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Dal soggetto sostanza al soggetto narrato. Lettura di Nietzsche e Proust

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Academic year: 2021

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I

NDICE

Indice……….. p.1 Tavola dei riferimenti ………. p.3

Introduzione..………. ………. p. 5

Capitolo primo. L’illusione dell’io. Nietzsche di fronte al soggetto……….. p.15

1. “Erleben ist erdichten”. La questione del prospettivismo…... p.22

1.1 “Che cos’è la verità?” ……….……….. p.22 1.2 La risposta di Su verità e menzogna……….. p.26 1.3 Il passaggio al prospettivismo radicale……….………. p.32 1.4 Necessità dell’errore……….. p.41

2. Il volto di Dioniso. L’io nella Nascita della Tragedia………. p.48

2.1 I prodromi della critica all’io………. p.48 2.2 La festa dionisiaca……….……… p.54

3. “Il mio nome è legione”: l’individuo come molteplicità ….... p.57

3.1 Il paradigma citologico……….. p.57 3.2 L’illusione dell’unità………. p.60 3.3 Equilibri e gerarchie……….……….. p.71

4. Illusioni grammaticali: il superamento del soggetto

metafisico……… p.76

4.1 Fede nella grammatica e fede nell’io………. p.76 4.2 Contro Descartes……… p.80 4.3 Se cade il soggetto………. p.89

5. “Io sono tutti i nomi della storia”. Il soggetto e il circolo vizioso………. p.96

5.1 I luoghi nietzscheani del ritorno……… p.96 5.2 Una nuova concezione del tempo…..……….. p.105 5.3 Eterno ritorno e soggetto ……….. p.117

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Capitolo Secondo. Un’ipertrofia del soggetto senza soggetto. Lettura della

Recherche……….…….… p.123

1. Frammenti di tempo………. p.123

1.1 Struttura temporale della Recherche………. p.126 1.2 Il principio della discontinuità………...……… p.132 1.3 Paradisi perduti………. p.142 1.4 Il Tempo ritrovato………. p.149

2. Individuum est ineffabile………..p.155

2.1 L’uomo è l’essere che non può uscire da sé……….. p.157 2.2 Conoscere l’altro (solo) in se stessi………... p.163

3. La fuggitiva. Amore e menzogne di Albertine ………... p.171

3.1 Le leggi amorose della dispersione………... p.174 3.2 Le leggi amorose della serie……….. p.182

4. “Molte anime mortali”. L’individuo molteplice di Proust…... p.187

4.1 La discontinuità egologica……….……… p.187 4.2 Molteplicità sincroniche…….………p.193

4.2.1 L’ave Maria di Bobbio……….……… p.198

4.3 Gli io possibili………….………... p.200

5. Strategie di desoggettivizzazione ………..…. p.206

5.1 La dissoluzione delle facoltà dell’io……….. p.207 5.2 L’abitudine……….……… p.214 5.3 Forze sovraindividuali……….……….. p.216 5.4 Il bal de têtes………..……… p.224

6. Salvare l’io?………..………... p.229

Conclusione. Come si diventa ciò che si è………..…………. p.239

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T

AVOLA DEI RIFERIMENTI FRIEDRICH NIETZSCHE AC = L’Anticristo; E = Epistolario; (BW = Briefwechsel); EH = Ecce Homo; FW = La gaia scienza; GD = Crepuscolo degli idoli; GdT = La nascita della tragedia; GM = Genealogia della morale; JGB = Al di là del bene e del male; M = Aurora;

MA = Umano, troppo umano, I; NF = Frammenti postumi;

PGZ = La filosofia nell’epoca tragica dei greci; UB II = Sull’utilità e il danno della storia per la vita; VMS = Opinioni e sentenze diverse;

WS = Il viandante e la sua ombra; Z = Così parlò Zarathustra;

WzM = La volontà di potenza. Frammenti postumi ordinati da Peter Gast e Elisabeth Förster-Nietzsche.

MARCEL PROUST

RTP = À la Recherche du temps perdu (edizione a cura di Jean-Yves Tadié). RTPc = À la Recherche du temps perdu (edizione a cura di Pierre Clarac e André Ferré).

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Alla Ricerca del Tempo Perduto:

CS = Dalla parte di Swann;

JF = All’ombra delle fanciulle in fiore; CG = La parte di Guermantes; SG = Sodoma e Gomorra; P = La prigioniera; AD = Albertine scomparsa; TR = Il Tempo ritrovato. CSB = Contro Sainte-Beuve. PJ = I piaceri e i giorni. JS = Jean Santeuil. GL= Giornate di lettura.

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I

NTRODUZIONE

Cominciamo (ciò che è sempre più semplice) col dire che cosa questo lavoro non è.

Questo lavoro anzitutto non è uno studio comparativo su Nietzsche e Proust, non ha l’intenzione di mettere in luce i punti teorici che le loro opere hanno in comune (e di conseguenza anche i luoghi in cui si trovano le differenze più significative), né i temi che essi condividono tra loro e con la loro epoca. Ovviamente (sarebbe impensabile il contrario) emergono dei tratti comuni, dei pensieri che si richiamano (anche molto da vicino), dei riferimenti teorici e culturali che inevitabilmente condividono. Il fatto che alcuni di questi tratti, di questi richiami, di queste somiglianze, emergano dal nostro lavoro e altri no, è funzionale al discorso che qui ci preme fare.

Questo lavoro non ha neanche un taglio storico, non ha intenzione di rintracciare alcuna discendenza diretta o indiretta di Proust da Nietzsche. Si può dire legittimamente che per molti aspetti Proust sia “nietzscheano”, che il suo romanzo operi una decostruzione morale, che sia un romanzo prospettivista, che addirittura realizzi a suo modo una figura artistica dell’oltreuomo, che talvolta conduca perfino Nietzsche oltre Nietzsche stesso, si possono individuare naturalmente anche alcuni (molti) autori che hanno influenzato entrambi. Ma del resto essi da una parte condividevano lo stesso humus culturale (una sola generazione li separa, Proust conobbe l’opera di Nietzsche quando questi era ancora vivente) e dall’altra Nietzsche era uno dei maestri che si andavano imponendo nella Francia in cui viveva e scriveva Proust. Proust fu anzi uno dei lettori francesi della prima ora di Nietzsche, e – specie grazie alla vicinanza con alcuni giovani nietzscheani (addirittura i suoi primi traduttori) – uno dei suoi primi estimatori. In realtà non si

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trattò esattamente di amore a prima vista, anche perché Nietzsche entrò in Francia non con le sue opere più teoriche, ma cominciando con quelle anti-Wagner (Richard Wagner a Bayreuth, Il caso Wagner), per le quali il wagneriano Proust non provava certo eccessiva simpatia. Ad ogni modo, il giovane liceale parigino, studente di filosofia col professor Darlu, non poteva non conoscere e non aver frequentato almeno alcune riduzioni manualistiche del pensiero di Nietzsche, sebbene egli ne avesse scarsa conoscenza diretta (anche perché la sua conoscenza della lingua tedesca non gli permetteva una lettura dei suoi testi in originale)1. Anche se dunque egli era su posizioni musicalmente lontane da Nietzsche, e anche se la conoscenza diretta dei suoi testi non era particolarmente approfondita né estesa, Nietzsche gli era ben presente, e fin da alcuni scritti giovanili il suo nome viene citato tra quelli dei maestri dell’epoca. Sarebbe insomma questa una prospettiva interessante, e percorribile, ma non è quella che abbiamo creduto di affrontare.

