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CAPITOLO PRIMO

3. Cecilia o la disattenzione

L’ultima opera narrativa di Elémire Zolla è Cecilia o la disattenzione,77 romanzo edito nel 1961 da Garzanti ma già anticipato sulle pagine di «Tempo Presente»,78 che ne aveva ospitato il primo capitolo, nel febbraio del 1959, con il titolo Notte e giorno. Il romanzo, come già Minuetto all’inferno di ambientazione torinese, si apre sul primo mattino della protagonista, Cecilia Duboz; una giovane

career girl, che insegna in una scuola per la pubblicità, una donna indipendente che vive all’americana – e in America aveva in effetti vissuto, frequentando Yale – e per

questo vuole farsi chiamare Silia. La sorprendiamo mentre si desta da un sogno affannoso. La luce grigia dei primi istanti di veglia sottolinea la durezza del suo volto: «la mandibola fragile e appuntita, con gli angoli netti sotto le orecchie minute; il labbro crespo di febbri inosservate s’inarca sul mento, un fosso profondo sale alle nereggianti narici, all’erto naso. Gli occhi grandeggiano azzurri e controluce grigi, la fronte su quelli fa un bozzo per ritirarsi subito sotto la rossiccia cresta della chioma. Sotto il viso un corpo invece, colmo, un seno pronto a dar latte, la sella delle reni s’incava per poi maestosamente allargarsi nelle natiche tremolanti al loro vasto peso. […] Piedi e mani invece ha trasparenti, come di fanciullina. Dietro l’arricciato pelo, rossiccio e nero come mogano, dietro la breve bestiale solennità, dietro l’irsuta grazia cova il segreto di Cecilia».79 Il segreto è che Cecilia aspetta un figlio. «Non attonito come nell’animale tutto tiepido di pelo, non placido e orgoglioso come nelle donne felici del loro stato, con occhi però di volpe intrappolata, e nemmeno disperato come in altre risolute ma tremanti all’idea di schiacciare come un parassita insediato sotto la pelle l’embrione, ma indeciso è l’animo di Cecilia: ancora non ha risolto che fare».80 Quella stessa mattina la attende l’appuntamento con il ginecologo, il                                                                                                                

76 ELÉMIRE ZOLLA, Il satanismo, op. cit., p. 119.

77 ELÉMIRE ZOLLA,Cecilia o la disattenzione, Milano, Garzanti, 1961.

78 ELÉMIRE ZOLLA,Notte e giorno, in «Tempo Presente», anno IV (1959), n.ro 2, pp. 115-

124; e vedi qui APPENDICE, [64.]

79 Ivi, p. 116. 80 Ivi, p. 116.

professor Bentrame, che le comunicherà i risultati dell’analisi e le suggerirà le soluzioni possibili, aiuterà Cecilia a delineare dinanzi a sé quelle ipotesi di scelta che non è ancora in grado di formulare autonomamente. Se non sarà il Bentrame a fare chiarezza a Cecilia sulle sue volontà, ci penserà lo psichiatra: cinquemila lire a visita «ma dopo si è ripuliti come un quadro di Mondrian».81 Se il medico le suggerirà di abortire, ci sarà la clinica ad occuparsi di tutto, «lei non deve pensare a niente. La clinica baderà al momento a cui non si ha voglia di pensare e che non si deve assimilare. Quanto al dolore, non c’è forse l’anestesia? […] Come l’orazione dei monaci tibetani evoca tutte le forme visibili e le apostrofa dicendo: Sei un’illusione, così il pensiero di Cecilia scioglie la pesantezza d’ogni evento mormorando: Non

drammatizziamo, accettiamo come fanno tutte».82

L’intero romanzo si svolge dunque attorno al maturare disattento, privo di profondità vitale, della decisione di Cecilia: «la decisione di uccidere o quella di lasciar vischiosamente sbocciare e fruttificare e animarsi»83 non viene vissuta dalla protagonista come l’inaspettato stagliarsi di fronte a lei di un momento della sua esistenza denso di significato, a cui accostarsi guardando dentro se stessa, indagando le pieghe minute dei suoi dubbi, della sua volontà. Cecilia affida lo sviluppo della sua consapevolezza allo sguardo distratto, ingenuamente svagato, che getta sulle circostanze della sua vita e sui personaggi che ne fanno parte, i suoi due amanti Matteo e Dionigi – il padre del figlio che porta in grembo («il panico ha colto lui Dionigi quando di Cecilia si è innamorato, si è sentito intriso di un tremante odio per lei. Che cosa può rimproverare a Cecilia? La freddezza, l’adattarsi rapido ad ogni circostanza, l’assenza di vera vita? Ma come dovrebbe essere, Cecilia? Forse il male di Cecilia non sta tanto nel suo essere fredda e automatica, ma nel non esserlo del tutto»),84 i suoi genitori, il professor Bentrame, i quali a loro volta vengono osservati senza essere compresi, incapace Cecilia non solo di conoscenza di sé ma anche dell’altro. Nonostante la sua indipendenza di giovane donna in carriera e la sua potenziale libertà di giudizio, Cecilia è «libera in un deserto luminoso, dove s’aggira simile ad una larva senz’ombra».85

