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Discussione] Risposta a Questioni sul realismo

Nel dopoguerra francese e italiano ci si trovò immersi in un’atmosfera di regressione coatta del pensiero estetico; la questione del realismo socialista e dell’impegno che doveva condurre ad abbracciarlo parve interessare alcuni scrittori e critici al punto che dimisero i concetti maturati dalla tradizione e si votarono a una povertà di linguaggio e di pensiero che non poteva essere se non frutto di una loro doppia vita, giustificata, nei casi migliori, dai sofismi dei personaggi dei Mandarins.

Si celebrano da tutte le parti le esequie di quella specie particolare di «realismo» e forse non sarebbe il caso di infierire contro coloro che tennero in vita con artifici quel mostro; ma le condizioni propizie a un simile autoinganno sono davvero sparite? Il non credere alla realtà può condurre, oltre che al sogno che evade, anche all’incubo che demanda a un’istituzione sostenuta dal concorso di massa la definizione di ciò che è reale. Il non credere alla realtà è in fondo il carattere che lega il realismo socialista a quella che Lukacs chiama avanguardia, e spiega come mai proprio dall’avanguardia confluirono nei ranghi del realismo gli zelatori più accesi. Ma fare il nome di Lukacs significa sollevare la discussione dal piano dei sofismi banali a un’analisi e della società e dell’arte contemporanee, significa cioè discutere del realismo tout court. In un saggio comparso sul numero di luglio-agosto di Nuovi argomenti Lukacs giunge alla formulazione più profonda del problema: egli ammette che non si può costruire una teoria di ciò che è o non è arte partendo dal contrasto proletariato-capitale, e che semmai si deve partire dal contrasto guerra-rivolta umanistica contro la guerra. Ancora, come si vede, Lukacs non ha rinunciato a un troppo immediato rapporto della politica con la letteratura, ma forse questa è solo la superficie del suo pensiero. Infatti, a ben guardare, egli riconosce che l’arte debba partire dalla condanna del reale, ma sostiene che non potrà essere critica astratta, sebbene dotata di un contenuto: dovrà cioè criticare in funzione di una visione dell’uomo conciliato con la società. Basterà una tal formula, o non occorrerà identificarla con la libertà tout court?

Una conciliazione entro una società falansteriale farebbe infatti ricadere per forza di cose nel realismo socialista; significherebbe credere che possa affermarsi un’istituzione politica capace di garantire il trasporto dell’umanità dal presente orrendo al futuro regno d’utopia, e quindi credere che convenga, per garantire il trasporto più efficiente, consegnarsi all’istituzione e sacrificarsi ad essa rinunciando a porsi i problemi in coscienza. Ancora si può fare una riserva: Lukacs parla del realismo come di una sintesi di universale e particolare sul piano della conoscenza intuitiva-rappresentativa, e non è questa la definizione dell’arte senza aggettivi?

L’opposto dell’arte e, se vogliamo accettare il linguaggio di Lukacs, dell’arte realistica è l’avanguardia, e per esemplificare egli contrappone la delectatio morosa di Goethe in Lotte in Weimar di Thomas Mann ai dialoghi segreti dell’Ulysses di Joyce. La differenza fra i due libri ci può dare la chiave della differenza che divide l’arte dall’avanguardia. Dapprima sembra che si tratti di una mera differenza di «livello intellettuale» e di «forma»; ma, a meglio precisare, si vede che essa sta piuttosto nell’essere il linguaggio di Mann fedele all’umano e quello di Joyce non umano. Che cosa sia l’umano è quesito per cui Lukacs rimanda, per una risoluzione filosofica e non rettorica, a Hegel. Umana è la negazione determinata, ovvero la non accettazione della stasi, del dato naturale; antiumana è l’immediatezza che crede di poter vivere fuori della «difficoltà del concetto» e fuori della dialettica delle mediazioni. Ora Joyce ritiene di fatto di toccare l’ultimativo, l’immediato, mentre Mann sottolinea, nell’ordine stesso dei periodi, la funzione del pensiero che media la realtà; quindi mentre Joyce pone un universo di cose, Mann pone un universo di uomini; mentre Joyce astrae dalla componente intellettuale, e quindi mostra un mondo astratto, Mann resta nel concreto.

