La critica della cultura
1. Civiltà di massa e industria culturale
La teoria critica della società formulata da Elémire Zolla nelle opere a sfondo marcatamente sociologico del primo periodo, compreso tra il 1959 e il 1971, quali
Eclissi dell’intellettuale (1959), Volgarità e dolore (1962), Storia del fantasticare
(1964) e successivamente Che cos’è la tradizione (1971), nonché nell’intensa attività pubblicistica dello scrittore su quotidiani («Corriere della sera», «Il Messaggero», «Il Giornale d’Italia», «La Nazione») e riviste dell’epoca («Nuova Antologia», «Il pensiero critico», «Elsinore») si rivela essere, a conclusione della mia analisi, anche su «Tempo Presente» come il leitmotiv che definisce la natura dei contributi zolliani e ne rappresenta il principale filo conduttore. In essa emerge quello che è il ritratto perentorio del tipo umano generato dalla società industriale del secondo dopoguerra: l’uomo-massa.
Enunciazione che è quasi un ossimoro, il concetto di uomo-massa trova una sua prima formulazione nell’opera di José Ortega y Gasset il quale, nel saggio del 1930 La ribellione delle masse, indaga i processi sociali che hanno prodotto quell’«uomo della moltitudine, che con progressiva abbondanza il secolo XX va generando».1 L’uomo-massa, scrive Zolla, è colui che si è perso nella deforme moltitudine della civiltà industriale e ha permesso al sistema di inghiottirlo come un suo ingranaggio, di plasmarne i bisogni e le percezioni in funzione di un’appartenenza servo-meccanica che sola ne legittima l’esistenza. Egli non pensa da sé, annichilito, ha messo a tacere ogni istanza critica in funzione di una sopravvivenza mediocre. L’uomo-massa è anche colui che impiega tutte le sue forze per aderire ad un modello prestabilito, quello che gli viene imposto dall’esterno e nel quale crede di poter trovare un’esistenza più semplice, condivisa con altre persone e
1 JOSÉ ORTEGA Y GASSET, La ribellione delle masse, Milano, Se, 2001; citato in Novecento
alimentata dal sentimento di essere simile a loro. Ha, dunque, un ruolo attivo nella determinazione del proprio stato, mostrando quanto l’adesione ai principi indotti dalla società venga di fatto percepita come una necessità vitale. Egli desidera quello che la società vuole che desideri, prova le emozioni che tutti gli altri membri della società provano, è una infinitesima parte del sistema e coopera al suo mantenimento. Non lo critica, non lo sfida, non se ne affranca per recuperare le redini della sua vita. È un prodotto trasversale del suo tempo che, convertito in mera efficienza, non teme più i pericoli di un forte sentire. La sua vita si divide tra lavoro e tempo libero, entrambi affrontati con spirito faceto e repressivo allo stesso tempo. La sua presunzione mira ad enfatizzare la mediocrità più aberrante. Il suo bersaglio è l’intelligenza e la sofisticazione, onde accanirsi più ampiamente verso il mondo umano in generale.
La critica sociale zolliana segue linee e modalità inizialmente affini a quelle dei pensatori dell’Institut für Sozialforschung, la cosiddetta Scuola di Francoforte, sulla base del metodo che Theodor Adorno teorizzava come dialettica negativa, condividendo con loro la presa di posizione anti-illuminista e la tesi di una critica radicale alla società di massa. Stimolato e partito nella sua riflessione critica da presupposti comuni, in particolare dalla teorizzazione per cui il totalitarismo sia contenuto tanto nel fascismo che nel capitalismo, Zolla finirà col distanziarsi chiaramente dalle posizioni di Adorno soprattutto per quel che riguarda la metodologia critica, parassitaria a suo dire, del filosofo tedesco, incline a sfruttare il punto di vista dell’avversario onde minarne dall’interno i processi argomentativi, e ancora per le sue considerazioni sul trascendentale, visto da Adorno non come un’istanza al di là della ragione e del processo storico ma come forma mercificata e elemento di dominio. La polemica antimoderna si dispiegherà su questa linea diffusamente negli scritti zolliani di quegli anni, tracciando un ritratto dell’autore in cui eresia e libertà si mescolano, onestà e coerenza intellettuale si fanno feroci nell’indignazione, nella presa di posizione decisa e solitaria.