Notte e giorno, descrive la mattina dell’incontro con il ginecologo, che

confermerà a Cecilia di aspettare un figlio. Il professor Bentrame riceve le visite in                                                                                                                

81 Ivi, p. 117. 82 Ivi, p. 117. 83 Ivi, p. 117.

84 ELÉMIRE ZOLLA, Cecilia o la disattenzione, cit., pp. 84-85. 85 Ivi, p. 72.

casa, sul presto, prima di recarsi in clinica: «solo a vederlo, il Bentrame, con quei capelli radi e crespi e canuti sopra il volto grigio, simile ad un vecchio papuaso, ci si raggriccia dal fastidio. Pare nel tatuaggio di rughe ricordare, come con un segnale di minaccia, gli anni di povertà, gli studi faticosi, gli anni di guerra e la fatica di giungere, colpendo altri, alla direzione della clinica. Come nei paesi del sud taluni uomini loschi d’occhio e minuti d’ossatura, per vivere a dispetto del disprezzo che li attornia, imparano a convertire il disprezzo in paura e si dichiarano, con vesti, gesti, parole gettate accortamente, jettatori, simili cioè al rospo che dal pantano getta l’affascinamento sugli usignuoli, colpendo nella loro indifesa ingenuità gli altri animali, tronfi di forza e prosperità e intatto onore e gioconda salute; così Bentrame, sgraziato, inetto a moti di placida dolcezza, pauroso, per poco che si abbandoni, di perdersi in un miele, per lui veleno esiziale, sta agguerrito. […] Vedilo ostentare lungo la giornata per le corsie o anche in casa, quando aspetta visite, i guanti di gomma rosata, portati fuor di necessità, sicché le sue mani inguainate paiono ananas senza scorza, frutti grassi, ed egli rincalza guanti con cura protratta, superflua, allusiva non si sa a quale minaccia. Suole dilungare le visite, poiché prima a lungo guata la tensione ond’è accolta dalla paziente la sua necessaria, più che autorizzata violenza. È uno dei momenti dei quali si compiace, un momento, come egli si dice,

delicato, rusticamente arpeggiando, dittongando alla piemontese la a. La paziente è

educata per mille ingiunzioni al pudore, per moti ereditati a mantenere un alone di paura e rispetto attorno a una parte di se stessa, e non solo del suo corpo e non solo sua, poiché è la parte capace di fruttificare, la parte che sta in contatto con le forze divine della crescita e della sorpresa».86 È con questa presunzione sacrilega che egli attende Cecilia; egli ne può violare il pudore – sarà completamente giustificato nel farlo, è richiesta della paziente che questo accada!, e crogiolarsi nel piacere di infierire sull’intimità della donna, in particolar modo di quelle la cui bellezza e superbia lo turba: «così doveva, con Cecilia; oh, pensava fumando nel suo studio, avrebbe ben saputo piegarla, stracciarle quell’alterigia, prima massaggiando i perineali, poi sfiorando le ramificazioni dei nervi e aggiustando allo sfioramento il massaggio delle masse muscolari, così movimentante. Ecco palesarsi il risultato: il sangue irrora i lobi delle orecchie; oh che Cecilia avesse portato, il giorno che gli si porgesse il destro di visitarla, quelle gemme a conchiglia che le pizzicavano i lobi! Avrebbe ben visto le dita imbarazzate correre a toglierle! Respiri a fondo! Aaaah                                                                                                                

fondo! avrebbe ordinato con ruvido accento, che avrebbe aggiunto, per il suo tono:

qui vigono leggi che né tu né io abbiamo creato, in fondo mi secca di fare ciò che faccio, sbrighiamoci senza storie. E mentendo, poiché respirare a fondo è pur sempre sospirare e massaggiare è pur sempre accarezzare. […] Oh, è ben necessario veder disfarsi la maschera delle donne come Cecilia, che pretendono di non vedere chi come lui dietro la faccia turpe getta richiami di servo, trionfante nella rivalsa».87