I caratteri dell’avanguardia sono la staticità, il primato del possibile sul reale, per cui l’esteriorità dell’uomo diventa maschera e l’interiorità diventa gratuita associazione di idee. Il punto positivo dell’avanguardia è il suo riconoscimento della «bassezza e volgarità del tempo», il punto negativo la mancanza di una negazione determinata del tempo, onde si cerca rifugio nella pura interiorità o nella pura esteriorità, nella registrazione del flusso di coscienza o del puro comportamento. Tale lacerazione del rapporto fra il particolare e l’universale, fra il soggetto e

l’oggetto, nasce da un sentimento fondamentale di angoscia e finisce, nelle ultime manifestazioni, in uno «stato di ottusità e di apatia, interrotto qua e là da estasi accidentali» per parare nell’idiozia accettata, che è il tema del neorealismo. Ma questo carattere intimo dell’arte d’avanguardia non è lo stato d’animo prevalente nelle masse? Non risponde dunque al rispecchiamento appunto «immediato» della loro vita? L’avanguardia non è (come faceva notare Clement Greenberg) che l’altra faccia del Kitsch, ovvero della cultura di massa. L’avanguardia resta nell’ambito della «preparazione» dell’opera d’arte, mentre la cultura di massa o commerciale fabbrica in serie prodotti che danno l’apparenza degli «effetti» dell’opera d’arte. Si dice apparenza, poiché ciò che manca alla cultura di massa è appunto la catarsi: essa non supera l’angoscia ma la reprime. Le analisi di Irving Howe e di Adorno sul contenuto segreto dei prodotti della cultura di massa (dalla canzonetta al programma televisivo) conducono a verificare che il loro messaggio latente è semplicemente l’esaltazione del conformismo, dell’adattamento passivo. L’avanguardia invece denuda l’angoscia che spinge a consumare il prodotto dell’industria culturale; o, meglio, denudava quell’angoscia finché avevano ancora uno stato riconosciuto dalla società il sistema tonale classico, la costruzione classica del romanzo e via dicendo: oggi l’avanguardia è diventata un accademismo sterile. Manca sia all’avanguardia che al Kitsch il carattere festivo dell’arte.

Guardare la realtà, theorèin, significa anche partecipare a una festa o theorìa; ora l’avanguardia distrugge gli elementi della festa, la sacerdotalità dell’artista e il fasto oltremondano della rappresentazione, mentre il Kitsch toglie semplicemente la noia della vita quotidiana non festiva mediante una routine dove regole astratte e gratuite intormentiscono la reattività, danno uno sfogo deviato alle repressioni. L’arte che tenga fede a quella che Mann chiamava la «festa del narrare» e non cerchi scampo dall’angoscia nella soppressione dello strumento di comprensione dell’angoscia, l’intelletto, si trova dunque ad essere anacronistica (qualora si capitoli dinanzi alla realtà del mondo alienato) ma conserva la sua forza se non si rinuncia alla possibilità umana di modificare il reale.

Resta da vagliare di volta in volta se il patologico della rappresentazione artistica sia mero rovescio della media comune o giudizio sulla realtà. Né sempre le analisi di Lukacs hanno individuato esattamente il divario, poiché giudicare Kafka appartenente all’avanguardia significa ignorare che mostri della natura di Odradek li incontriamo a ogni passo, che il suo Posidone, che sta in un ufficio ad amministrare le acque e non ha visto che di sfuggita le distese marine, è il ritratto più fedele dell’eroe della vita quotidiana odierna e la sua condanna. Il quesito che bisogna porsi è dunque non già quello che suggerisce Lukacs, ma piuttosto se l’artista, guardando l’orrore, capitola o tiene fede alla sua arte.