Nel corso del dibattito su Massa e valori di cultura, sviluppato sulle pagine di «Tempo Presente» tra l’agosto e il novembre del 1958, Zolla dà una delle più limpide definizioni di quale sia la caratteristica fondamentale della società di massa: non una determinazione in base al ceto e al censo ma alla qualità del sentire, «non l’erudizione o una gratuita elezione per nascita o concorso d’astri distingue l’uomo- massa dall’uomo, bensì la volontà di sollevarsi da una condizione passiva e ottusa.
Un esempio basti: come non provare un ragionato disprezzo per l’uomo-massa italiano che alla musica amata dai suoi padri, alla semplicità e forza dell’opera lirica ottocentesca, preferisce il repertorio commerciale? Non già che gli faccia difetto una erudizione musicale, ma perchè svela in questa scelta fra due possibilità a lui parimenti aperte (dove anzi la forza della tradizione farebbe inclinare per la migliore) un cedimento nell’attenzione ai sentimenti».2 Nella civiltà industriale l’uomo viene spinto a perdere i suoi caratteri individuali per diventare un mero meccanismo funzionale alla sua perpetuazione, plasmato nei suoi bisogni e nelle sue preferenze, «servi di un apparato pubblicitario che ha esistenza autonoma». L’io viene in questo modo annientato, indebolito fino ad essere reso innocuo, dimentico della luce dell’educazione e della conoscenza tradizionale, sì che tale oblio gli permette agevolmente di non esasperarsi nella soggettività. Citando il saggio di Freud
Massenpsychologie un Ich-Analyse,3 Zolla pone in evidenza come «la massa oggi è
creata e tenuta insieme da una tecnica apposita; in ciò, nella oggettivazione dei mezzi di manipolazione, è la novità. La predisposizione a soggiacere alla manipolazione è nella debolezza dell’io che tanto più chiede di sentir calore e di essere integrato».4 Vi è un germe di violenza in questo che richiama agli orrori del totalitarismo. Per i totalitarismi la massa diventa «un gregge che occorre ricondurre a unità di nazione o di classe, grazie alla violenza esercitata senza esitazione dai forti ed eletti». «Hitler aveva capito assai bene la situazione politica e sociale nuovissima nella quale stava operando, scrivendo in Mein Kampf: Il popolo è nella stragrande maggioranza
femminile... A chi deve rivolgersi la propaganda? All’intelligenza scientifica o alla massa incolta? Sempre e soltanto alla massa! Ogni propaganda dev’essere popolare e ridurre il suo livello a quello dei più spiritualmente limitati. La psicotecnica nazista
infatti agì: non si trattava di un disprezzo a vuoto delle masse e di un’ignoranza del volto concreto degli uomini dispersi e atomizzati nell’anonimità e nell’ebetudine dell’industria culturale, ma di una diagnosi esatta; prova ne furono i voti riscossi e l’inermità degli oppositori».5 Per neutralizzare la critica politica la massa viene allora trasformata da dato di fatto in ideale, la sua adulazione cela il suo più profondo disprezzo.