Giunta la donna nello studio domiciliare di Bentrame, egli sa già quale risposta lei attenda – la positività o meno del test di gravidanza, per questo indugia, «prende a frugare fra le carte sul tavolo, mormorando: Dovrebbe essere qui il biglietto… ai

dôvria bèn éssje, calcando sulle parole dialettali, altro suo modo d’umiliare, quel

torinese strascicato, esibizione di intimità proterva, inutile, ma piena di una familiarità falsa e dunque, così spera, avvilente. Il risultato è positivo. Bentrame lo sapeva, ma ha voluto far passare una certa frazione di tempo, da gustare».88 Cecilia

non reagisce, maschera lo smarrimento che le provoca la notizia («una spada le tronca netto il capo ed ella lo regge per i capelli a modo di lanterna, uno stormo d’uccelli neri le esce dalla gabbia del petto lacerata a beccate, lentamente ella si trasforma in ulivo, lo strazio che liquefa il petto e la pancia è come lo sfrigolìo della carne che si muta in legno e la scorza già le copre il pube, e come un albero è fissa in quel luogo per sempre»)89 e comincia a passare in rassegna le sue scelte, cercando di non dare loro troppa importanza: può abortire, succede tutti i giorni, o può crescere il bambino, inventarsi qualche fantasiosa giustificazione che legittimi il suo essere nubile e madre. Il consiglio di Bentrame è inequivocabile, egli le consiglia di abortire, una scelta che deve compiere entro una quindicina di giorni, perché resti ’na

rôbëtta da niente. Cecilia non coglie le bieche provocazioni del medico, non ne è

turbata perché egli è per lei solo uno strumento attraverso cui giungere ad una scelta, quale che sia, possibilmente la più semplice. Il pensiero di quel figlio concepito con il suo amante Dionigi non è, infatti, che un fastidiosissimo caso «da subire mostrandosi in pieno controllo (non di esso, ma, ahi, di se medesimi)»,90 per cui ogni pensiero che complichi lo svolgersi lineare di una rapida risoluzione è da allontanarsi, come si evita un ulteriore, evitabile, ostacolo.

                                                                                                               

87 Ivi, p. 121. 88 Ivi, p. 122. 89 Ivi, p. 123.

Lasciata la residenza di Bentrame, Cecilia si disperde nella moltitudine cittadina e rifugia le sue inquietudini in un bar, in attesa di recarsi alla scuola di pubblicità. «Rassicura, il bar, perché nuovo. La luce all’interno è livida, al banco nichelato stanno alcuni giovani dai capelli tosati, in camicie a fiorami. Qui Cecilia può far passare il tempo, prima d’andare a far lezione; questa è un’officina per far colare il tempo».91 Si accorge di essere entrata nel locale per soffocare un trasalimento, un’accelerazione del cuore, come la definisce, relegandola a mera inquietudine fisica e non mentale. Un moto inconsapevole dell’animo. È al juke-box che affida la sua quiete, «fa scivolare un gettone e ode con sollievo la piena dei suoni investirla: Six o’ clock stop seven o’clock stop. Ecco che si spande dalla macchina il rosario che prima, all’annunciazione datale dal Beltrame, invano ha tentato di recitarsi: il tempo disporrà di tutto, non si deve drammatizzare, il tempo s’incaricherà di tutto, la litania del dio orologio lo proclama […] Ma litania a scatti, non ondulante ma percotente, come maglio su lastra o collo che inclini a consentire, assentendo inebetito a tutto, dicendo: sì, sì,sì, collo di chi trasmuta, grazie a tal movimento, angoscia e pena e malsopite domande. […] Cecilia torna a sentirsi tranquilla, la paura è sgominata, ricacciata nella sua notte. […] trangugia una bevanda né ruvida né dolce, appena scintillante di gas. Del nome della ditta produttrice è tappezzato il locale e ciò dà ragione e conforto al bere: ordine bisbigliato, cui si obbedisce per disattenzione. Esce infine, nuovamente sgombra e pura: staccate da lei le frecce onde da qualche buia lontananza è stata saettata; anche se tuttora altre le frullano accanto più non se n’accorge, o forse sì, ma al modo d’un pesce che una luce frugante per le acque turba e che con un colpo di pinna si cala più in basso, dove la tenebra è intatta e perfettamente ravvolge, dove isolati l’uno dall’altro altri pesci della stessa specie posano fermi, salvo un brivido di pinna di tratto in tratto».92

