comune, senza particolari cerimonie. Monogami, i Piaroa non escludono in certi casi la poligamia. La libertà amorosa fra loro è pari a quella che regnava tra i Samoani studiati dalla Mead (prima che l’ossessione e la pudibonderia missionarie li contaminassero), e una pari serenità la corona. Amore e morte non debbono essere visti nella grande capanna; amanti e moribondi debbono inselvarsi, così si preserva la sacralità della morte e dell’amore. All’arrivo delle piogge tutti si raccolgono sull’aia comune del clan e ballano, agitando la testa a simulazione d’inseguimenti, scuotendo freneticamente le gambe, ma tenendo immoto il tronco. S’interrompono per attingere ad una conca colma di una bevanda profumata, e cedono soltanto quando si sentono esausti. Così dice una loro poesia:
Com’è bella la danza dei ragazzi! Io, vecchio, danzo nell’amaca, i miei piedi sono freddi. Lontano, nella selva presso la grande pietra nera, solo la tigre li scalderà col suo fiato. Quando sarò morto
voglio danzare con piedi di bambino davanti alla luna
quando la pioggia farà lucenti le pietre.
Ecco una canzone a ballo:
Danzo con te, Merica. La tua mano
è come il tenero frutto della palma, il tuo piede
è come il seme del cotone leggero e silenzioso,
il tuo fiato ha il gusto dell’ananas ma la tua bocca non ha spine. Vieni con me nella selva, vieni con Menaue.
Vieni con me sulle pietre calde del fiume. Io vedo la luna nei tuoi occhi,
nel tuo seno è il miele. La mia vita sarà dolce.
Altri canti narrano delle scorrerie ladronesche dei bianchi: gli uomini dalla voce di cane sulle canoe dal remo urlante passano sul fiume dove l’acqua è malata, gli uccelli si nascondono nelle nuvole calde; i Piaroa restano immoti a subire la spoliazione nella loro capanna. La violenza è assente fra loro perché è scomparsa la volgarità, radicata nel confronto competitivo e nella paura, nella disarmonia. Essi fondono il gusto artistico dei Ciambuli (non solo nelle poesie, che paiono incantevoli, ma in pitture rupestri simboliche e figurative) con la mitezza degli Arapesh, schivando lo scotto di crudeltà che pagano i primi e quello di superficialità che pagano i secondi.
Pare a Costanzo che una ragione d’inferiorità loro sia nell’individualismo che egli stupisce possa spingersi fino all’indifferenza di fronte al suicidio d’un compagno, indifferenza che invece è naturale, poiché soltanto un oscuro senso di colpa per la morte del suicida provocherebbe la costernazione funebre. I Piaroa hanno spezzato il circolo vizioso che lega le colpe alle punizioni e queste a quelle (si soccombe alla tentazione di imitare il prevaricatore colpendo in lui il desiderio di emularlo), le iniziazioni sevizianti alle guerre e queste a quelle. L’affetto che circonda i bambini e la contemporanea distanza da loro, la libertà dei costumi e il contemporaneo pudore che tutela l’amore (che essendo un superamento dell’istinto gregario è bisognoso di solitudine) sono tratti della vita piaroa che si è indotti a mettere in rapporto con l’assenza del narcisismo e del sadomasochismo, a conferma dunque della teoria freudiana sulla genesi delle aberrazioni. Che cosa può portare la civiltà bianca ai Piaroa? Nulla, poiché basta un minimo scarto per sconvolgere l’equilibrio; forse (e gravemente dubitando) si potrebbe regalar loro gli antibiotici.
Piuttosto: quanto della loro soluzione può essere proficuo per noi? Il sathyagraha, la non-violenza di Gandhi, poté riuscire efficace in India, almeno quanto la mansuetudine piaroa è riuscita efficace grazie alla
conformazione della terra ed al clima di certe regioni del Venezuela. Ma a noi può essere di soccorso? Di fronte ai totalitarismi si è ridotti alla non-violenza volenti o nolenti, quindi essa perde ogni connotazione morale. È questa la situazione radicalmente nuova che Martin Buber ricordava a Gandhi quando questi suggeriva agli ebrei tedeschi di ricorrere alla non-resistenza sotto il nazismo. Il rifiuto di stare al gioco della forza è privo di senso se manca di eco e visibilità (come nell’èra dei mezzi di massa) e se non può più essere scelto in quanto il materiale umano viene spostato e modificato a talento della burocrazia. L’orfismo coatto del materiale umano si riduce a passività inebetita e si avvera il pronostico di una poesia piaroa, quella che comincia: «Un giorno la luna si fermerà nel cielo, i fiori saranno freddi e duri, nelle selve soltanto le pietre cresceranno…».
