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DUE DEFINIZIONI diverse si possono fornire del termine «intellettuale», la prima suonando

a un dipresso così: intellettuale è chi esercita l’intelletto, ovvero chiunque detenga una tecnica; la seconda invece: chiunque abbia un’educazione che gli consenta di esprimere la sua personalità entro il suo particolare lavoro. Mentre la prima sta al positivo ed al sociologicamente utilizzabile, la seconda, piuttosto che una categoria sociale, formula un ideale umano e la parola stessa, «intellettuale», appare una versione moderna e forse non gradevole di altre diverse ed antiche: uomo di occupazione liberale o dotto. Nella cultura italiana l’uso di Gramsci sta nella prima accezione, quello di Croce nella seconda.

In Gl’intellettuali e l’organizzazione della cultura Gramsci poneva questi princìpi: «Ogni gruppo sociale, nascendo sul terreno originario di una funzione essenziale nel mondo della produzione economica, si crea insieme organicamente uno o più ceti intellettuali che gli danno omogeneità e consapevolezza della propria funzione non solo nel campo economico, ma anche in quello sociale e politico: l’imprenditore capitalistico crea con sé il tecnico dell’industria, lo scienziato dell’economia politica, l’organizzatore di una nuova cultura, di un nuovo diritto, eccetera». Ogni gruppo sociale che attinga l’egemonia trova d’altra parte categorie di intellettuali preesistenti, che appartengono a rigore a strutture estinte: così il capitalismo trova la categoria degli ecclesiastici che godeva un tempo il monopolio dei servizi ideologici a favore dell’aristocrazia terriera, alla quale forniva la filosofia e la scienza sotto forma di teologia, l’educazione scolastica, la morale, la giustizia, la beneficenza; essa si vide soppiantata in vari settori da altri intellettuali all’avvento dell’assolutismo: dall’aristocrazia della toga, da un ceto di amministratori, scienziati e filosofi non ecclesiastici.

Intellettuale, dunque, per Gramsci è chi possiede una tecnica e questa mette a servizio d’una certa struttura economica e della classe dominante. Poiché le categorie derivanti da classi diverse possono coesistere, poiché la funzione fondamentale di dare omogeneità a un tipo di società è comune a tutte le varie categorie, può nascere una allucinazione, un’idea di intellettuale cioè che abbia di per sé una ragione d’essere ed in sé una funzione: «Siccome tutte queste categorie di intellettuali tradizionali sentono con spirito di corpo la loro ininterrotta continuità storica e la loro qualifica, così essi pongono se stessi come autonomi e indipendenti dal gruppo sociale dominante... Tutta la filosofia idealistica si può facilmente connettere con questa posizione assunta dal complesso sociale degli intellettuali e si può definire l’espressione di questa utopia sociale per cui gl’intellettuali si credono indipendenti, rivestiti di caratteri autonomi». Dunque da un servizio non si può prescindere; e, poiché l’autonomia è un’illusione, spetterà oggi all’intellettuale avvertito di dissipare le nebbie d’un tale inganno, domandandosi quale sia la sua funzione, quale il suo servizio storicamente più vero. Poiché la classe in ascesa è il proletariato e poiché la sua punta avanzata è il partito comunista, all’intellettuale non resta che diventare specialista più politico, ovvero dirigente: «Il modo di essere del nuovo intellettuale non può più consistere nell’eloquenza, motrice esteriore e momentanea degli affetti e delle passioni, ma nel mescolarsi attivamente alla vita pratica, come costruttore, organizzatore, persuasore

permanente perché non puro oratore, e tuttavia superiore allo spirito astratto matematico; dalla

tecnica-lavoro giunge alla tecnica-scienza e alla concezione umanistica senza la quale si rimane specialisti».