Questo lavoro non si propone neanche di comprendere Nietzsche attraverso Proust o viceversa. Bisogna forse rilevare qui che il nome di Nietzsche è uno di quelli che compare più di frequente in un’opera come il romanzo proustiano, sorprendentemente avara di riferimenti diretti, a dispetto della sua mole. Nietzsche viene citato (direttamente o attraverso le sue opere) per sei volte nel corso della Recherche, secondo solo a Platone e Pascal, sebbene questi riferimenti siano generalmente fugaci e privi di spessore teorico. Ad ogni modo anche leggere l’uno attraverso l’altro questi due autori potrebbe essere per certi versi sicuramente illuminante (per altri forse eccessivamente ambizioso), ma ancora non è ciò di cui si è trattato in questa tesi.

In modo forse più modesto abbiamo dedicato questo studio ad un tema teorico specifico, che risulta del resto molto rilevante nell’opera di entrambi, cercando tuttavia ancora di non fare un’operazione di tipo comparatistico. Il tema in questione è quello della critica al soggetto tradizionalmente (metafisicamente,

1 Per una biografia di Proust si rimanda alla monumentale (e relativamente recente) Vita di Marcel

Proust (Mondadori, Milano 2002) di Jean-Yves Tadié; per una ricostruzione dei rapporti

(ovviamente indiretti) tra Proust e Nietzsche si veda il capitolo 2 di D. LARGE, Nietzsche and Proust. A comparative study, Clarendon press, Oxford 2001 (pp. 63-109).

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cartesianamente) inteso, come soggetto sostanziale, unitario, coerente, identico, pensante (cosciente).

Le due critiche vengono trattate analiticamente in modo separato, rispettivamente nel primo (Nietzsche) e nel secondo (Proust) capitolo, che rappresentano il corpo della tesi, cui si aggiunge un’ampia conclusione, che ha un ruolo strutturale (è solo grazie ai temi teorici che qui si mettono in gioco che lo studio si giustifica e non si limita ad essere l’accostamento contingente di due autori che trattano lo stesso tema in modo più o meno simile) e che traccia a sua volta le linee di sviluppo di un discorso ulteriore, di cui questa tesi non sarebbe che un primo, a nostro avviso necessario, passo.

Prima di cominciare il nostro discorso vorremmo dare una preliminare visione d’insieme della struttura del lavoro, in modo da fornirne una mappatura generale che sia in grado di agevolare il lettore. Prima di cominciare vorremmo però evidenziare come lo studio si articoli secondo un doppio movimento: da una parte, in un primo momento di tipo “decostruttivo”, cerca di dare ragione della critica (o del tentativo di critica) al soggetto tradizionale che trova spazio nelle opere nietzscheana e proustiana (segnatamente qui ci riferiremo al romanzo À la Recherche du Temps Perdu), dall’altra, in un successivo momento “costruttivo”, si cerca di vedere come questa deflagrazione del soggetto non sia in realtà fine a se stessa, ma apra piuttosto un campo di possibilità alternative per la costruzione di un nuovo modello di soggetto, non più da intendersi come sostanza in qualche modo presupposta al discorso che la mette in scena, ma piuttosto come unità (di tipo stilistico) che si realizza performandosi attraverso una pratica di scrittura (ovvero un soggetto “narrato”, “letterario”, “stilistico” che sia istituito dall’atto stesso che l’attività letteraria mette in pratica, ovvero, di fatto, a posteriori). Tutto ciò, che rappresenta in sostanza il nucleo stesso del nostro discorso, la nostra tesi vera e propria, si chiarirà meglio in corso d’opera.

La pars construens del nostro lavoro resta comunque a livello di intuizione solo parzialmente sviluppata. La conclusione si limita infatti a tracciare le linee, i binari su cui questa ricerca potrebbe continuare (mancando del resto i quali la stessa pars destruens perderebbe se non completamente significato, almeno la sua cogenza) e dandone una prima fondazione teorica. Ma l’“ipertrofia” del momento

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decostruttivo si giustifica anche singolarmente per le opere (e le loro fortune) dei due autori in questione. Da una parte l’opera di Nietzsche non può non risentire della lettura che di essa dà Heidegger, il quale come è noto la accusa di essere una nuova ed estrema metafisica della soggettività. Ora, a noi è parso che un’accusa di questo tipo vanifichi in larga parte il pensiero del filosofo dell’eterno ritorno, e che bisogna effettivamente verificare quanto ad esso si adatti l’interpretazione di Heidegger, e quanto invece il pensiero di Nietzsche reagisca ad essa, dando vita ad una sorta di risposta anticipata all’accusa postuma. La filosofia di Nietzsche si propone infatti per numerosi aspetti come una filosofia anti-soggettiva, in quanto solo se cade questa prima illusione è possibile realizzare un vero crollo della metafisica in generale: di questo Nietzsche dimostra di essere consapevole in numerosi passi (li vedremo nel corso del primo capitolo) e per questo la sua critica del soggetto è tanto aspra e continuamente ripresa da angolature sempre diverse. A determinare una certa cautela nel trattare il problema del soggetto nell’opera del filosofo di Röcken stanno da una parte le esigenze interne di studio della complessa critica nietzscheana del soggetto come la prima e più nefasta illusione della metafisica (e al contempo di verifica della tenuta teorica di una siffatta critica), dall’altra l’accusa heideggeriana, che a maggior ragione invita ad analizzare con attenzione e perfino con un certo sospetto questo aspetto della filosofia nietzscheana. È comunque doveroso anticipare che il ruolo di Heidegger in questo studio si è limitato a quello di esegeta di Nietzsche come filosofo del compimento della metafisica, e che non ci siamo mai addentrati né nelle questioni specifiche relative ad Heidegger interprete di Nietzsche, né tanto meno di Heidegger filosofo.

A sua volta anche Proust richiedeva una certa cautela, se è vero che la lettura più immediata del suo romanzo À la Recherche du Temps Perdu è quella di un’autobiografia in cui il soggetto non solo è presente ma è dominante, ipertrofico. Sembra infatti in prima battuta di trovarsi di fronte ad una sorta di idealismo soggettivistico, ad un ego smisurato che fagocita il mondo e lo ripropone secondo la sua prospettiva particolarissima e distorta. Del mondo, sembrerebbe, non restano che i pur minimi particolari che fanno parte della coscienza di colui che lungo il romanzo dice di se stesso io. E ancora: la biografia

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– e a maggior ragione l’autobiografia – non è quella forma di romanzo che più di qualsiasi altra necessita di un io, e che più di ogni altra lo presuppone? Non si può pensare, in fondo, ad una sorta di immane (e certamente anomalo) Bildungsroman? Non ripropone forse la Recherche un modello squisitamente cristiano (e squisitamente soggettivo) di caduta e conversione (resurrezione nell’arte)? Sostenere la tesi di un Proust antisoggettivista appare quindi, almeno, controintuitivo, eppure a noi, entro i limiti che vedremo, è parsa la sua lettura più fedele.