[37]
Anno III, n.ro 3, marzo 1958, pp. 261-262.
[Gazzetta] Fantaletteratura
Visto l’interesse sociologico e psicologico della fantascienza, già a suo tempo ospitata sulla sua rivista, Jean-Paul Sartre ha accolto nel numero di gennaio-febbraio di Temps modernes un esempio di fantaletteratura o fantapoesia, intitolato «La poésie italienne contemporaine», a firma di Maria Brandon-Albini.
Come avviene per la lettura dei romanzi di science fiction, si resta con un’impressione di sgomento, che lentamente fa posto a una turpe assuefazione. La terra siderale, che viene chiamata Italia nel racconto, era abitata in tempi andati da due mostri: Carducci «à la fois romantique et classique» e D’Annunzio «décadente et trop riche, mais lui aussi empreint d’une certaine rhétorique». Come si vede sono ardui da immaginare, ma ancor più lo è la banda che prese il potere in seguito: «la fameuse école hermétiste», composta da Ungaretti (descritto con parole di Papini), Montale e… Saba.
«Avant d’examiner la poésie de l’après-guerre, nous devons évoquer trois poètes solitaires, qui
n’appartiennent à aucune des tendances de leur époque. Betti, Scipione, Giandante». Dopo Giandante arrivò la
poesia della Resistenza, ovvero il poema Caino di Gino de Sanctis.
Un minimo di verosimiglianza è necessario anche alla fantapoesia, e poiché si pensa che in genere una storia letteraria sia in buona parte storia di riviste, ecco che riceviamo notizia di fantastiche riviste, determinatrici del gusto, insieme alla estetica di Croce, ovvero La strada, Momenti e Girasole, quest’ultima la più rilevante, forse perché più misteriosa.
Giungiamo infine ai nostri giorni; la signora Brandon-Albini elenca i poeti eminenti: Pasolini (qualche tratto verosimile nel paesaggio non gusta, sconcerta anzi ancor di più), Vittore Fiore, Pio Rasulo. Ma «une femme se
détache dans cette foule de poètes, Biagia Marniti».
Del resto la poesia dialettale – ci vien detto da Temps modernes – è altrettanto importante della poesia in italiano. Ebbene, i due poeti dialettali citati sono un siciliano, Franco Buttitta, ed un veneto, Pasolini. Atterriti dalla visione di Pasolini veneto, di Saba ermetico, perseguitati da Giandante e Rasulo, sommersi infine in gorghi di numeri del Girasole e della Strada, deponiamo Temps modernes e, di fronte alle cronache nostrane di poesia che tanto ci immalinconivano, sentiamo di essere in un mondo dopotutto amabile e tollerabile. Il solito effetto della fantascienza.
[38]
Anno III, n.ro 4, aprile 1958, pp. 325-327.
[Rassegna delle riviste] Stati Uniti
PERDITA DI TEMPO per iloti, dispersione per incolti dilaniati dalle loro preoccupazioni, che non chiede concentrazione e non suppone facoltà di pensiero, che non accende altra luce nei cuori se non quella tetra di diventare «stelle» dell’industria hollywoodiana: così giudicava il cinematografo Duhamel. Benjamin riprendeva l’arringa: il pubblico è sì un giudice, ma distratto, è sì un esaminatore, ma disperso e disattento; l’attore teatrale si presenta al pubblico con la sua persona, l’attore cinematografico si presenta attraverso un apparato, entro il quale prende posizione verso di lui l’operatore. Pirandello suggeriva a Benjamin con Si gira altre battute della diatriba: l’alienazione cinematografica è pari a quella di chi si vede allo specchio, salvo che l’immagine è diventata trasportabile, l’attore è esiliato non solo dal pubblico ma dalla sua stessa persona. All’assenza di aura, di singolarità irripetibile, viene sostituita la falsa aura del culto della «stella» promosso dall’industria. D’altra parte, se chi contempla una pittura si può abbandonare alle associazioni, chi guarda un film subisce una serie di traumi istantanei. Adorno ha condensato la tesi d’accusa in poche righe: l’essenza del film è la duplicazione di ciò che è, un raddoppio del reale che si finge immagine.