Gramsci dapprima salutarmente fonde il tecnico o specialista con l’umanista, ma poi procede a far coincidere un tale tipo di intellettuale con la figura del dirigente politico, imponendogli l’esigenza di mescolarsi attivamente alla vita pratica, ovvero politica. In concreto si sa che ciò significa subordinazione alla linea generale del partito, e riconduce alla figura dell’intellettuale di tipo ecclesiastico. Tale il prezzo della riacquistata organicità del rapporto

intellettuale-società: la perdita della libertà. Replica il marxista: non perdita della libertà, ma rinuncia all’arbitrio; ed è una risposta tipicamente ecclesiastica. In sostanza, l’intellettuale stipula con il partito un contratto di alienazione del proprio pensiero con patto di riscatto al momento dell’avvento della società senza classi. Nel frattempo il sacrificio dovrebbe trovare ampio compenso: non più mero oratore sarà l’intellettuale, sibbene motore della storia; grazie al sacrificio egli influirà direttamente sul corso degli avvenimenti collaborando dapprima all’esasperazione delle contraddizioni del capitalismo, poi al movimento rivoluzionario che instaura la dittatura del proletariato e infine all’edificazione del socialismo e del comunismo: dopo, la sua libertà sarà piena e non riposerà sulla servitù di nessuno. Un contratto che offre apparenti vantaggi: la potestà di agire sul reale vale bene la rinuncia all’arbitrio. Ma tosto si svela la natura demoniaca del patto: infatti chi realmente è destinato a raggiungere il timone della storia? Il dirigente in quanto intellettuale o non piuttosto il dirigente in quanto vittorioso delle avverse fazioni? Giunge a impugnare la sbarra il più machiavellico ed efficiente, dapprima cortigianesco e poi brutale uomo politico, non già l’intellettuale che obbedisce alla sua visione della dialettica storica. Poi sarà la struttura burocratica e gerarchica del partito assurta a fine in sé, come è nella natura dello sviluppo delle istituzioni, che soffocherà l’azione dell’intellettuale- dirigente, anche quando regga per avventura ai sinistri della carriera. Perciò non già alla loro visione della storia sono destinati a obbedire gl’intellettuali-dirigenti, sibbene alla volontà dell’uomo di sangue e di crucci fortunosamente assurto al potere oppure alla cieca logica interna di un’istituzione.

La natura demoniaca del patto non è dimostrata soltanto dall’impossibilità della sua esecuzione, ma anche dalle motivazioni. Gramsci osserva infatti che l’impressione di autonomia che nutrono gl’intellettuali dipende da uno spirito di corpo per cui s’illudono di essere indipendenti dalla classe che li emana, senonché 1° visione della storia che corre verso il regno della libertà può essere costretta in un pensiero meramente classista? Se ogni pensiero fosse null’altro che una proiezione ideologica di interessi di classe, che cosa proverebbe il primato di valore del regno della libertà rispetto allo stato di alienazione umana? Risponde il marxista: non è il filosofo che trae da una concezione della libertà le categorie di giudizio sul capitalismo, ma è il capitalismo che suscita una classe, il proletariato, che non può vivere se non negando la natura di merce cui il capitalismo la riduce: l’intellettuale si pone al servizio di questa classe che ha in sé il germe del regno della libertà, implicito nel suo stesso concetto. Eppure è una risposta inadeguata, perché soltanto in rapporto ad una certa prospettiva di valori appresi da un pensiero che dalla prassi si distingua è dato di ritenere sperabile oltre che eventualmente necessitato l’avvento del regno della libertà: se questo è qualcosa di vagheggiabile il cui avvento convenga affrettare, un dio la cui incarnazione si possa propiziare con sacrifici, lo è solo a patto che si presupponga un giudizio storico che sia anche giudizio di valore.

A questo punto conviene domandarsi se non sarebbe una funzione necessaria all’interno d’un sistema socialista quella di un intellettuale di tipo umanistico che non si mescolasse attivamente alla vita politica o amministrativa, ma anzi svolgesse dall’esterno la sua critica, adempiendo al suo ufficio di agente provocatore sì, ma al soldo del regno della libertà. Chi altri mai potrebbe avvertire il male che il politico non avverte, il male che gli uomini si fanno senza avvedersene (qualora voglia il caso che l’edificazione abbia luogo senza ben più apparenti mali): egli toglierebbe ai dirigenti il peso di una buona coscienza quando credessero di risolvere il problema dell’educazione giovanile con collegi pieni d’aria e di sole e di ginnastica obbligatoria. Solo grazie alla presenza di intellettuali liberi, privi di legami disciplinari e di timori di coercizioni materiali, potrebbe la società socialista sperare di non perdere l’anima. Perché il patto demoniaco, se è esiziale all’intellettuale che lo sottoscrive (né sono permessi dubbi dinanzi al ratto di Lukacs) non lo è meno per lo stesso partito o Stato che lo impone e che si toglie la possibilità del dubbio e dei suoi benefici. Nefasto è il patto, quale che sia la posizione che l’intellettuale come cittadino voglia assumere nella vita pubblica. Senonché, schivato tale

pericolo, non si è fuor della selva. L’astensione dal patto non significa che l’intellettuale fruisca della sua libertà.