Vediamo ora più da vicino come si articola il presente lavoro.

Il primo capitolo, “L’illusione dell’io. Nietzsche di fronte al soggetto”, analizza la suddetta critica al soggetto metafisico che ha luogo nell’opera nietzscheana, dalla quale, come abbiamo detto, sembra dipendere l’esito dell’intero agone volto alla distruzione della metafisica. Il punto di partenza è costituito proprio dalla lettura heideggeriana della filosofia di Nietzsche e da un primo tentativo di prenderne le distanze (ancora in forma non analitica) attraverso un allontanamento dell’idea oltreuomo da quella della realizzazione della soggettività umana (ciò di cui è invece protagonista l’ultimo uomo, cioè, di fatto, l’antitesi dell’oltreuomo). Prima di passare però all’analisi delle strategie nietzscheane di dissoluzione del soggetto abbiamo creduto di dover legare questo tema a quello metodologico (ma non solo) del prospettivismo, senza passare per il quale difficilmente crediamo che ci si possa confrontare con il pensiero nietzscheano, e che d’altra parte costituisce lo sfondo della lotta stessa ingaggiata contro il soggetto metafisico. Dopo aver cercato di leggere anche evolutivamente il prospettivismo, dai tempi (ancora legati alla metafisica di Schopenauer) della stesura del saggio Su verità e menzogna in senso extramorale fino all’elaborazione del prospettivismo maturo, abbiamo mostrato come esso tenda a conseguire i suoi esiti anche in campo ontologico verso la realizzazione di una vera e propria “ontologia ermeneutica” in cui l’essere evapori in un’ermeneia priva di centro: per giungere ad un tale esito è necessario del resto svincolare l’interpretazione tanto dal suo polo oggettivo (la cosa) tanto dal soggetto interpretante stesso (ciò a cui è tesa la critica che si analizza nei paragrafi successivi).

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Tale critica si articola in quattro momenti, di diversa natura e anche di diversa rilevanza teorica, che potremmo sommariamente chiamare: momento mitico, momento fisiologico, momento linguistico e momento ontologico. In realtà il primo di questi momenti (quello mitico, analizzato nel § 2) rappresenta solo uno stadio preliminare della critica, quale la troviamo ne La nascita della tragedia: si tratta di vedere i prodromi antisoggettivistici (in relazione all’arte tragica e alla festa dionisiaca) del pensiero di Nietzsche nel momento in cui esso risulta ancora legato alla metafisica schopenaueriana.

I momenti chiave della critica matura al soggetto tradizionale sono invece i successivi tre (trattati nei §§ 3, 4, 5). Il momento fisiologico (§ 3) analizza il tema della non unità dell’io, agito da una pluralità di forze e organizzato gerarchicamente in una pluralità di io. In questo paragrafo trovano spazio le analisi nietzscheane della volontà, della coscienza e un breve accenno alla matrice culturale di alcune idee qui esposte, che vanno fatte risalire al paradigma citologico applicato alla psicologia dai médecins philsophes (Taine in primis). Il momento linguistico (§ 4) analizza il soggetto come illusione grammaticale, nata appunto dall’esigenza di fingere un autore dietro ad un’azione, ovvero, più in generale, di perpetrare la finzione aristotelica della scissione di potenza ed atto, ovvero il mito di una forza scissa da ciò che è in suo potere (mentre una forza è solo in quanto agisce ed è ciò che agisce: il fare è tutto). Collegate a questo ordine della critica abbiamo trattato anche le questioni della causalità, della critica al Cogito cartesiano, delle conseguenze che la caduta del soggetto avrebbe sull’intero edificio della metafisica e infine delle sue conseguenze in campo politico e morale (che ne è dell’imputabilità, della responsabilità, se non c’è più un sostrato cui riferire intenzionalmente le azioni?). Nell’ultimo paragrafo (§ 5) abbiamo affrontato il tema spinoso dell’eterno ritorno dell’eguale, quale vetta teorica del filosofare nietzscheano e come colpo estremo che egli inferisce al soggetto. Dopo aver tentato infatti di capire cosa significhi il ritorno, così oscuramente trattato dai testi nietzscheani, e dopo un breve excursus sulle interpretazioni che del circolo vizioso sono state date, abbiamo indagato le sue conseguenze sul soggetto. Il ritorno come pensiero sulla totalità dell’essere esclude il soggetto stesso, che può pensarsi solo al di fuori del ritorno: l’esito del

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ritorno significherebbe quindi l’esplosione del soggetto, poiché esso di fatto significa esplosione delle identità, il dover (e voler) passare per ogni identità, per ogni Stimmung possibile, al fine di tornare al momento presente ripetuto infinite volte, essere insomma, come scrive Nietzsche sull’orlo della definitiva follia, “tutti gli uomini della storia”. Ma il ritorno come pensiero ontologico estremo comporta anche la fine di tutte le attività che dal soggetto dipendono e al soggetto rimandano: la visione, l’espressione, la rappresentazione, il pensiero stesso. Per questo Nietzsche non parla mai apertamente del suo pensiero abissale, ma si toglie di scena ogni volta che deve comunicarlo: si riflette in Zarathustra, e poi riflette questo nel pastore, cessa di parlare la lingua della filosofia e comincia a parlare per miti, parabole, allegorie.

Eppure, da questo punto di vista, l’inesprimibilità del pensiero ultimo rappresenta anche uno scacco alla critica nietzscheana al soggetto: esso sembra costretto a tornare in tutti i luoghi della filosofia (la rappresentazione, la parola, la visione stessa), dove pure non può che mancarsi. È questa in ultima istanza la zona d’ombra che individuiamo in conclusione del nostro discorso nietzscheano (seguendo in questo un’intuizione di Fabio Polidori).

Il secondo capitolo, “Un’ipertrofia del soggetto senza soggetto. Lettura della Recherche”, articola invece a sua volta la critica che muove al soggetto il grande romanzo proustiano, in ciò non seguendo direttamente il capitolo precedente, dal quale è teoricamente indipendente. Prima di procedere alla sua analisi diretta si è però voluto tracciare un affresco introduttivo al romanzo proustiano, grazie al quale muoversi più speditamente entro le analisi specifiche successive: tale introduzione (che occupa il § 1) si concentra sul tema del tempo nella Recherche come suo tema centrale e come realizzazione fondamentale di quel “principio generale della discontinuità” che sottende all’intero romanzo. Il nostro percorso vero e proprio inizia però solo con il paragrafo successivo, dedicato al tema dell’inaccessibilità dell’altro, in particolare in dipendenza dell’assunto prospettivistico che sta alla base della Recherche non meno che dell’opera nietzscheana. In questo contesto è stato possibile cominciare anche ad approfondire alcuni aspetti dell’estetica proustiana (non quella enunciata nella