Dwight Macdonald non aveva ancora affrontato nei suoi termini essenziali il problema e quindi il suo giudizio, che ha il merito di non cadere nel dogmatismo e di evitare altresì ogni volontà di conciliazione coi fenomeni di massa, assume un carattere di grande importanza. Gliene fornisce l’occasione una rassegna di libri di argomento cinematografico uscita sul numero del 15 marzo del New Yorker. Secondo Macdonald, lo sviluppo naturale dell’arte cinematografica fu interrotto, ed è subentrata una precoce decrepitezza con caratteri alessandrini ancor prima che fosse formato il vocabolario stesso del linguaggio cinematografico: «Ci sono ancora degli effetti puramente filmici, ma essi sono mere decorazioni della struttura fondamentale, che non è filmica bensì letteraria e teatrale». Arnheim, il regista tedesco che si è venuto dedicando alla teoria psicologica del film, ha sunteggiato i pericoli così: «Non dobbiamo scordare che nel passato l’incapacità di trasportare la esperienza immediata e di trasmetterla agli altri rese necessario l’uso del linguaggio e così costrinse la mente a sviluppare i concetti… Quando la comunicazione si può raggiungere puntando il dito, le labbra ammutoliscono, la mano che scrive si inceppa e la mente si raggrinza».
Macdonald si dichiara d’accordo con lui: ogni miglioramento tecnico, a cominciare dall’aggiunta della colonna sonora, è stato un peggioramento estetico. L’arte cinematografica può esistere in quanto violenta la realtà immediata, e gli accorgimenti a disposizione del regista sono noti: il più importante tra essi è il montaggio, usato per la prima volta da Griffith con intenti d’arte. Ma l’industria ha coartato le possibilità inventive e quindi estetiche, la sintassi cinematografica non è stata arricchita dopo le avventure di Griffith e dei grandi russi. «Nascerà un altro Griffith che tagli il cordone ombelicale? Non credo, anche se vanno sorgendo, in questi ultimi anni, produttori indipendenti che hanno scosso il monopolio delle grandi case…: l’indipendenza ha prodotto poche cose che siano esteticamente diverse dalle precedenti. Inoltre l’ancien régime è ancora potente grazie al controllo delle reti di distribuzione… Infine il cinematografo è una forma d’arte collettiva, la cui tecnica cioè è tale che l’artista non può mantenere degli alti livelli indipendentemente dal livello generale della società in cui vive. Poeti, narratori, compositori, pittori e scultori possono creare coi mezzi più semplici (matite, carta, colori, pennelli…), mentre un regista ha bisogno d’un equipaggiamento costosissimo, che esige un pubblico di massa di cui il pittore, ad esempio, può fare a meno… La crescita del film come arte ebbe luogo prima che il controllo finanziario o, in Russia, politico, la impedisse». Lo sviluppo stereoscopico rende impossibile la composizione dell’immagine: allora gli unici effetti cinematografici sono quelli stessi del teatro; perfino il montaggio o il cambiamento dell’angolo di visuale diventano impossibili se l’illusione della realtà si rafforza nella misura consentita dagli ultimi ritrovati del cinerama: le scene dovranno essere registrate così come sono per tutta la loro durata e senza cambiare visuale; il cinematografo al massimo del suo sviluppo tecnico regredisce alle sue origini pre-artistiche, e l’unica differenza sarà che, invece di avere dinanzi a sé aperti liberi orizzonti, il film sarà chiuso fuori dal tempo.