L’industria culturale

SIAMO ENTRATI (o, per quel che concerne l’Italia, siamo in procinto di entrare) nell’èra del

tardo industrialismo, i cui caratteri sono la sparizione dell’impresa imperniata sulla figura del singolo imprenditore, la sua sostituzione con aziende colossali, la creazione da un verso di un’élite1 di manipolatori del potere azionario e da un altro la trasformazione del proletariato urbano in piccola borghesia, e la trasformazione del mercato da reattivo in passivo, ovvero facilmente calcolabile e manipolabile in ragione di un atteggiamento etero-diretto o conformistico del consumatore.

La nuova società accentua il processo di mercificazione della vita e non l’apre l’orizzonte ad altro fine se non l’accrescimento della produzione; il suo ideale umano è lo specialista efficiente e consumatore cospicuo, che non ha una sua gamma di predilezioni differenziate, ma si adegua docilmente alle tendenze della produzione. Si suole compendiare tali caratteri nella formula «preponderanza della sfera della produzione rispetto a quella del consumo»: i consumatori perdono infatti ogni autonomia, poiché lo stesso tempo libero viene colmato da un’industria nuova, l’industria culturale, che ebbe le sue avvisaglie nel secolo scorso quando si levò la denuncia di Balzac contro l’azienda giornalistica nelle Illusions perdues o quella di Melville contro l’editoria commerciale in Pierre o le ambiguità, quando Sainte-Beuve coniò l’espressione «letteratura industriale». Erano fievoli precorrimenti del complesso massiccio delle aziende cinematografiche, radiotelevisive, pubblicitarie, sportive che negli Stati democratici sono manovrate da gruppi economici, mentre in quelli totalitari sono assunte dallo Stato, ma che comunque obbediscono alla ratio della società, che si compendia nella massima segreta «non lasciar pensare», ovvero «si ammazzi il tempo libero».

Perché il pubblico vi si assoggetti resta un problema aperto, anche se la psicologia ha tentato di mettere a nudo il processo di spersonalizzazione ed i moventi segreti dell’ansia che fa desiderare tali anestetici ottundenti.

Piuttosto, prima di far leva sul fenomeno per chiarire la nuova situazione dell’intellettuale, giova domandare se non se ne abbiano già tracce nel passato. Nella massima parte dei casi la domanda appare oziosa di primo acchito, valga quello della produzione commerciale e divulgazione massiccia della musica; in passato la musica popolare era semplice, quella odierna deve essere volgare in quanto viene calcolata sulle esigenze di un mercato; in passato poteva essere sentimentale, ora dev’essere sentimentalistica in quanto merce musicale. La manipolazione commerciale impone i singhiozzi che potevano un tempo erompere sorgivi. In altro ambito: il culto degli eroi poteva anche essere illusione, ma era materiata di un certo ordine di valori sentiti seppure criticabili, oggi le celebrità vengono gratuitamente lanciate dalla pubblicità, sicché scompare la stessa possibilità di un raffronto fra l’ideale e il reale, poiché la celebrità odierna non risponde ad altro che all’immagine di se stessa replicata senza interruzione, e la novella kafkiana della cantatrice del popolo dei topi, Joséphine, che non si sa nemmeno se emetta un sibilo ma è certamente la grande cantatrice del suo popolo, è diventata realtà quotidiana.

