AMA, l’uomo-massa? Bisognerebbe sapere quel che sia amare. Ne dovremo cercare
l’immagine perfetta sulla scorta di Margaret Mead fra gli Arapesh o fra i Samoani, fra i matriarcati o nei patriarcati? Il mondo classico ce ne fornisce l’immagine più sana o più storta? Sono domande che già rivelano come l’amore sia diventato arcaico, perché nascono dalla stessa sete inappagabile di genuinità che mosse gli artisti afflitti dalla depauperazione delle arti popolari in Europa a esperimenti esotici ed arcaici. Meglio volgerci a ciò che era l’amore ereditato dal borghese, quello cristiano, oberato dal peso di un mortifero legalismo, cioè dall’esercizio della forza che sostituisce l’invito all’attenzione, ma sostanziato da idee di libertà.
Erunt duo in carne una: così suona la definizione dell’amore come convivenza che
supera, senza violentarla o utilizzarla o esasperarla o reprimerla, la sfera dell’erotica naturale, accettando questa come negazione, non soppressione, della differenza che divide gli amanti. Ma
questa concezione cristiana si pietrificava nei tre beni-doveri, ovvero nelle tre contraddizioni innaturali di beni, ovvero oggetti di desiderio, verso i quali si ha l’assurdo «obbligo» di desiderarli.
Il bonum prolis: la prole può essere segno tangibile del superamento della solitudine, danza d’amori attorno a Venere, ma se scade a scopo essenziale e necessario diventa sacrificio masochistico (gli Stati moderni hanno imposto la procreazione nei modi più ripugnanti proprio quando le condizioni della società l’hanno resa criminosa).
Il bonum fidei: la fedeltà è intrinseca al carattere dell’amore come incontro con un essere al quale si riconosce l’irripetibilità, la unicità, ma nella pietrificazione legalistica si muta in divieto di sviluppo e di vita. L’anima cresce e in un rapporto amoroso perfetto gli amanti concrescono, ma una persona può mutare talmente da tradire comunque l’amore per il fatto stesso d’essere altra e diversa, ed allora muore la singolarità che impegna e che in quanto singolare non è paragonabile e non potrebbe essere insidiata da altro amore. In tali condizioni il bene della fedeltà si immiserisce a saggezza filistea, a rassegnazione impaurita che si sfogherà nella fantasticheria, obbedendo alle leggi della proprietà e non a quelle del bisogno (del resto come proprietà degli organi sessuali del coniuge concepiscono il matrimonio i cristiani delle Chiese, così cancellando il carattere umano di dono; tant’è: una corte d’amore di Provenza sentenziò che vero amore, ovvero un libero sviluppo della personalità, poteva soltanto essere l’adulterio, dal quale esulava l’orrendo pagamento del debito coniugale).
Il bonum sacramenti: anche l’indissolubilità sacramentale è un momento necessario, in quanto l’autenticità esige la durata della responsabilità liberamente assunta dell’uno per l’altro amante, ma scade e involgarisce se si oggettiva in un vincolo contrattuale che sostituisce al momento dell’inclinazione la minaccia delle leggi. Oggi peraltro il divorzio rende assai simile all’impiego il matrimonio, più o meno facilmente mutabile a seconda delle condizioni del mercato e dell’abilità personale. L’arcaica crudeltà dei politici cattolici che impediscono in qualche Stato l’introduzione del divorzio potrebbe perfino avere un momento paradossalmente positivo, perché dovrebbe costringere l’uomo-massa almeno una volta nella sua vita alla responsabilità personale e mortale, al rischio di riconoscere un’altra persona come suo prossimo da amare-odiare, dunque come qualcosa di radicalmente diverso dal materiale umano con il quale tratta ogni giorno e che è per definizione fungibile (solo dal «prossimo» si è separati da una «differenza» che l’atto erotico «nega»; dal non-prossimo si è separati dall’assoluta «indifferenza» e l’atto erotico con un «materiale» umano è masturbatorio). La crudeltà è del resto soltanto apparente, perché nessuno «costringe» al matrimonio se non lo spirito di conformità o la paura di restar liberi, rischiando di dover incontrare l’amore o l’infatuazione.
L’amore borghese
QUEL CHE poteva allignare di libero nella concezione cristiana dell’amore fu scartato
oculatamente dai casisti.