2 Appendice [48], p. 204.
3 SIGMUND FREUD, Psicologia delle masse e analisi dell’Io, Torino, Einaudi, 2013. 4 Appendice [11], p. 135.
Vi è tuttavia una chiara responsabilità nel singolo individuo che soggiace al conformismo dell’omologazione sociale: «quando si dice non è colpa delle masse se
esse offrono uno spettacolo di idiozia penosa, sibbene di pochi manovratori che le considerano stupide e tengono il potere nell’industria culturale si cade non già
nell’ovvio ma nel fantasioso. […] Un dittatore arringa la folla. A chi la colpa dello spettacolo ripugnante? Al dittatore, di certo, ma anche a coloro che, magari con l’alibi dell’ignoranza, della buona fede senza fede buona, tributano ovazioni e urla alle sue parole. L’atteggiamento che scagiona le masse stesse è pari a quello di chi attribuisce ogni rivolta all’opera di pochi mestatori sinistri. Inveterata abitudine questa, come ben sappiamo, e abitudine anche comodissima, perché consente di non dover indagare le cause reali del disordine».6
Il singolo non deve allora solamente riscoprire il valore della sua individualità ma anche far luce su ciò che lo rende parte attiva di quella società che non ne ha solo plasmato il carattere in funzione di un impegno lavorativo totalizzante, ma anche in accordo a ciò che poteva garantire la sua adesione completa al nuovo ruolo sociale: il tempo libero. Da qui la televisione, gli sports, le canzonette commerciali, il cinema, la letteratura d’appendice. Sul numero di «Tempo Presente» dell’aprile 1959, nell’articolo Tempo impedito [72], Zolla recensisce il volume che meglio aveva saputo analizzare il ruolo dello svago e del tempo libero nella società di massa, Mass
leisure di Eric Larrabee e Rolf Meyersohn, edito l’anno precedente. Gli interventi
citati di Margaret Mead, Clement Greenberg, Martha Wolfenstein e dello stesso Meyersohn mettono tutti in luce come il tempo libero sia vissuto con lo stesso spirito repressivo dell’attività lavorativa di derivazione puritana, esasperato però in un esito opposto, nell’obbligo al divertimento. «Sui motivi del consumo di sport non si è finora indagato con rigore, ma si può presumere che seguirne le tediose vicende dia ai consumatori l’illusione di partecipare alla vita sociale generale, la quale attraverso lo sport appare dotata di una continuità che manca alla vita politica e sociale o che, almeno, non viene afferrata dall’uomo comune».7 In un articolo del luglio 1957,
Teorie televisive [14], Zolla presenta alcune tra le prime riflessioni che stavano
emergendo in ambito italiano a proposito di un «male sociale di virulenza assai maggiore degli altri mezzi di corruzione del gusto e della sensibilità»: la televisione. La risposta di Zolla alla tiepidezza delle valutazioni di Umberto Eco e Luciano
6 Appendice [55], p. 211. 7 Appendice [72], p. 243.
Gramigna, tra gli altri, che vedevano possibilità di sviluppi utili al riguardo, è perentoria: «in genere i mezzi dell’industria culturale sono ricercati per sfuggire alla noia, ma proprio per aver soggiaciuto ad essi la noia cresce e chiede altro alimento: la noia si placa nutrendola e nutrendola si accresce. Le ignare vittime volontarie potrebbero vincere il loro tedio soltanto rinunciando ai mezzi con cui lo combattono».8
Quale il ruolo della famiglia, principale elemento di mediazione tra l’individuo e la società, se progressivamente si è andato sempre più perdendo il valore della sfera individuale? Zolla affronta la questione tra le pagine di «Tempo Presente» in una recensione al volume Soziologische Excurse [11], miscellanea a cura di Adorno che raccoglie la trascrizione di una serie di conferenze dell’Institut
für Sozialforschung. E dunque: «Nella famiglia pare racchiudersi un elemento
eteronomo rispetto alla società, che non si riduce al rapporto di scambio: l’amore, che però viene sempre più a coincidere con la morale del give and take. Senonché le previsioni prospettate da Huxley in Brave New World (la famiglia destinata a sparire e a giacere sotto un tabù) sono infirmate da una visione unilaterale; se da un verso la società usura la potenza della famiglia, dall’altro la mantiene, poiché ha interesse a conservare isole di irrazionalità che aiutano l’uomo stretto nella logica aziendale a sopportarla, e quindi riescono utili e razionali in seconda istanza».9 In una società, tuttavia, basata sullo scambio e non sulla discendenza di sangue, la famiglia che incarna invece quest’ultima rappresenta un «momento irrazionale nella società industriale, sottratto all’imperio della domanda e dell’offerta. Ma appunto per il suo anacronismo era utile e inseribile nella società industriale: soltanto grazie all’adattamento conseguito nell’irrazionalità della famiglia poteva l’individuo essere preformato all’irrazionalità della riproduzione della vita come merce-lavoro, all’ethos della laboriosità. L’unico modo con cui il figlio riusciva a sopportare la coincidenza di potenza e successo incarnata dal padre era l’idealizzazione del padre. Della sua irrazionalità la famiglia borghese ha sempre fatto un’ideologia, il pater
familias borghese ha sempre i tratti del bourgeois gentilhomme, la buona famiglia
borghese è tutta protesa all’imitazione dell’aristocrazia: in senso stretto non esiste una famiglia borghese. L’autorità della famiglia poteva avere una sua giustificazione laddove provvedeva di calore e sostentamento i suoi componenti; oggi, con la