Per altri settori si potrebbe trovare traccia di precedenti in epoche di decadenza. È il caso degli sports, che oltre al momento nefasto del culto della forza fisica hanno nella loro versione di massa altri e più rilevanti caratteri, e in primo luogo quello di suscitare sentimenti senza base alcuna, che si ostentano senza chiedere soccorso a una qualsiasi idealizzazione o giustificazione umana (e non a torto in italiano gergale portano il nome di una malattia ed in inglese i patiti si                                                                                                                

chiamano fans, o fanatici). Nella Roma post-repubblicana la plebe fu congelata nella sua natura di plebe artatamente, attraverso la coltivazione su scala industriale degli spettacoli più bassi, ad opera dei demagoghi, quasi allo stesso modo della massa odierna attraverso gli sports, che le consentono di gettare l’urlo della sua impotenza dagli spalti degli stadi, e che furono introdotti e finanziati (almeno per quel che riguarda l’Italia) dal ceto capitalistico, poi sfruttati sempre più intensamente dai fascisti (cosicché si può, in genere, stabilire l’equazione: tanto più un governo si mostra totalitario quanto più fomenta lo sport, deviando le passioni dal rapporto con gl’interessi economici o ideali). Eppure non crediamo che ci faccia velo un’idealizzazione del passato se riteniamo che anche per questo riguardo la situazione odierna si diversifichi per un aspetto rilevante: la natura di tali spettacoli era chiaramente riconosciuta dagli intellettuali del tempo, che mostrarono di aborrirne.

La tragedia antica decadde dai tempi di Andronico e Attio a cagione dei circensi, ma il disgusto non fu offuscato nella mente degli uomini liberali, se Cicerone lo manifesta ad Attico e Plinio approva Maurico che sogna l’abolizione dei ludi e i pedagoghi insegnano a Marco Aurelio a non degradarsi parteggiando per le fazioni del circo. Oggi si colgono segni, non si sa se di civetteria o di autentico abbassamento, come l’esaltazione del foot-ball da parte di un Montherlant. Gli spartani vietavano a iloti e perieci le canzoni di Alcmane e Terpandro, lasciando loro soltanto danze volgari e canzoni ridicole: norma inumana e raccapricciante, che però serbava in sé la distinzione fra ricreazione umana e volgare. Oggi è tale distinzione che minaccia di naufragare, e ai circensi che corruppero la nazione romana si aggiungono gli spettacoli volutamente volgari della radio e della televisione e del cinematografo, dunque una pressione di forza moltiplicata; e, peggio, tale industria che fissa le masse nei loro caratteri sub- umani non è più isolata dall’orrore: oggi il conformismo verso tutto ciò che è socialmente diffuso arresta il gesto di ripugnanza, accusa di futilità e snobismo il ribrezzo. Sparisce, con il livellamento sul piano piccolo-borghese del costume generale, 1° possibilità di un’intolleranza almeno di ceto, e non si dica poi la speranza di poter operare verso l’elevazione di tutti ad un gusto differenziato, quale sarebbe nei voti. Si rischia cioè di non far sentire la voce di protesta per il timore di apparire difformi.

Human engineering

EPPURE gli artisti si rendono conto dell’abiezione indotta dall’industria culturale e dal

macchinismo che ha spento la creatività artigiana, anzi da un secolo non fanno che reagire; senonché la loro reazione è spesso una collaborazione con il male: è il caso della cosiddetta avanguardia. Vediamo i pittori d’avanguardia rifugiarsi nell’astratto dacché la realtà è usurpata dalla riproduzione fotografica che la bandisce dalle loro tele con efficacia pari ai divieti iconoclastici di altra epoca. Ma la loro ricerca di purezza si rivela in seconda istanza null’altro che una preparazione al loro inserimento nella società di massa, come lavoratori a domicilio o addirittura come impiegati di un’industria: l’arte astratta diventa disegno industriale, com’era negli intendimenti della Bauhaus, si converte in impaginazione, trovata per carrozzerie, stoffe o altri oggetti d‘uso, si vota al servizio di un’industria e si offre senza difese alla ratio del commercio. Così lo scrittore che si ritrae da una lingua depauperata dalla consuetudine giornalistica e pubblicitaria e dal rampollare di gerghi specialistici gettandosi nell’invenzione di una lingua personale, disfa di sua volontà (seppure a sua insaputa) il tessuto che dovrebbe resistere all’assalto, ed al limite le sue trovate (che si spacciano per folgorazioni) finiscono col confluire nella lingua elementare della pubblicità: certe scomposizioni e ricomposizioni di parole della tecnica pubblicitaria anglosassone sono della stessa natura dei chimismi verbali di Joyce. Così il musicista che si ritrae da un sistema tonale usurato dalla commercialità per gettarsi nella creazione elettronica di suoni, rompe la distinzione fra suono e rumore e vende (quindi condiziona) i suoi prodotti all’industria cinematografica. Così, ancora, nell’ambito del pensiero,

il filosofo che si ritrae da un linguaggio filosofico che persegue la caccia ai valori, perché nell’epoca della propaganda questa appare frivola e impura, e si rifugia nel logicismo, o analisi del linguaggio o neopositivismo, non fa che ribadire, con lo scetticismo relativistico e il tecnicismo logico ridotto a gioco, la propria superfluità e impotcnza.