A loro non più divina follia, come ai lirici antichi, non congiunzione di parti dell’androgino primordiale e neppure riconoscimento di compagno d’altra vita come ai principi nipponici del Genji Monogatari apparve l’amore, ma come processo produttivo di una merce dotata d’un valore di scambio: la prole o il piacere. Il processo venne da loro ridotto alla sua linearità funzionale, quindi svuotato d’ogni spontaneità: fu mercificato, ovvero privato di tutti gli elementi che non concorressero ad accrescere il valore di scambio a detrimento del valore d’uso; il cristallo morto doveva sostituire la pianta vivente e non a caso i casisti appartenevano per lo più ad una compagnia che preferiva la cadavericità all’umanità. Due valori diversi poteva avere l’amore: la lecita procreazione e l’illecito piacere. Così sorsero le «regole» del cottimo casistico, della giusta posizione o, nell’illecito rovescio della moneta, della variazione meccanica delle posizioni; l’uso degli stimolanti del piacere nel limite esattamente calcolato in vista dello scopo
riproduttivo o, al rovescio, l’accettazione della prole soltanto nei limiti nei quali non interferisse con il piacere come principio astratto. Le due mercificazioni eguali e contrarie parano entrambe nell’assurdo, la funzione riproduttiva essendo meglio svolta da inseminazioni artificiali e l’edonistica da eccitazioni dirette dei centri nervosi (Sade indicava nell’impiccagione troncata ad un palmo dalla morte il mezzo più acconcio per ottenere il massimo d’orgasmo).
Ciò che salvò l’uomo dal cadere in codesta pania del gesuitismo riproduttivo e del suo rovescio edonistico fu la tenace e combattuta sopravvivenza d’un sotterraneo culto, grazie al quale l’amore serbò la sua natura di dramma sacro al quale era concesso all’uomo di partecipare ancora nonostante la secolarizzazione della natura, unico rito non necessariamente degradato a spettacolo dall’ironia smascheratrice dello spirito commerciale. Venivano segretamente tramandate alle generazioni le antichissime maschere rituali da indossare al momento propizio della festa amorosa; e furon trasmesse con difficoltà, superando i balzelli della clandestinità: l’ammicco, il camuffamento ipocrita, l’ansia, la vergogna (che Freud individuò come ombra della socialità gettata sull’eros), grazie allo spirito celtico, cavalleresco, trovadorico, rinascimentale.
Due dunque erano i «demoni» o «angeli» che si contendevano l’anima dell’uomo amoroso e della società, allorquando la borghesia prese il sopravvento: la mercificazione teologica (che poteva sembrare angelica a cospetto delle esplosioni sabbatiche e millenaristiche) e la sopravvissuta vita magica e dialogica dell’amore, angelica vittoria sull’abbrutimento, presenza delicata ma non fragile (Ennodio avvertiva di Venere: discant populi tunc crescere
Divam cum neglecta iacet), alonata però di terrore e asservita pertanto al suo avversario
teologico dal dilagare del morbo gallico.
L’esprit philosophique fu libertino a freddo soltanto nei momenti più consequenziari; per lo più si pose alla ricerca di esempi di liberi costumi tentando di trovarne l’immagine, statica e non dialettica, fra i tahitiani. Comunque fu grazie ad esso che nel costume francese sorse un atteggiamento leggiadramente sereno, seppure oberato dal momento della riduzione dell’esperienza, da una sagesse che limita il reale quanto la ragione cartesiana.
L’amore dell’uomo-massa
IL BORGHESE non poteva seguire le orme dei philosophes e non poteva liberare l’amore
dalle servitù che lo gravavano, e anzi lo piegò al proprio bisogno di dividere ogni cosa in una sostanza cinica nascosta ed una facciata sentimentalistica, in una selvaggeria sostanziale ed una rispettabilità formale. Il borghese verso una sua eguale può avere l’atteggiamento cinico consacrato nelle Liaisons dangereuses, mentre verso le ingenue ha l’atteggiamento mercantile di chi deve ottenere ad ogni costo la firma d’un contratto (nel caso a lui più favorevole e gradito, un contratto di lavoro per servante maîtresse). Qualora egli si trovi nella posizione opposta sul mercato si tratterà per lui di sfruttare l’amore ai fini della carriera o del prestigio. Tale la realtà oggettiva, il suo riflesso soggettivo potendo anche colorirsi secondo la falsa coscienza che lega i protagonisti della Nouvelle Héloïse, tutta pavesata di frasi patetiche, di slanci che simulano la disperazione; perché il borghese costringe le lacrime a sgorgar copiose per sentirsi «rispettabile» nel regno della passione come grazie al patrimonio è rispettabile nella vita sociale. Tali sue recite amorose hanno la stessa consistenza del suo amor di patria, tanto che sentendosi malsicuro di entrambi, associa questo a quelle senza necessità veruna, se non codesto legame negativo, nella figura ideale dell’eroe. Sorse così un’industria, come voleva la mentalità borghese, per rifornire tutti di un repertorio di pose acconce, frasi fatte, costumi insomma per la recita della passione spericolata. Di un tal ciarpame è satura madame Bovary, che di quando in quando intravvede con uno shock, durante le pause della recitazione, la realtà, ben squallida smascheratrice degli orpelli della letteratura industriale amorosa. Forse un solo esempio di purezza nella concezione dell’amore è lecito trovare, nei romanzi di Jane Austen.