Resta ancora una domanda: nella misura in cui la realtà diventa illibertà assoluta, essa – secondo Adorno – è suscettibile di conoscenza ma non di rappresentazione; perciò egli condanna il tentativo del teatro epico. In parte ciò è vero, ma non indicano una via d’uscita l’elogio dell’«intellettualista» da parte di Benn, la mediazione continua del rappresentare e del conoscere in Thomas Mann, la fusione del saggio e del romanzo in Musil? La psicologia e l’infantilismo sono le due soluzioni del Kitsch dinanzi all’orrore totalitario, la soluzione cioè dei totalitarismi a fatti psicologici individuali (e l’esempio più irritante è un documento di perfetto Kitsch, il rapporto Kruscev); oppure la rappresentazione ingenua di un urto fra buoni e cattivi, come nel film di guerra, che quando voglia temperare il giudizio spartendo il bene e il male fra i due campi finisce nell’esaltazione in seconda istanza dell’orrore, poiché esso appare un fenomeno naturale che trascende gli uomini e lascia le cose come stanno.

Ma è appunto l’impotenza della psicologia che occorre indagare: è vero che, dove l’uomo si trova preso nell’ingranaggio di istituzioni che lo sovrastano senza dargli alcuna speranza di opposizione, la sua stessa psicologia diventa fenomeno riflesso di una coercizione o di una manipolazione; ma resta ancora da vedere perché egli resti indifeso, perché la monade umana capitoli. Non si tratta, come sostiene Adorno, di spiegare la forma delle automobili Ford dalla psicologia del signor Ford, ma di spiegare perché un uomo si riduce a riverire come un feticcio la forma di una Ford. Il gesto di impazienza moralistica con cui Lukacs scarta la psicanalisi gli vieta di andare oltre la ripartizione del mondo dell’arte in avanguardia e realismo borghese; mentre il rifiuto di una sintesi di rappresentazione e di conoscenza come unico modo di continuare sia pure «equilibristicamente» la festa del narrare, e del fare arte in genere, rischia di far cadere nella condanna meramente profetica.

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Anno II, n.ro 11, dicembre 1957, pp. 962-964.

[Rassegna delle riviste] Stati Uniti

IN ITALIA Ugo Stille, nel Corriere della Sera, ha richiamato l’attenzione sul «lancio» della proiezione subliminare. Ora, sul Reporter del 17 ottobre, Marya Mannes descrive la conferenza stampa che la Subliminal

Projection Company Incorporated ha tenuto recentemente a New York per presentare al pubblico americano il

Le prime avvisaglie s’ebbero due anni fa, in Inghilterra, quando la BBC invitò il pubblico a segnalare le anomalie riscontrate durante la trasmissione televisiva d’un balletto. Nella pellicola era stato inserito – per una lunghezza inferiore al margine di visibilità cosciente – un annuncio: «Pirie breaks World Record» (Pirie batte il record mondiale). Di tutto il pubblico soltanto venti persone dichiararono di essersene accorte e citarono le parole; quattrocentotrenta dichiararono di aver avuto l’impressione che fosse stato comunicato qualcosa riguardante un primato sportivo. Una donna se ne rese conto mentre puliva le stoviglie, un’altra vide l’annuncio in sogno. Soltanto alcune lettere al Times protestarono contro il ritrovato; la massa del pubblico rimase indifferente. Gli esperimenti vennero ripresi negli Stati Uniti. In un cinematografo, per sei settimane (corrispondenti a una frequenza di quarantacinquemila persone), fu fatta subliminarmente la pubblicità al Pop-corn e alla Coca-cola. Il fatto non venne divulgato, e si registrò un aumento di vendite dei due prodotti, nel quartiere dove si trova il cinematografo, rispettivamente del 57,5 e del 18,1 per cento.

Ora la SPCI, durante la conferenza-stampa di cui parla il Reporter, ha proiettato un filmetto con immagini subliminari perfezionate e assolutamente invisibili. Uno dei direttori della società, il signor James M. Vicary, alle domande di un giornalista allarmato dal problema morale, rispose che la proiezione subliminare rammenta ma non costringe: tutt’al più può favorire una disposizione già esistente. Distinzioni sofistiche, poiché favorire la disposizione a fare qualcosa (a comprare, nel caso della pubblicità commerciale) non differisce dall’indurre a fare. Un esperimento compiuto in una Università conferma quanto siano inani le distinzioni alle quali si aggrappano i fatui o interessati ottimisti. Venne proiettata una pellicola dove compariva un uomo, con proiezioni subliminari della scritta «Felice». All’uscita gli spettatori, richiesti quale fosse l’espressione del volto dell’uomo, risposero pressoché unanimi che era un’espressione di felicità. Il giorno seguente la stessa pellicola venne proiettata intercalando invece la proiezione subliminare della dicitura «Infelice». La maggioranza stavolta dichiarò che l’espressione del volto era di infelicità.