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parte teorica del Temps Retrouvé, ma quella espressa nelle sezioni narrative, ed in particolare “nell’atelier di Elstir”) e delle possibilità di comunicazione interumana. Successivamente (§ 3) si affronta l’amore proustiano, come ratio cognoscendi della dispersione dell’essere umano, della sua inconoscibilità, della sua plurivocità, e del suo essere riassorbito in ordini più grandi di lui, entro i quali l’identità personale si perde. Collegati all’amore (il fondamentale personaggio di Albertine facendo da tramite) abbiamo potuto mettere in luce il problema della relazione tra menzogna e “verità” e quello dell’omosessualità e della transessualità. Il paragrafo seguente è quello che più si riallaccia a tematiche già affrontate in sede nietzscheana; in esso si affronta la molteplicità egologica, che si rifà agli stessi paradigmi già esaminati precedentemente (la citologia, Taine, i médicins philosophes, il paradigma stratigrafico) e che si configura tanto come molteplicità diacronica (le morti successive, strettamente legate al principio di un tempo atomico, raffigurate nella metafora della sfilata) quanto come molteplicità sincronica (la strutturazione dell’io come pluralità instabile, raffigurata dalla metafora dell’esercito). In questo paragrafo si toccano, anche se solo marginalmente, Pirandello (un cui racconto viene messo a paragone con l’egologia proustiana) e il surrealismo (Proust ha molti passi che sembrano andare in questa direzione, e proprio in essi la sua impronta antisoggettivistica si fa più audace); in conclusione si affronta poi il fondamentale tema del risveglio, in particolar modo legandolo al tema della compresenza del dominio della possibilità accanto a quello della realtà. Il quinto paragrafo raccoglie, secondo due linee principali, tutte quelle (molteplici) “strategie di desoggettivizzazione” che sono rimaste fuori dalle trattazioni precedenti. La prima di queste due linee è quella “per sottrazione”, vale a dire qui si intende vedere come Proust operi in levare sull’idea tradizionale del soggetto, privandolo di quelle facoltà che lo hanno da sempre caratterizzato (pensiero, memoria, libertà, desiderio). La seconda linea è invece quella che disperde l’individuo ricomprendendolo in entità più grandi, dalle quali si rivela indistinguibile (il gruppo, la serie, la stirpe, il genere, le leggi umane, le leggi organiche). Tra queste due linee una posizione intermedia occupa il tema dell’abitudine. Sempre in questo paragrafo si è data una lettura in chiave identitaria della scena finale del bal de têtes. Il sesto ed ultimo paragrafo cerca di

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articolare quello che ci è parso essere il paradosso egologico della Recherche, vale a dire il suo dare l’idea di essere un testo ipersoggettivistico laddove mette in scena una dissoluzione del soggetto tradizionale. La soluzione (possibile anche grazie ad una rilettura dei fenomeni di reminescenza come fenomeni che non riescono a garantire alcuna continuità personale) è quella di distinguere nel romanzo tra due Proust: il Proust teorico e il Proust romanziere, il primo che parla soprattutto nella sezione teorica incorporata all’ultimo volume del romanzo, ma non solo, e il secondo, più avanzato di quanto lo stesso Proust fosse a conoscenza, che emerge dal tessuto narrativo dell’opera. Ebbene: mentre il primo si propone di salvare l’io tradizionale, e crede in un nucleo identitario permanente dell’io, il secondo non fa lungo tutta l’opera che minarne le possibilità, rendendo il “vero io”, cui aspirerebbe il teorico, una chimera priva di forza reale. Eppure proprio il romanziere, che decostruisce l’io nel romanzo, è colui che attraverso la sua stessa pratica di scrittura non mette in scena un soggetto presupposto (quale vorrebbe ancora salvare il teorico) ma crea di fatto quell’io a posteriori che viene performandosi narrativamente e stilisticamente.

È così che si instaura il passaggio alla conclusione del lavoro (“Come si diventa ciò che si è”), in cui si mettono le due critiche nella prospettiva comune del loro esito, che consiste appunto nel liberare il campo dai detriti di un soggetto ipostatizzato, sostanziale, presupposto, al quale sentono di non potersi più affidare, per costruire, su questo nuovo terreno, un diverso tipo di soggetto: performativo, letterario, che dipenda dalla pratica di scrittura, e che solo in essa si istituisca. Questa è la soluzione di entrambi: andare in direzione di una nuova descrizione di sé dopo aver usato l’ironia verso quel sé che si dava per scontato, creare attraverso la pratica letteraria il proprio personaggio, molteplice ed unitario al contempo. Molteplice perché assomma in sé una pluralità di prospettive (è il caso del romanzo proustiano) e di voci (è il caso della polistilisticità nietzscheana), e unitario in quanto tiene la molteplicità sotto il giogo di uno stile superiore (la metafora o il grande stile). Nell’argomentare in questo senso è stato inevitabile passare, anche se brevemente, per la concezione estetica dei due autori,

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che si rivela significativamente analoga nel vedere nell’arte una forma di menzogna voluta superiore alla stessa realtà.

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Capitolo primo

L’illusione dell’io.

Nietzsche di fronte al soggetto

La domanda “che cosa è l’ente?” si trasforma [all’inizio della metafisica moderna] nella domanda del fundamentum absolutum inconcussum

veritatis. […] Essere libero significa adesso che l’uomo mette al posto

della certezza della salvezza, determinante per ogni verità, una certezza tale che in forza di essa, e in essa, egli diventa certo di se stesso come quell’ente che in tal modo si basa solo su se stesso.2

Così, a modo suo, Heidegger tratteggia un passaggio fondamentale all’interno della storia della metafisica occidentale: il momento in cui – a partire dalle Meditazioni metafisiche di Descartes, se vogliamo segnare in modo più o meno simbolico il luogo di questo passaggio – la soggettività dell’ego cogito diviene fundamentum absolutum inconcussum. Questo movimento metafisico, la cui logica interna porta il nome di nichilismo3, è quello all’interno e alla fine del quale si pone per il filosofo di Freiburg la filosofia della volontà di potenza di Nietzsche.

2 MARTIN HEIDEGGER, L’epoca dell’immagine del mondo, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 94.

3 Cfr.ID., La sentenza di Nietzsche: “Dio è morto” in ID., Sentieri interrotti, cit., p. 204. “Ma per Nietzsche il nichilismo […] è il processo fondamentale della storia occidentale e in primo luogo la legge di questa storia. […] Il nichilismo come la ‘logica interna’ della storia occidentale”. Per una panoramica sul nichilismo e per una breve storia dei rapporti di Heidegger con Nietzsche si veda FRANCO VOLPI, Nichilismo, Laterza, Bari-Roma 2004, in particolare alle pp. 83-107.