Più tardi l’amore come vocazione di libertà, incontro che impegna in un dialogo senza fine, dramma sacro che celebra la convivenza, doveva apparire una negazione di tutta la realtà, una vocazione cioè di morte: così nasce il tristanismo, degradato a Kitsch nel mito di Mayerling, il quale fornì spunto di languori minacciosi agli amanti della fine dell’èra borghese. Il tristanismo è la metastasi dell’amore che non si rasserena nell’amplesso, e le progressioni wagneriane sono l’espressione musicale della sua natura velenosa e insoddisfacibile. Tristano non sarà mai placato dall’amore corrisposto, dunque il suo tormento è di natura ben diversa da quello di Faust, che è una ferita irritata dalla speranza («Ergreif mein Herz, du süsses
Liebespein/die du vom Tau der Hoffnung schmachtend lebst» dice Faust incantato da Margherita,
mentre Tristano si duole «Welches Sehnen/welches Bangen/sie zu sehen/welch’
Verlangen./Krachend hört’ich/hinter mir/schon des Todes/Tor sich schliessen»).1 Tristano è il borghese che dall’amore riceve improvvisamente l’illuminazione sul suo stato e non riesce a tollerarla. Chiederà all’amore in sé la liberazione, esasperandolo; ma, separato dalla vita, l’amore si converte in filtro o droga: il corpo dell’amante diventa uno stupefacente. Infine Tristano para in una morte che è la vocazione al suicidio, già insita nel primo rapimento, infine pienamente svelata (non di certo la morte associata dagli antichi all’amore in quanto entrambi escludono la risata e il calcolo, e sono intollerabili se non si trasformano in riti ovvero in momenti nei quali il singolo non è più mero individuo).
Il tristanismo è la condizione impossibile dell’amore nel mondo borghese, dove la
médiocrité est l’organe et la bêtise est la fonction, dove la donna, se resta fedele alla sua
funzione materna oltre che amorosa, non diventa simbolo della terra ma agente della società, invito a conformarsi. Così la donna che reciti la parte dell’angelo del focolare, non a caso oggetto di tributi redolenti di falsità smancerosa o insulsa o ufficiale, merita il disprezzo ma non lo riceve. Insieme ad altri tributi tolti all’angelo del focolare, il disprezzo (e, sua massima espressione, la falsa pietà) vanno alla prostituta, la donna-merce, l’ossessione del borghese. Grazie a questa dialettica fra l’angelo del focolare e la prostituta il borghese riesce a non cadere nel tristanismo, nell’amore come volontà di estinzione. In certe convivenze tra donne rivoluzionarie e socialisti sullo scorcio del secolo si trova un’immagine non degradata dell’amore, ma grava su di esse lo spirito di abnegazione e di sacrificio che genera un alone di austerità non spontanea.
Manipolazione dell’amore
L’UOMO-MASSA anche nell’erotica ha raffinato il borghese. Il Kitsch dai tempi di madame
Bovary è cresciuto mostruosamente, il linaugaggio ne è impregnato e la pubblicità costringe continuamente ad associare l’eccitazione amorosa a prodotti d’ogni sorta, elevando l’eccitazione sessuale a centro d’ogni azione (dall’acquisto di sigarette alla scelta d’un film, al tipo di abbigliamento, al consumo di un certo formaggio o automobile) e insieme degradandola, sfruttandola come un dato necessario e doveroso, sul quale non si discute. L’uomo-massa gradisce questo martellante avvertimento: «L’eccitazione sessuale in te è costante e irresistibile, e rientra nello stesso genere e rango nei quali rientrano il desiderio di un’automobile carrozzata da X o di un tipo di cappello come quello che portano tutti». Un avvertimento, questo, che lo rassicura segretamente di un fatto del quale è malcerto, che l’eccitazione c’è, e gli garantisce che non è affatto da prendere seriamente, poiché non è nulla di eccezionalmente significativo.