Fin qui le notizie. L’utopia negativa dischiusa dalla manipolazione psicotecnica dell’inconscio può dunque da un giorno all’altro tradursi in realtà. La tecnica è appena agli inizi: con accorgimenti ulteriori si potrà perfezionare il suo potere coercitivo. Si potranno associare, grazie a proiezioni subliminari, certe merci e certi comportamenti agli archetipi religiosi o nazionali, alle figure paterne o materne. Potranno valersi dello strumento i partiti politici; il controllo delle reti televisive e cinematografiche sarà la chiave per l’indottrinamento forzoso delle masse (e chi non è uomo-massa sub limine conscientiae?). La cultura, prima di inabissarsi, dovrà fornire, dal patrimonio delle sue scoperte psicologiche, gli strumenti per la nuova guerra contro la coscienza; lo spirito della civiltà di massa può da ora in poi affermare: «Si nequeo Superos flectere, Acheronta movebo». Hitler e Stalin sono potenzialmente superati, nella stessa misura in cui essi superarono Tamerlano e Gengis Khan.

Si è del tutto isolati nella denuncia dei pericoli che la civiltà di massa comporta? Un articolo lucido e profondo di Lewis Mumford sulla Virginia Quarterly Review (fascicolo dell’autunno), «The Role of the Creative

Arts in Contemporary Society», conforta a sperare di no. Le arti hanno cessato di dare valore alla vita e minacciano

di diventare mere forze ausiliarie dell’organizzazione meccanica della società. Il Mumford ricorda peraltro che non si tratta di una mera sparizione delle «belle arti» ma di un’estinzione progressiva dello spirito creativo, che si manifesta in ogni attività umana non meccanica. La degenerazione artistica non è che un aspetto della degenerazione umana: «Per usare il memorabile titolo di Siegfried Giedion, la meccanizzazione prende il sopravvento e le nostre macchine e i nostri meccanici apparati collettivi, le nostre organizzazioni di massa e l’industria culturale hanno bisogno soltanto di quella parte della personalità umana che può servire per sfruttarla ai loro fini». Perciò le arti sono state ridotte a un settore eliminabile della vita, mentre in ogni epoca sono state il mezzo essenziale grazie al quale l’uomo si è venuto scoprendo e ha potuto comunicare con gli altri uomini.

Si potrebbe obbiettare, osserva il Mumford, che le arti si sono diffuse, sono state divulgate, e proprio perciò sono state profanate e hanno perduto il loro carattere sacrale. La divulgazione avviene infatti in un mondo dominato dal mercato di massa, la riproduzione in serie della musica e della pittura produce una condizione psicologica per cui si tende al sensazionale invece che all’esperienza unica e insostituibile. Il patologico diventa la falsa forma dell’umano che l’arte è costretta ad assumere in un mondo nel quale il valore reale, il vero dio della società, è la produzione fine a se stessa di beni in serie… «La misura del successo è la massa che si riesce a interessare e su una tal base Grandma Moses è un pittore più grande di Tintoretto. La logica conseguenza di questo tentativo di giungere al minimo comune denominatore sarebbe di deferire la produzione dell’arte ad una macchina cibernetica; e mi risulta che esiste già un cervello elettronico capace di comporre trecento canzonette ogni cinque minuti».