8 Appendice [14], p. 141. 9 Appendice [11], p. 135.
decadenza dell’eredità, con l’entrata della donna nella vita economica ogni appello alla santità della famiglia suona vuoto. Ma la sua decadenza non libera, bensì reprime; il decadere degli aspetti autoritari della famiglia non cede il posto a forme di coercizione più blanda. Come ogni menzogna ideologica, la famiglia non era mera menzogna; se da un verso l’esaltazione della madre era il rovescio della sua umiliazione a creatura inferiore, tuttavia l’alone che le era proiettato sul capo fu il nucleo di quella dignità che fu la premessa della sua emancipazione. Quindi la crisi della famiglia è insieme crisi dell’uomo, atomizzazione e dissociazione».10 Di questa stessa irrazionalità che nel presente fa perdere alla famiglia il suo antico valore si serve d’altronde l’industria culturale, che ne mercifica la funzione protettiva e sostituisce la figura del pater familias con l’autorità che via via vanno ad assumere le istituzioni collettive: la scuola, la squadra sportiva, il partito e lo Stato.
L’infanzia, che Proust definiva la percezione incorrotta e verginale delle emozioni, l’antidoto a quella noia borghese che impedisce «di alzarsi e uscire da un salotto dove si parli di iettatura o si narrino storielline antiebraiche, di rifiutarsi all’invito di un seccatore col quale si sa di non aver nulla in comune, di accettare una compagnia imposta dalla vicinanza d’albergo o da altre futili circostanze, ignorabili»,11 viene sottoposta a sua volta all’aggressione degli adulti, che riducono le necessità del bambino a smancerie e leziosità. Un simile atteggiamento degli adulti è tuttavia unicamente autoreferenziale, la regressione ad un’infanzia incosciente è necessaria infatti proprio all’adulto, «che così simula l’amore e si finge infante e finge che il bambino sia l’essere demente cui egli cupamente vorrebbe ridurlo».12 In questo modo, egli finge di somigliargli per essere, come lui, libero dalle fatiche e dalle responsabilità. Di riflesso il bambino impara il vezzo, assimila l’ipocrisia nello stesso momento della sua vita in cui ancora riconosce e percepisce la sacralità degli oggetti, e associa in questo modo le due esperienze. «Soltanto in grazia d’una salutare resistenza è dato a un giovane di crescere secondo natura. Pochi vili stereotipi bastano a deformargli lo spirito, simili alle amputazioni o fasciature con le quali si infliggono forme mostruose ai bambini nelle tribù primitive. Il fanciullo piglia atteggiamenti bizzarri? Udrà: Cerchi di farti notare oppure: Cerchi di fare lo
spiritoso. In realtà l’emulazione sociale non lo muove affatto, egli tenta di esprimere
cose a lui oscure mediante atti simbolici, travestimenti e parole inconsuete. L’adulto,
10 Appendice [11], p. 136. 11 Appendice [86], p. 261.
per convertirlo in un filisteo, lo marchia di arrivismo e ostentazione, di narcisismo. Qualora il fanciullo operi come gli adulti vorrebbero, sarà percosso da stereotipi pedagogici altrettanto biechi. Gli si dirà: Ci dai, ti procuri, una bella soddisfazione,
puoi essere contento (i genitori più ignobili giungono a rammentargli: Dopo tutti i sacrifici che abbiamo fatto per te). Così gli si suggerisce di manovrare la letizia
compiacendosi invece di rallegrarsi, di convertire in parata e vizio ciò che gli germina dentro spontaneo. Qualora non sia mosso da una saggia diffidenza verso gli adulti, egli si conformerà alla falsità borghese, riterrà che ogni gesto imprevisto sia ostentazione di se medesimi e civetteria, che ogni giubilo si debba avvilire a soddisfazione e vuoto elogio di se stesso».13 La scuola viene invece percepita come un atto di sgradita forzatura, a cui cercar conforto in seno alla famiglia. Sarà dunque l’educazione, un’educazione vera e sincera, per Zolla l’unica possibile risposta alla mediocrità della vita massificata e spersonalizzata dalla civiltà industriale. Un’educazione che porti a riconoscere la sacralità del senso dell’uomo, che ne faccia fruttificare le potenzialità e l’intelletto e conduca l’essere umano ad una visione autonoma ed individuale dell’esistenza.