Inoltre l’industria culturale fornisce i mezzi per eliminare il carattere irripetibile e unico dell’incontro amoroso. A tal fine serve soprattutto il cinematografo. Le generazioni del primo Novecento erano fedeli esecutrici di schemi divulgati dai film e dai romanzi del tempo, ancora
1 «Cogli il mio cuore, o dolce pena d’amore che vivi della rugiada della speranza languendo». «Che
desiderio, che tremore, vederla; già ho udito chiudersi con fragore dietro di me la porta della morte». (NdA)
coloriti di residui borghesi, dal contrasto fra la vamp o prostituta promiscua, attraente, eccitante e l’angelo del focolare, insipido, fedele, agente del conformismo e segretamente castratorio. L’uomo deve essere insieme orgoglioso dei bramiti della belva interiore destata dalla vamp e disposto a sacrificarla per tornare alla donna che l’adatta bene al lavoro ed al servizio della patria. I luoghi comuni del borghese sono la massima sulla quale ruota lo spettacolo («la donna è ladra e l’uomo è cacciatore», «lascia che si sfoghi, poi tornerà», «un uomo è un uomo»). La
vamp è una perdita, tollerata soltanto nei limiti delle spese per la produzione commerciale, cioè
nei limiti in cui l’esige il prestigio virile.
Alla donna addomesticata da simili stereotipi erano dischiuse due parti parimenti artificiose: la promiscuità avvilente (che risponde a un livellamento delle persone e della esperienza, a un loro svuotamento onde «l’uno vale l’altro», «chiodo scaccia chiodo», «perduto uno, se ne trova un altro migliore») e la fedeltà insapore («torna poi sempre da me»). Nella realtà ciò si rifletteva non in una scelta fra le due ma, più sovente, in una divisione del tempo disponibile in due settori simili ai due fondamentali della vita di massa, lavoro e tempo libero, ovvero: l’avventura e la casa. Per recitare le due diverse parti la letteratura commerciale e l’operetta e ora soprattutto il cinematografo e le «canzonette» della radio provvedono ariette, cabalette, recitativi squallidi e «buoni per tutti» (tanto che l’uomo-massa ricorda in base alla «canzonetta» di moda del tempo i suoi amori o «esperienze» e a tali immondizie sonore sente agitarsi in sé la riserva di tenerume posticcio; così nei cani si rimestano i ricordi a seconda dei fetori).
Ora le tendenze dell’industria sono diverse: il progressivo raffinamento del borghese a uomo-massa avanza ancora d’un passo.
La promiscuità è ormai accettata e svalutata, istituzionalizzata (esiste un’età promiscua per tacito consenso, quella dei viaggi all’estero che hanno sostituito la «capanna degli accoppiamenti promiscui» di certe tribù). La bestia interiore non spaventa più, se c’è si chiamerà necessità fisiologica o igienica e perderà i denti; la frase fatta che ormai definisce la bestia interiore svalutandola è: «Sono fatto così», che significa riduzione dell’eccitazione erotica a meccanismo, a cosa manipolabile. Manipolabile fino a qual punto? Ecco il dilemma dell’uomo- massa, che dinanzi alla vecchia bestia interiore diventata automobile distingue due possibilità, una positiva («è sotto controllo») e l’altra negativa («perdere la testa» o getting out of hand). Per vedere fin dove si è capaci di tenere sotto controllo la macchina per far l’amore, si fanno esercizi appositi, simili a quelli con i quali si provano le varie marce dell’automobile, partite d’amore in cui si va fino ad un certo punto (necking, petting, spooning sono i termini dello slang ovvero della lingua dell’uomo-massa che nella sua versione italiana suonano «limonare, pasturare, pomiciare»; e queste tecniche possono, come la guida dell’automobile, esser disturbate da slittamenti di ruote, sfociare in una «cotta»: espressioni insudicianti che consentono all’uomo- massa di svilire le eventuali imperfezioni nella trasmissione dei comandi oltre alla trasmissione stessa). L’eventuale disastro non sarà dionisiaco ma isterico o stuporoso; mentre il borghese svalutava l’amore con la retorica dell’eccitazione, l’uomo-massa lo sminuisce con l’eccitazione per scherzo.