Nei tre scritti narrativi presi in esame vediamo delinearsi i tre ambienti sociali che principalmente caratterizzano la vicenda italiana a cavallo tra il primo e il secondo dopoguerra: Minuetto all’inferno è lo specchio di un’aristocrazia che aveva brillato ad inizio secolo ma si avviava verso una fase di declino; l’humus sociale di

Visita angelica in Via dei Martiri è tutto popolare; in Cecilia o la disattenzione

osserviamo invece il primo sbocciare della borghesia cittadina, figlia del boom economico degli anni Sessanta. A queste diverse classi, nella narrazione, corrisponde                                                                                                                

91 Ivi, p. 30. 92 Ivi, pp. 32-33.

non solo la scelta di un preciso registro linguistico ma anche di uno stile diverso, che richiama alle tre principali realtà letterarie italiane di metà Novecento: l’estetismo decadente dannunziano, il neorealismo, il romanzo sperimentale. In Minuetto

all’inferno la scrittura è ancora quella del romanzo primo novecentesco che si era

nutrito di tutta la tradizione del secolo precedente, la sintassi è riccamente articolata, a tratti quasi baroccheggiante, tesa alla descrizione e ad una ricerca di intima musicalità tra le parole (caratteristiche che avevano contribuito a suscitare la diffidenza dei suoi primi illustri lettori, in fase di pubblicazione). L’incursione nel vernacolo è limitata alla presentazione dell’ambiente contadino: è l’anziana zia Katia a parlare in dialetto piemontese, mentre Edmeo Nepote nelle sue eleganti conversazioni salottiere prediligerà piuttosto la citazione colta in inglese o francese. La cultura nazionale risente di quella delle prime suggestioni portate da oltreoceano, del jazz, della cocaina. Le relazioni sono ancora il mezzo attraverso cui giungere ad una stabilità o ad un’ascesa sociale, i matrimoni un patto non solo tra individui ma, soprattutto, tra patrimoni e ben possono accettare l’adulterio, purché mantenga intatti gli equilibri che l’unione è andata creando. In Visita angelica in Via dei Martiri l’uso del vernacolo è invece lo specchio diretto delle classi urbane più umili, protagoniste del racconto: il chiacchiericcio dialettale, riflesso di una bassa scolarizzazione, diffuso tra il grigiore dei grandi complessi abitativi che ospitano decine e decine di famiglie e sono simboli e cardine dell’inurbamento, si va ad innestare in uno stile più prossimo al realismo, nel quale viene lasciato meno spazio alla descrizione e più all’incalzante incisività del discorso diretto. In Cecilia o la disattenzione sembra di percepire, alla lettura, distintamente la repentinità dei cambiamenti intervenuti nella società del secondo dopoguerra. La protagonista è una giovane donna di famiglia borghese che ha avuto la possibilità di emanciparsi: studiare all’estero, lavorare, vivere liberamente la sua vita sentimentale. La cultura di cui si nutre è ricca di influenze pop: la pubblicità, il rock’n’roll, la cronaca mondana e le riviste di moda (Cecilia segue con seria precisione forse solo i dettami di Vogue). Lo stile narrativo è molto più asciutto, i periodi sono più brevi ma la resa è spesso più caustica, affidata all’impressione e al dettaglio oggettivo piuttosto che all’introspezione psicologica.

La pubblicazione di Cecilia o la disattenzione nel 1961 conclude l’esperienza narrativa di Elémire Zolla. Racconterà Grazia Marchianò, in un’intervista a Doriano Fasoli del giugno 2005, a proposito di questo periodo della produzione dell’autore: «per penetrare nei labirinti dell’anima umana non c’è niente di meglio che dar vita a

personaggi, sbozzarne i caratteri, inscenare peripezie che li riguardano, affittare per loro passioni e idee (nel caso migliore), aiutandoli a nascere, consistere, muoversi e dissolversi tal quali maschere sullo sfondo di una vicenda ipotetica, illusoria non più della vita stessa. Ma che la narrativa fosse un esercizio letterario perpetuo, Zolla lo escluse abbastanza presto. Scrivere storie fu lo stratagemma adottato lì per lì per penetrare in certi interstizi mentali che nemmeno gli studi di psichiatria che fece al tempo in cui frequentò legge all’Università di Torino potevano mettergli a nudo con altrettanto gusto e senso della scoperta da parte sua».93

                                                                                                               

93 L’intervista è stata pubblicata nella rubrica Riflessioni in forma di conversazioni, a cura di

Doriano Fasoli, per il sito Riflessioni.it. Una conversazione di Fasoli con Elémire Zolla ha dato vita al volume Un destino itinerante: conversazioni tra Oriente e Occidente, edito nel 1995 da Marsilio.