Pericolo ancora maggiore è la deviazione delle energie creative verso l’industria culturale. si tratta di una civiltà pietrificante, che si dedica alla costruzione di inutili piramidi (anche se si tratta di super-highways, razzi interplanetari, grattacieli), una civiltà che ha sostituito i valori della morte ai valori della vita. Esteriormente i monumenti della nostra civiltà paiono modelli di razionalità, ma interiormente essi sono del tutto privi di contenuto, di scopo. L’arte negativa riflette l’irrazionalità latente del reale, e coloro che l’odiano mostrano di capirne meglio il significato di coloro che si limitano a lodarne l’originalità, o la studiata inintelligibilità, senza la minima nozione del suo vero significato.

Il Mumford propone una via d’uscita: «Per riprendere l’iniziativa dobbiamo forse praticare diuturnamente il ritiro e il distacco dalla presente società, esaminando tutti i valori correnti e scartandone i falsi, mettendo in discussione tutte le abitudini e rifiutando quelle che restringono e diminuiscono la vita, scartando ogni automatismo

per quanto possa sembrare innocente, finché non avremo formato una personalità abbastanza forte e ispirata a scopi umani da poter riprendere il comando delle nostre macchine e dei nostri apparati. La stessa missione che ebbero i cristiani quando nel quarto secolo si ritrassero dalla cultura romana per edificare una nuova vita… Se continuiamo a restare i docili esseri etero-diretti che siamo diventati, cadremo vittime di un rituale di ostentato consumo; sicché anche se sfuggiremo allo sterminio, sarà per trovarci seppelliti profondamente nelle camere interne d’una delle nostre piramidi», dove le arti ci serviranno soltanto come tranquillanti.

Sul numero d’autunno di Dissent, Ben B. Seligman analizza in un articolo («Ideology and Big Business») lo studio da parte di un gruppo di sociologhi harvardiani dell’ideologia della grande industria (contenuto nel libro The

American Business Creed, Harvard, 1956). Il quadro ideale della vita industriale, quale è esposto in tali ideologie, è

quello di grosse aziende dove i rapporti personali sono ridotti allo schema dei rapporti fra membri di squadre sportive. Il foot-ball offre il paradigma dei rapporti umani. Ognuno deve attenersi al proprio ruolo, che conviene interpretare con spirito sportivo. I sociologhi harvardiani sostengono che le ideologie nascono quando i ruoli sociali impongono sforzi troppo gravi, e le definiscono come «reazioni schematiche alle tensioni schematiche inerenti a un ruolo sociale». Il Seligman osserva che, dietro la sua apparenza obbiettivamente scientifica, la formula nasconde una concezione dell’ideologia come mero sfogo simbolico della tensione che conviene manipolare nell’interesse dell’adattamento collettivo allo statu quo.

Sullo stesso numero di Dissent Lewis Coser e Irving Howe, nell’articolo «The Role of Ideology», rilevano una concezione dell’ideologia assai simile al comunismo: «L’ideologia nel movimento staliniano fu tanto esaltata quanto degradata; esaltata perché tenuta in onore e costretta a fornire spiegazioni, degradata perché non le fu mai riconosciuta una dignità intrinseca».

Sulla Partisan Review (fascicolo di autunno), Richard Wollheim esamina le possibilità di una ideologia conservatrice in Inghilterra. La visione di una società cattolica non è destinata a tradursi in realtà politica per l’avversione tenace e sotterranea degli inglesi contro ogni interferenza ecclesiastica nel sistema politico; la visione aristocratica non oserebbe mai proporsi come ideologia proprio a causa dello snobismo britannico. Il corrispettivo teorico del conservatorismo è in certi scettici come Oakshott e Butterfield. Il primo sostiene una battaglia (condotta con rade pubblicazioni) contro il razionalismo che strumentalizza la conoscenza, ignorando il sapere che proviene dalla tradizione. Appena un passo e, a furia di disprezzo per le idee generali, si giunge alla conservazione fine a se stessa. Il Butterfield sostiene un metodo storico che ribadisce l’ideale rankiano dell’esposizione di ciò che realmente è accaduto, e ironizza il giudizio etico sugli avvenimenti. Notevole è in questi teorici l’abbandono del reazionarismo a favore del conservatorismo puro, ovvero dell’abolizione del pensiero giudicante.

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Anno II, n.ro 11, dicembre 1957, pp. 974-975.