L’immiserimento colpisce non solo il linguaggio ma anche i gesti. Ciò che l’uomo-massa chiama il fore-play, ovvero i «preliminari» dell’amore, diventa manifestazione di conformismo senza impegno: nelle danze di massa i due ballerini si stringono in modo convenzionalmente provocante, ma non si tratta di un vero e proprio erotismo, così come non è un esibizionismo sessuale tout court la vita di spiaggia; anche se l’eccitazione sopravviene, sarà svilita, comica, forse potrà chiedere uno sfogo, ma anche questo è dubbio perché si è sempre fondamentalmente «sotto controllo». Fra le consuetudini di massa è il double dating, ovvero l’appuntamento a due coppie, grazie al quale si degrada e rende scherzoso, organizzato, l’amore. Le consuetudini orgiastiche di qualche settore della massa (per lo più «eccentrici» ricchi) sono non sabbatiche, ma semplicemente conformistiche; la svalutazione che la civiltà di massa impone pubblicamente soltanto al fore-play (la socializzazione balneare del nudo, la stimolazione dei rotocalchi e dei
film, la disinvoltura prammatica delle juvenile gangs o bande giovanili sono momenti della coercizione) viene condotta dagli orgiasti alle ultime conseguenze: essi stanno all’uomo-massa medio come i nazisti agli altri partiti di massa. Gli agglomerati di massa come l’esercito e l’officina favoriscono il radicalismo erotico, contrastato soltanto dall’istituzione familiare.
Che ne è dell’atto sessuale
LA CHIESA CATTOLICA, che senza il minimo successo vorrebbe proscrivere tra i suoi
fedeli danze e vita di spiaggia, probabilmente sa che il vero pericolo non è l’eccitazione favorita dalle due istituzioni (le confessioni dei fedeli dovrebbero avvertire che non si tratta affatto di tentazioni ruggenti per l’uomo-massa) sibbene quello di veder svalutati insieme vizio e virtù, Tentatore e Madre Celeste. Uno dei sintomi dell’atteggiamento è il riso che accoglie nelle platee l’immagine di una passione troppo seriamente recitata, mentre ogni espressione ridicola della passione viene gradita. La platea proclama fieramente: siamo in controllo.
L’atto erotico stesso ne viene incrudito e isterilito «per delimitazione» proprio perché l’industria culturale mostra tutto che ciò che lo precede, allude ma non afferma (e allo stesso modo viene incrudito e ancor più meccanizzato dalla pari e contraria delimitazione dell’industria clandestina pornografica). I medici si trovano sempre più a dover curare casi di frigidità per i quali consigliano more fore-play: più preliminari (così ai cibi in scatola si debbono aggiungere le vitamine; ma appunto questa doverosità del fore-play già svalutato dalla sua pubblicità, ovvietà, indifferenza – «Non c’è niente di male» –, rende impossibile il suo «reimpiego a scopo di eccitazione»).
Chi mise in chiaro quel che solo può dar vita e significato e mistero all’atto sessuale fu Simone Weil, così scrivendo nella Connaissance surnaturelle:
«Ciò che rende imperioso in voi il desiderio carnale non è di natura carnale. È imperioso perché vi immettete ciò che è essenziale in voi, il bisogno di unità, il bisogno di Dio. Non vorrebbero crederlo, a loro sembra evidente che questo carattere di bisogno imperioso è proprio del desiderio carnale come tale. Così pare evidente all’avaro che il carattere di desiderabilità sia proprio dell’oro come tale, e non come strumento di cambio».
Chi mise in chiaro ciò che ne è oggi di fatto, nell’uomo-massa, dell’atto sessuale fu Musil, così dicendo di Ulrich in L’uomo senza qualità (Ulrich comincia a diventare uomo-massa e quindi ancora s’accorge del dolore che sta per anestetizzare):
«Si ripetè con fretta disperata tutti i pretesti oggi correnti per comportarsi senza serietà, senza fede, senza scrupolo e senza soddisfazione; nell’abbandonarvisi supinamente trovò non certo la commozione dell’amore bensì una semidemenza, qualcosa che ricordava un macello, un delitto sessuale, insomma cadde in preda ai demoni del vuoto che stanno dietro le immagini della vita».
Tale esperienza viene scambiata per dionisiaca dall’uomo-massa che non sia disposto ad ammettere la verità: egli resta deluso proprio perché si è reso indifferente a tutto ciò che precede