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In sostanza il discorso di Heidegger è il seguente: a partire da Descartes, l’essere dell’ente e la sua verità vengono a fondarsi sul soggetto. Ovvero il soggetto è la risposta cartesiana alla richiesta di un u`pokei,menon (un subjectum, appunto) che si fa sentire in lui non diversamente che in Aristotele: il fondamento inconcusso è l’ego cogito, “inteso come costante presenza”4. La verità diventa certezza della rappresentazione e sicurezza della disponibilità dell’ente: l’essere dell’ente si ridurrebbe così alla sua presenza, intesa anzitutto come rappresentabilità e disponibilità rispetto al soggetto. La volontà di potenza nietzscheana non farebbe altro che – basandosi a sua volta su di un’idea della verità come certezza – portare alle sue estreme conseguenze la linea soggettivistica della metafisica moderna. Da questo punto di vista il pensiero nietzscheano si inscrive a pieno titolo nella storia della metafisica come storia dell’oblio dell’essere, ovvero nella storia del nichilismo, pur come suo punto conclusivo – e a sua volta punto di partenza per un nuovo inizio (verosimilmente il pensiero heideggeriano). Alla luce della stessa idea portante Heidegger legge anche la sentenza nietzscheana “Dio è morto”, sentenza che apre, di fatto, la possibilità stessa del pensiero di Nietzsche. Nel saggio su La sentenza di Nietzsche: “Dio è morto”, Heidegger spiega che il Dio di cui si annuncia la morte è non solo e non tanto il Dio cristiano5: ciò che anzitutto viene meno con

l’assassinio di Dio è la possibilità stessa di un mondo soprasensibile, che sia in quanto tale vero e vincolante. Il nichilismo come legge e destino (Geschick) del divenire metafisico ha condotto finalmente alla svalutazione dei valori che aveva via via affermato: Ultrasensibile, Dio, Legge, Morale, Ragione, Progresso perdono la loro normatività e finiscono per annullare se stessi. (Solo in virtù di questa svalutazione – Entwertung – di tutti i valori supremi sarà possibile quella transvalutazione – Umwertung – che Nietzsche terrà ferma come obiettivo della propria filosofia dell’avvenire). Fin qui, Heidegger non si discosta dalla lettera nietzscheana; ma il passo che egli compie ulteriormente – certo in linea con la sua convinzione che si onori un pensatore solo pensando, il che significa

4 Ivi, p. 218. Cercheremo in generale di seguire questo breve segmento del pensiero heideggeriano attraverso questo illuminante saggio.

5 Come pure Nietzsche dichiara esplicitamente nel quinto libro della Gaia Scienza (FW 343): “Il più grande avvenimento recente – che “Dio è morto”, che la fede nel Dio cristiano è divenuta inaccettabile – comincia già a gettare le sue prime ombre sull’Europa”.

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inevitabilmente andare oltre di lui, usargli un’inevitabile violenza – è invece al di là di questa lettera. Heidegger pensa al vuoto che lascia la morte di Dio, come se il posto di Dio, o del soprasensibile in generale, sia rimasto vacante e aspetti di essere occupato da qualcuno. Non sarà però l’uomo (o l’oltreuomo, che altro non è per l’esegesi heideggeriana che la realizzazione dell’essenza umana) ad occupare il suo posto vuoto. In realtà nessuno occuperà quel luogo, il luogo dell’efficienza causale o della conservazione dell’ente in quanto creato, eppure allo stesso tempo se ne aprirà un altro, metafisicamente corrispondente (l’ultimo luogo in cui abiterà la metafisica prima del suo effettivo superamento): quello della soggettività quale si è venuta a costituire a partire da Descartes6. La filosofia della volontà di potenza è l’estrema radicalizzazione di questa soggettività che pone il mondo: in essa l’essere è divenuto valore, ovvero, nell’ottica heideggeriana della storia della metafisica come oblio dell’essere, “l’essere è stato abbassato a condizione posta dalla volontà di potenza come tale”7 – e ciò ha portato di nuovo a smarrire la via di accesso all’essere in quanto tale.

Partire, pur sommariamente, dalle pagine heideggeriane, che senza dubbio costituiscono la più importante ed inevitabile interpretazione nietzscheana del ’9008, può essere utile per chiarire la prospettiva da cui tenteremo di leggere un peculiare aspetto del pensiero di Nietzsche – ovvero il suo conflitto con l’io, e, più in generale, con il luogo della soggettività. Ovvero: l’esegesi heideggeriana può essere utile in funzione negativa, cioè cercando di capire in che modo e in quali punti la nostra lettura si discosti da quella di Heidegger9. È infatti noto che

6 Cfr. M. HEIDEGGER, La sentenza di Nietzsche «Dio è morto», cit., pp. 234-235. 7 Ivi, p. 237.

8 Per una rassegna delle interpretazioni nietzscheane cfr. MAURIZIO FERRARIS, Nietzsche e la

filosofia del Novecento, Bompiani, Milano 1989 o la parte finale diG. VATTIMO, Introduzione a

Nietzsche, Laterza, Bari-Roma 1990.

9 Una precisazione è qui doverosa: questo lavoro non si propone di studiare il pensiero di Heidegger, né in sé, né nel suo rapporto con la filosofia di Nietzsche. Sappiamo quanto il problema del loro rapporto sia spinoso e sia continuamente tematizzato tanto dagli studiosi dell’uno quanto dagli studiosi dell’altro filosofo, e sempre da prospettive diverse; si pensi ad esempio al fatto che gran parte della filosofia del Novecento tende a mettere i due pensatori su di una stessa linea genetica, di fatto trascurando o estromettendo l’interpretazione stessa di Nietzsche compiuta da Heidegger, in quanto fuorviante per comprendere i reali rapporti tra i due autori (Cfr.G. VATTIMO,

Nietzsche interprete di Heidegger,in Dialogo con Nietzsche. Saggi 1961-2000, Garzanti, Milano

2000). Trattare il pensiero di Heidegger e comprendere in esso quale posizione occupi la sua lettura di Nietzsche esula enormemente dai nostri propositi. Del resto non abbiamo qui voluto dar

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il corpo a corpo tra i due filosofi (l’Aus-einander-setzung, come la chiama Heidegger, cioè, propriamente, il confronto su alcuni temi filosofici specifici) si conclude con l’inserimento di Nietzsche all’interno della storia della metafisica occidentale, e in particolare della metafisica moderna, che si configura come abbiamo visto come metafisica della soggetività. Da qui l’invito a leggere Nietzsche alla luce di Aristotele e il suggerimento (che non abbiamo potuto seguire) di studiare Aristotele “per dieci o quindici anni” prima di dedicarsi a Nietzsche.

Il nostro studio in questa prima fase vorrebbe andare in direzione opposta a quella heideggeriana, ovvero vorrebbe comprendere le articolazioni della critica nietzscheana all’io, al soggetto, come momenti essenziali di un altro corpo a corpo, quello che Nietzsche intraprende contro la metafisica occidentale10. Anzi, Nietzsche sembra consapevole del fatto che per aver ragione della ratio metafisica che tiene in scacco l’occidente, sia inevitabile passare dalla dissoluzione dell’io e della soggettività11, e che anzi sia su questo campo che si gioca la battaglia cruciale: se il soggetto resiste all’urto del martello nietzscheano, la metafisica resisterà e continuerà ad avanzare le sue pretese12. Che questa lotta ci sia e che sia centrale nel pensiero nietzscheano è ciò che documenteremo e che cercheremo di capire, se questa lotta sia (o anche solo

luogo neanche ad una discussione dell’interpretazione heideggeriana della filosofia di Nietzsche, che rimane solo uno dei riferimenti esegetici tra i tanti che hanno cercato di dare risposta agli enigmi nietzscheani (sebbene siamo qui di fronte all’interpretazione più autorevole e complessa). Anche quest’analisi avrebbe ecceduto gli scopi di questa tesi, che vuole studiare un problema (il soggetto) in due autori (Nietzsche e Proust). Di Heidegger ci siamo serviti soprattutto dei due saggi La sentenza di Nietzsche “Dio è morto”, cit. e Chi è lo Zarathustra di Nietzsche? (in Saggi e

discorsi, Mursia, Milano 1991).