Così vediamo varie e diversissime facce di uno stesso processo ruotare dinanzi ai nostri occhi: l’intellettuale d’avanguardia avalla senza sapere l’illusione volgare per cui più efficace della parola appare l’immagine fotografata in movimento, più efficace della dissertazione il motto, più efficace del reale mediato dall’uomo il reale riprodotto dalla macchina o manipolato dalla psicotecnica, esattamente come sul piano del gesto viene ritenuto più avvincente del movimento umano che tende alla danza il gioco tecnicizzato e la masochistica meccanizzazione del corpo. Tutto è legato a un solo filo, il male di una parte si armonizza entro una compagine malata, e la reazione all’avanguardismo è uguale e contraria all’avanguardismo, credendo essa di chiudere l’arte nell’inventario dei musei o di esaltare la musica con catene di concerti che ripetono fino a1 logorio il repertorio di una trentina di classici; tale il costume terroristico tradizionalista dei sovietici o dei nazisti o dei difensori della «sana» tradizione presso i borghesi nostrani. Quale la responsabilità specifica degli intellettuali in tale processo? Il non aver saputo diagnosticare la radice del male, l’aver scambiato questo complesso così strettamente condizionato nelle sue parti e nelle sue conseguenze interiori o psicologiche, per una loro privata e alla fin fine esaltante angoscia, rendendosi con ciò inermi dinanzi alla realtà, in definitiva accettandola.

Ma la preponderanza della sfera della produzione rispetto a quella del consumo non si riflette soltanto in una condizione problematica dell’arte e del pensiero moderni. Essa minaccia di estinguere la figura stessa dell’intellettuale così come è finora apparsa nella storia, allo stesso modo come eliminò l’artigiano convertendolo in proletario e poi in piccolo borghese conformista. Ora l’intellettuale viene colpito da una burocratizzazione e specializzazione in senso deteriore: colui che era stato un professionista liberale rischia di diventare appendice di un’azienda, sottoposto senza residui alla logica aziendale.

In Italia avvertiamo soltanto i prodromi del processo, che negli Stati Uniti è già quasi portato a termine. Il medico diventa specialista alle dipendenze di un’azienda di sanità pubblica o di un ospedale gigante, esegue un lavoro parcellare ed al limite meccanico senza alcun rapporto organico con il paziente. II giurista diventa junior associate di una azienda di servizi legali. Gli studi di Wright Mills delineano la fatalità del processo. Ma esso ha altri aspetti, poiché vediamo come artificialmente galvanizzata nella nuova èra la categoria fossile dell’intellettuale ecclesiastico che riesce a reinserirsi in una società intimamente secolarizzata diventando impresario di spettacoli sportivi, ginnastici, cinematografici, o agitatore politico: il suo nuovo oggetto non è più la singola anima ma l’uomo-massa, al quale il miracolo è comunicato come merce pubblicitaria, la cui attenzione è richiamata mediante le celebrità gratuite create dall’industria culturale; la predicazione religiosa in America si trasforma in pubblicità che raccomanda l’utilità pubblica o psicologica dei servizi cosiddetti spirituali e non disdegna di presentarsi con ritornelli di musica commerciale. Così le chiese diventano aziende finanziarie moderne, e chi fosse tentato di sognare mediazioni fra occidentale aridità e orientale spiritualità, magari sulla scia di raggruppamenti internazionali di richiamo, mediti la descrizione fatta da Lévy-Strauss in Tristes Tropiques degli uffici funzionali dove i monaci buddisti amministrano commercialmente le loro imprese californiane.

A che serve il latino?

L’ELENCO delle distorsioni può continuare: lo stesso scienziato diventa funzionario di

un’azienda, e se svolge ricerche atomiche gli è riservata la sorte di recluso con buon trattamento;