Di contro al decadimento della figura del pater familias, il cambiamento dei costumi femminili sembrava anticipare l’avvento di un nuovo matriarcato; anch’esso si limita in realtà ad una delle tante variabili dell’industria culturale: «Venere e Marte sono stretti nei lacci di Vulcano […] e Vulcano è servo dell’Ermete comune (dominatore della borsa o del centro di pianificazione)».14 Un affresco della femminilità popolare nell’Italia del dopoguerra viene analizzato da Zolla nell’articolo Donne d’Italia [82], a commento dell’antologia della giornalista Gabriella Parca, Le italiane si confessano (1959). L’autrice vi presenta una raccolta di lettere giunte nel corso degli anni Cinquanta alle rubriche dei maggiori settimanali femminili. «La messe di lettere potrebbe servire a spigolare le bizzarrie, i tratti di favolosa ignoranza specie in materia sessuale, ma ciò che più sconcerta e attira («ta
stupiditè m’attire» dice il sant’Antonio flaubertiano del mostro Catoblepas) è
l’uniformità di codeste confidenti, per cui soltanto ad un occhio superficiale esse potrebbero apparire molto diverse dalle loro simili, poniamo americane, a dispetto di tratti di vita talvolta arcaici, come le pittoresche questioni d’onore, come le famiglie ancora patriarcali, come gli uomini ancora miserabilmente baldanzosi e furbi, come
13 Appendice [83], p. 257.
la scarsa conoscenza di prodotti igienici».15 Il riferimento alla situazione americana permette a Zolla la citazione di quello che è stato uno dei più memorabili contributi all’esame «della psicologia dei sudditi dell’industria culturale», The mechanical
bride. Folklore of the industrial man (macchina e uomo-massa, i due elementi più
simbolici della civiltà industriale) del sociologo canadese Marshall McLuhan,16 che Zolla fu tra i primi ad introdurre nel nostro paese. L’opera di McLuhan risulta il commento più efficace al panorama che emerge da queste pagine di confessioni femminili all’italiana. «Osservava McLuhan: l’uomo irretito dall’industria culturale non riesce mai a toccare gli oggetti (codeste donne mai sanno dire qualcosa dei loro uomini se non che rispondono a certi tipi lanciati dalla pubblicità). Ne deriva che i loro sentimenti non sono mai reali, sostanziali, non sono incontri dove soggetto e oggetto si fondono. Esistono in loro soltanto sensazioni ammantate di sentimentalismo, per cui registrano una quantità di emozione più o meno intensa, come osservassero un manometro. Se scorgono un uomo, esse vogliono vedere confermata l’efficacia dei loro centri di potenza (e una donna bruttissima che sa di esserlo non riesce a spiegarsi perché mai venga corteggiata, si vergogna che qualcuno la veda col suo ragazzo e possa scandalizzarsi alla violazione d’un principio così saldo), centri di potenza che comprendono oltre agli attribuiti fisici anche la simpaticità, la quale a un’attenta indagine si svela soltanto traduzione di
folksiness o being a good mixer. Stabilito il contatto fra i propri centri di potenza e il
loro consumatore, le donne osservano il manometro della loro sensibilità per vedere fino a qual punto il gioco obbligato procede bene».17 Ne emerge come nella società industriale non vi sia posto alcuno per l’azione spontanea: il vero archetipo dell’uomo moderno è quello del giocatore d’azzardo, che una volta detenuta la tecnica si affida al caso e alla fortuna e la cui partita avrà sempre un risultato casuale. Senza merito o colpa, la sua individualità non ha alcun rapporto con il risultato finale. Questo atteggiamento è rivolto allo stesso modo verso la sfera dei rapporti sociali, come – è quel che emerge nel caso di questa analisi – verso quella affettiva; se non assente, la componente erotica sbiadirà nell’indifferenziato di una mente comune, né maschile né femminile, con la riduzione del rapporto sessuale a gioco entro una sfera di interessi inessenziale.
15 Appendice [82], p. 254.
16 MARSHALL MCLUHAN, La sposa meccanica, Milano, SugarCo, 1994. 17 Appendice [82], p. 254.
Un’altra fondamentale testimonianza su quale sia, in ambiente popolare, nell’Italia del dopoguerra, l’approccio alla sessualità a fini procreativi, è quella che Vittoria Olivetti propone sulle pagine dell’«Avanti» raccogliendo lettere spedite a varie riviste e all’Associazione per l’educazione demografica, e che Zolla presenta nell’articolo Esperti e procreazione [44], pubblicato nella rubrica «Gazzetta» del luglio 1958. «I dolori confidati alla segreteria dell’istituzione o al giornalista del settimanale sono quelli prevedibili: donne malate che paventano un concepimento come una condanna a morte, uomini stremati dal lavoro e respinti dalla moglie (così