10 È noto che Heidegger, al contrario, pensa che questo suo essere anti-metafisico sia segno evidente dell’essere ancora coinvolto nella logica metafisica, poiché “come ogni anti- è conforme alla natura di ciò contro cui si volge” (ivi, p.198).

11 Si trovano nel corpus nietzscheano anche diversi attacchi diretti esplicitamente contro il cogito cartesiano e che avremo modo di analizzare più avanti (ad esempio: NF VII, 4, [22-25] e NF VIII,10 [158]).

12 NF VIII, 7 [55]. “Se «c’è un solo essere, l’io» e a sua immagine sono fatto tutti gli altro «enti» – se infine la fede nell’io si sostiene e cade con la fede nella logica, ovvero nella categoria metafisica della categoria razionale; se d’altra parte l’io si dimostra qualcosa che diviene, allora - - -”. Caduta la fede nella logica (ossia nella verità razionale della metafisica) cade di conseguenza l’io, l’idea illusoria sulla base della quale è stato costruito l’essere stesso: la conclusione di questa protasi (una specie di antecedente di un sillogismo), lasciata volutamente aperta da Nietzsche (e non intendiamo qui decidere cosa Nietzsche avrebbe voluto aggiungere, ma solo lasciarci trasportare da questa argomentazione) sarebbe verosimilmente che, caduto l’io, cade di conseguenza l’intero edificio metafisico occidentale. È questo, in qualche modo, il frammento che stimola in origine la presente ricerca.

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possa essere) vittoriosa è ciò che metteremo in questione al termine del nostro percorso all’interno dell’opera nietzscheana. Tale percorso vuole evidenziare in particolare alcuni nuclei centrali su cui la critica nietzscheana si attesta, ovvero vuole vedere come il concetto di soggetto arrivi ad interagire con i concetti chiave della filosofia di Nietzsche: a partire dai prodromi di questa critica – che troviamo nella Nascita della tragedia – fino alle relazioni del soggetto con le punte estreme del pensiero nietzscheano (la volontà di potenza e l’eterno ritorno), passando per la dissoluzione fisiologica dell’unità dell’io e per lo svuotamento del soggetto metafisico attraverso la dissoluzione della logica formale. In sede preliminare affronteremo il problema del prospettivismo, che riteniamo indispensabile tematizzare prima della trattazione esplicitamente dedicata all’io; e questo essenzialmente in quanto concepiremo il nostro percorso come la via nietzscheana verso un’ontologia ermeneutica13, ovvero l’evaporazione dell’essere in interpretazione, che necessariamente passa per uno svincolamento dell’interpretazione dal soggetto. Il problema del prospettivismo non è solo (per quanto sia anzitutto) una questione metodologica, ma risulta anche in questo senso tematicamente imprescindibile.

Prima però di cominciare questo percorso vogliamo citare un famoso passo dello Zarathustra, in cui Nietzsche parla dell’ultimo uomo, e in cui, seppur in forma poetica, Nietzsche stesso sembra voler squalificare l’interpretazione soggettivistica della sua filosofia.

Voglio parlare dell’essere più di tutti spregevole: questi però è l’ultimo uomo. [...]

Guai! Si avvicinano tempi in cui l’uomo non scaglierà più la freccia anelante al di là dell’uomo e la corda del suo arco avrà disimparato a vibrare!

Io vi dico: bisogna avere un caos dentro di sè per partorire una stella danzante. Io vi dico: voi avete ancora del caos dentro di voi.

13 Cfr. G. VATTIMO, Al di là del soggetto. Nietzsche, Heidegger e l’ermeneutica, Feltrinelli, Milano, 1981.

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Guai! Si avvicinano i tempi in cui l’uomo non partorirà più alcuna stella. Guai! Si avvicinano i tempi dell’uomo più spregevole, quegli che non sa disprezzare se stesso. Ecco! Io vi mostro l’ultimo uomo.

“Che cos’è amore? E creazione? E anelito? E stella?” – così domanda l’ultimo uomo e strizza l’occhio.

La terra allora sarà diventata piccola e su di essa saltellerà l’ultimo uomo, quegli che tutto rimpicciolisce. La sua genia è indistruttibile, come la pulce di terra; l’ultimo uomo campa più a lungo di tutti.

“Noi abbiamo inventato la felicità” – dicono gli ultimi uomini e strizzano l’occhio. [...]

Oggi si è intelligenti e si sa per filo e per segno come sono andate le cose: così la materia di scherno è senza fine. [...]

Essi non m’intendono: io non sono la bocca per questi orecchi.14

L’ultimo uomo, di cui Nietzsche canta il disprezzo in queste pagine aurorali dello Zarathustra, è in qualche modo il simbolo di quella soggettività che tutto informa di sé, quella stessa soggettività onnipotente che secondo Heidegger in Nietzsche avrebbe trovato il suo apice, occupando il luogo metafisico corrispondente a quello che occupava Dio prima della sua morte. Lo Übermensch non è l’ultimo uomo, né tanto meno rappresenta l’essenza dell’uomo (ne è anzi negazione15), e sta in rapporto a questo come colui che ha imparato il carattere

illusorio di ogni soggettività rispetto al trionfo della soggettività stessa16.

L’ultimo uomo – e non l’oltreuomo – è l’apice, lo stadio conclusivo, della soggettività umana. Nei luoghi più pericolosi questo soggetto rimane sicuro di sé, il suo domandare è fittizio, egli può ammiccare ed eludere le sue stesse domande. L’ultimo uomo ha assoggettato ogni cosa più alta di lui, ogni anelito, ogni amore; la terra sotto i suoi piedi si è rimpicciolita, finalmente domata, non è più in grado

14 Z, Prologo, 5. Il passo per intero è uno dei più belli ed intensi dell’intero Zarathustra; la scelta di riportarne solo alcuni frammenti non restituisce il pathos nietzscheano ma è volta esclusivamente all’economia della nostra lettura del passo – e quindi riporta solo i passi che specificamente commenteremo.

15 Cfr. G. DELEUZE, Nietzsche e la filosofia e altri testi, Einaudi, Torino 2002, la cui tesi sulle differenza essenziale tra uomo e oltreuomo, che si trova agli antipodi della lettura heideggeriana dell’oltreuomo come realizzazione dell’essenza umana, sposiamo appieno.