La conclusione è dunque di condanna del cinematografo, il cui cursus honorum si è rivelato un curriculum
morbi, anche se Macdonald non giunge alla pronuncia di altri critici: non è bene per l’uomo guardare riproduzioni
meccaniche mobili della realtà. Di certo il cinematografo è, quando arte, arte popolare, nella linea dell’antica pantomima; e guai alla civiltà che pregi la pantomima più dell’autentico teatro, e beati i tempi in cui la Comédie
française poteva disporre del braccio secolare per cacciare da Parigi i comici italiani.
Dennis H. Wrong recensisce sul Reporter del 6 marzo il libro di Richard Hoggart The Uses of Literacy. Hoggart ha svolto un lavoro di grande importanza selezionando locuzioni e proverbi popolari che formano insieme un quadro coerente della cultura orale, sulla quale agisce distruttivamente la presenza di una nuova cultura in certo modo imposta dall’alto, quella dei mezzi di massa, che lo stesso Hoggart studia anche in un suo aspetto trascurato: le canzonette, non solo per il loro contenuto verbale, ma anche per lo stile del canto e la recitazione istrionesca che ne formano parte sostanziale. L’egualitarismo, da fermento di rivolta e di affermazione, diventa il livellamento implicito nel motto commerciale: «Tutti fanno così»; il «vivi e lascia vivere» cessa di ispirare la tolleranza per costringere a un cameratismo superficiale; «in alto i cuori» smussa la realtà invece di far superare le difficoltà. Così il dileggio delle «fronti alte», degli intellettuali, che era un atteggiamento tipicamente piccolo-borghese, si diffonde nella classe operaia inglese, anche se manca il tono ossessivo e paranoico dell’anti-intellettualismo americano. «I pubblicisti popolareggianti continuano a rassicurare il loro pubblico che non ci si deve vergognare di non essere degli intellettuali, che vi sono altri tipi di maturità. Questo è vero, ma cessa di esserlo dal momento in cui lo si dice, a causa del modo in cui si dice».
Sullo stesso numero del Reporter, M. J. Rossani tenta di riassumere gli argomenti a favore e a sfavore di un approfondimento della depressione economica: come sempre, le prognosi sono talmente ipotetiche e condizionate da non riuscire affatto illuminanti. Una conclusione resta certa, ed e che l’azione governativa si impone in modo sempre più stringente e l’ottimismo ufficiale diventa sempre più vacuo. L’editoriale della rivista ricorda che i russi «nei calcoli errati dei loro capi hanno l’equivalente delle nostre depressioni».
Il Bulletin of Atomic Scientists ha pubblicato in gennaio un numero speciale sul tema «Le radiazioni e l’uomo». Selove ed Elkin, gli scienziati che hanno curato il numero, richiamano preliminarmente la vastità del materiale ancora non classificato sul problema dei residui atomici e il fatto nuovo del raccolto di riso giapponese, nel quale è presente una percentuale di stronzio 90 superiore a quella riscontrata alle stesse latitudini in altri paesi con eguale livello medio di residui: «Questo ci insegna a non ragionare soltanto in termini di livelli medi, ma di variazioni di livelli». Molti dei contributi vanno segnalati. Tra essi l’articolo di Brues illustra il ruolo delle radiazioni
nel favorire la leucemia: i radiologi sono più colpiti degli altri strati della popolazione, gli abitanti di Nagasaki e Hiroshima sottoposti alle irradiazioni e gli artritici trattati con raggi x sulla spina dorsale sono anche più suscettibili della massa alla malattia; ricerche inglesi hanno dimostrato una proporzione eccezionale di casi di leucemia tra i bambini irradiati nello stato fetale in occasione di esami radiologici del bacino materno. Anche Neuman esamina il rapporto tra lo stronzio 90 e la genesi della leucemia. Nel suo contributo, Crow esamina invece gli effetti genetici, mettendo in rilievo il principio per cui non vi sono dosi di irradiazioni troppo basse per produrre mutazioni: «Non esiste una dose innocua; ogni dose, per bassa che sia, comporta un rischio proporzionato a quella dose». Perciò i residui atomici stanno certamente producendo effetti geneticamente nocivi, anche se sarà impossibile determinarli: «Le persone danneggiate per effetto dei residui saranno disperse nel novero assai maggiore di vittime di altri fattori…, ma se tutte le vittime si potessero identificare e radunare in un solo luogo nello stesso istante, tutti