16 Per l’interpretazione di questo passo ci siamo avvalsi di FABIO POLIDORI, Necessità di

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di metterlo in crisi. La felicità dell’ultimo uomo è autocompiacimento, il vedersi al di sopra di tutte le cose, il sapersi fondamentum inconcussum, il potere di strizzare l’occhio di fronte a tutto quanto egli ha assoggettato, certo del suo dominio. La sua conoscenza è uno strumento sicuro, capace di restituire per filo e per segno l’ordine delle cause, la disposizione dell’ente, che presuppone di aver ridotto il mondo a Vorhandenheit (usiamo il termine heideggeriano per la disponibilità, l’aver sotto mano, a portata di mano), a mera utilizzabilità: il mondo non ha più alcun mistero, alcuna ombra, alcun pericolo. L’ultimo uomo è la “figura della soggettività pienamente autonoma, in grado di assoggettare e ridurre a sé tutto quanto incontra”17. È la soggettività a cui Heidegger vuole ridurre la filosofia nietzscheana della volontà di potenza, come forma estrema del soggettivismo moderno. In realtà questa soggettività, il modo di essere soggetto dell’ultimo uomo, rappresenta la più radicale delle alternative al pensiero dell’oltreuomo e della volontà di potenza. L’ultimo uomo è la negazione dell’oltreuomo: è la soggettività che tutto fagocita rispetto alla consapevolezza dell’illusorietà di ogni soggettività.

Per affermare l’oltreuomo Nietzsche deve estromettere dal suo pensiero la soggettività, altrimenti il suo oltreuomo sarà un mero superuomo, ovvero un uomo superiore, un uomo infinitamente potenziato, in ultima istanza l’ultimo uomo, colui che afferma la sua soggettività e in essa il trionfo della metafisica.

Nietzsche è consapevole di quale sia la posta in gioco, e sa perfettamente di correre il rischio heideggeriano. Per questo egli gioca le sua mosse contro l’io, cercando di escludere il soggetto dalla sua filosofia, di squalificarlo, cercando di dar vita ad una filosofia senza soggetto18. Nietzsche sta rispondendo al suo più grande interprete (e anche più grande accusatore) in anticipo19, cercando quasi di prevenire la possibilità stessa che si inscrivesse il suo pensiero all’interno di una deriva soggettivistica della metafisica.

17 Ivi, p. 59.

18 Dopo la filosofia del Novecento, dopo Freud, Wittgenstein, Heidegger, Foucault e via dicendo, l’idea di una filosofia senza soggetto non desta forse più particolare scalpore. Non bisogna d’altra parte dimenticare che se questo modo di pensare si è reso possibile, ciò lo si deve anche e in larga misura alla filosofia nietzscheana.

19 Per la lettura di Nietzsche come una risposta in anticipo, un sottrarsi anticipato di Nietzsche alle obiezioni di Heidegger, cfr. il saggio di FERDINANDO G. MENGA, La passione del ritardo. Dentro al confronto di Heidegger con Nietzsche, Franco Angeli, Milano 2004.

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1.

“Erleben ist erdichten”. La questione del

prospettivismo

Tre arbitri di baseball non riuscivano a mettersi d’accordo su come chiamare i balls e

gli strikes. Il primo disse : «Li chiamo come sono». Il secondo disse:

«Li chiamo come li vedo». Il terzo arbitro, il più bravo, disse : «Non sono nulla finché non li chiamo».

Neil Simons20

1.1 “Che cos’è la verità?”

Rispose Gesù : “Tu lo dici. Io sono re. Per questo sono nato e per questo sono venuto al mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce”. Gli dice Pilato: “Che cos’è la verità?”21.

L’unica figura del Nuovo Testamento cui Nietzsche afferma di guardare con rispetto è il governatore romano Ponzio Pilato. In lui legge la “nobile ironia di un romano” di fronte ad un abuso tanto spudorato della parola “verità” da parte di Gesù. L’unico passo dotato di valore dell’intero Vangelo è questa breve battuta di Pilato22, una domanda che da sola può mettere in crisi (purché la si sappia ascoltare e le si dia il giusto peso) l’intero edificio del cristianesimo, in prima istanza, ma di fatto poi di tutta la metafisica occidentale, con la sua fede cieca nell’“essere” e nel “vero”. Il problema di Pilato è centrale per Nietzsche: in numerosi passi ritroviamo la sua stessa domanda: “che cos’è la verità?”23. Il suo

20 Citato in A.G. GARGANI, Il filtro creativo, Laterza, Bari-Roma 1999, p. 5. 21 Giovanni XVIII, 37-38

22 Cfr. AC, 46.

23 Cfr. UWL I, MA 66, M 93, AC 8. Si noti, anche dalla collocazione di questi passi, come la questione non cessi mai di essere a tema nel corso di tutta l’opera nietzscheana.

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agone contro la metafisica passa necessariamente per un ripensamento del concetto di verità; anzi, parte proprio da qui, da un ripensamento in termini “extramorali” della verità, ovvero dalla sua demistificazione, ovvero, ancora, dalla scoperta della sua natura convenzionale e della sua portata eminentemente sociale. Ma non si tratta di un concetto scartato preliminarmente e poi lasciato cadere: come spesso avviene, Nietzsche continuamente reimposta i suoi problemi , affronta sempre di nuovo e da nuove angolature quelli che sono gli snodi centrali del suo pensiero; cioè della sua lotta. Non si può portare un attacco radicale alla tradizione occidentale (platonico-cristiana) senza venire sempre di nuovo a confliggere col problema con cui Pilato spiazza Gesù (egli infatti tace di fronte alla domanda) e con cui Nietzsche, consapevole erede, in questo, del governatore romano, cerca di spiazzare un intero edificio teologico-metafisico, un intero modo di pensare: quid est veritas?

Il problema di che cosa sia la verità si configura in realtà in termini più complessi nel corso dell’opera nietzscheana: come è possibile conoscere il reale?, che rapporto istituiamo noi con l’oggetto cui ci relazioniamo?, quale oggetto (quale fatto?), quale “noi”? È questo il problema che riteniamo di dover affrontare in sede preliminare, in quanto problema di portata anzitutto metodologica (che non mancherà però di conseguire i suoi effetti nei luoghi teoreticamente più densi dell’opera nietzscheana), nel nostro discorso su Nietzsche e sulla sua complessa posizione riguardo al tema che abbiamo in prima battuta definito del “soggetto”. Si tratta del problema che prende il nome (Nietzsche stesso lo chiama così24) di prospettivismo. Ovvero il tentativo di rispondere al quesito di Pilato, negando che esista una verità metafisicamente intesa, e dunque riconducendo ogni possibile discorso sul mondo, ogni possibile concezione, a mera interpretazione25. È bene

24 A titolo di esempio cfr. FW 354, NF, VIII, 7 [60].

25 Fin troppo abusata, ma comunque efficace, la formula che Nietzsche utilizza in un frammento postumo degli anni ’80 e che è diventata la definizione canonica di prospettivismo: “I fatti non ci sono, ci sono solo interpretazioni” (NF, VIII, 7 [60]). Riportiamo il passo per intero, con l’intenzione di commentarlo più avanti: “Contro il positivismo, che si ferma ai fenomeni: «ci sono solo fatti», direi: no, proprio i fatti non ci sono, bensì solo interpretazioni. Noi non possiamo contare su nessun fatto «in sé»; forse è un’assurdità volere qualcosa del genere. «Tutto è soggettivo», dite voi: ma già questa è un’interpretazione, il «soggetto» non è niente di dato, è solo qualcosa di aggiunto con l’immaginazione, di appiccicato dopo. – È infine necessario porre l’interprete dietro l’interpretazione? Già questo è invenzione, ipotesi”. (Per una definizione globale e analoga del prospettivismo Cfr. NF VIII, 1 [115]). Sembra – cfr. per esempio, ALEXANDER

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chiarire fin da subito che già il parlare di interpretazioni potrebbe essere di per sé fuorviante: sembrerebbe presupporre infatti, da una parte, un oggetto – un testo, nel senso più ampio possibile – da interpretare, e dall’altra un interprete. In realtà Nietzsche, come vedremo, vuole negare proprio che l’interpretazione sia il frutto di un’interazione tra questi due poli26.

Ma di questo parleremo più avanti. Per ora è bene confrontarsi – è l’ultima premessa prima di affrontare direttamente il prospettivismo – con il ruolo paradossale di una posizione come quella prospettivistica all’interno di un’opera filosofica (pur non sistematica) che sostiene e cerca di avvalorare tesi specifiche rispetto ad altre. Se neghiamo il fatto in sé (inconoscibile o inesistente) e lasciamo solo un proliferare di interpretazioni in lotta tra loro, e tutte con il medesimo diritto di esprimersi e con la medesima inevitabile fallacia, a che scopo continuare ad affannarsi, a scrivere libri per sostenere tesi, a imbastire polemiche grandiose contro un certo modo di vedere qualcosa? Pensa veramente Nietzsche che le sue concezioni del cristianesimo, della morale, della coscienza, del socratismo e via dicendo, siano vere? E in che senso ciò è possibile, alla luce del dissolvimento della verità in convenzione e del fatto in interpretazione? Ma se egli non le ritiene realmente valide, come si giustifica lo sforzo indefesso di avvalorarle?

Senza la pretesa qui di “risolvere” il problema del prospettivismo e della sua relazione alla peculiare posizione del Nietzsche autore, possiamo indicare alcuni primi accenni di via d’uscita. Anzitutto, prospettivismo non è sinonimo di

derivi dalla radicalizzazione di una metafora tratta dalle arti visive ed utilizzata in ambito epistemologico per la prima volta da Leibniz, in Monadologie, §57: “E così come una medesima città, se guardata da punti di vista differenti, appare sempre diversa ed è come moltiplicata

prospetticamente, allo stesso modo, per via della moltitudine infinita delle sostanze semplici, ci

sono come altrettanti universi differenti, i quali tuttavia sono prospettive di un unico universo secondo il differente punto di vista di ciascuna monade” (G.W. LEIBNIZ, Monadologia, Bompiani, Milano 2001). La radicalizzazione nietzscheana consisterà, essenzialmente, nel togliere la città, ovvero nel negare che ci sia qualcosa che sussiste al di là delle prospettive stesse.

26 Ma se da una parte sarà più semplice svincolare l’interpretazione dall’oggetto, dal mondo (è la soluzione, in sostanza, dell’idealismo) dall’altra parte è proprio il soggetto dell’interpretazione ciò che sarà più difficile negare (e proprio questo, ci è parso, è lo scopo dell’intero corpo a corpo nietzscheano con la tradizione metafisica occidentale).È la tesi in particolare di Klossowski, cfr.

Nietzsche e il circolo vizioso, Adelphi, Milano 1981, ma cercheremo di capire lungo tutto questo

capitolo quanto questo corpo a corpo finisca per essere effettivamente vittorioso per Nietzsche, e quanto invece il soggetto finisca per tornare ineludibilmente, e non possa essere in ultima istanza sconfitto (cfr. su questo in particolare FABIO POLIDORI, Necessità di un’illusione, pp. 11-15 e

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relativismo27. Se ogni concezione non è più che interpretazione, ciò non significa che ogni interpretazione abbia eguale valore, e che dunque in fondo tutte le prospettive siano indifferenti. Se l’interpretazione è il rapporto necessario – l’unico possibile – alle cose (parlare di “cose” è in realtà fuorviante, ma lo facciamo per comodità e consapevoli dell’inadeguatezza del termine), ciò non significa che tutte le interpretazioni siano da considerare sullo stesso piano. Esistono prospettive migliori, per cui si può lottare contro altre interpretazioni, purché si resti consapevoli della loro natura e consapevoli che non esiste del resto una prospettiva migliore in assoluto, o comunque migliore di tutte le altre: essa perderebbe immediatamente la sua natura di prospettiva. Accanto a questa prima risposta possiamo, con Nehamas, legare la comprensione del prospettivismo a quella dell’“estetismo” nietzscheano28. Se il mondo è un testo, o si può considerare alla stregua di un testo, di un’opera d’arte, allora è normale che di questo testo ci possano essere interpretazioni molteplici, disparate, conflittuali, reciprocamente escludentisi, che pure cercano di affermare il loro diritto contro le altre, la loro superiorità, pur negando di poter mai esaurire ermeneuticamente il testo stesso. In realtà questo discorso ci è d’aiuto anche senza impegnarci teoricamente a condividere l’assunto nehamasiano per cui il mondo per Nietzsche è da considerare come fosse un’opera d’arte. Possiamo sfruttare quest’assimilazione come mero parallelo, come modello attraverso cui concepire il prospettivismo nietzscheano come qualcosa di peculiarmente distinto da un relativismo di fatto paralizzante29. A questo bisogna aggiungere un altro fattore importante: l’interpretazione non è qualcosa di consapevolmente scelto. La nostra visione del mondo non è determinata dall’oggetto né è assunta con un atto di volontà di chi la assume, ma è da considerarsi il portato di un complesso di fattori,

27 Cfr.A. NEHAMAS, Nietzsche. La vita come letteratura, cit., p. 66. 28 Ivi, p. 17-18.

29 Si pensi anche al modo in cui Rorty delinea la figura dell’ironico liberale (ovvero di colui che è conscio della natura prospettica della propria visione del mondo, dell’impossibilità di fondare definitivamente un punto di vista rispetto agli altri, e ciononostante si sforza, si mette in gioco, per affermare la propria visione liberale (vale a dire, in ultima istanza, per limitare il dolore nel mondo). Cfr. RICHARD RORTY, La filosofia dopo la filosofia, Laterza, Roma-Bari 1989.

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individuali, storici, culturali: una nuova interpretazione corrisponde ad una nuova, differente forma di vita30.

Se dunque le interpretazioni nietzscheane sono da considerare esse stesse alla stregua di quelle del metafisico, questo non è in nessun modo un’obiezione contro di esse. Anzi, lo stesso Nietzsche, rendendosi conto di essere passibile di una tale critica, nel momento in cui, in Al di là del bene e del male, nega ogni normatività della natura in quanto distorsione antropologica di comodo e afferma che le norme mancano in modo assoluto, chiosa così questo passo: “Posto poi che anche questa fosse solo un’interpretazione – e voi sareste abbastanza solleciti da obiettarmi ciò – ebbene, tanto meglio.”31

1.2 La risposta di Su verità e menzogna

Veniamo ora più da vicino ai testi nietzscheani, e in particolare cominciamo con l’avvicinarci al breve testo Über Wahrheit und Lüge im aussermoralischen Sinne (Su verità e menzogna in senso extramorale). Questo scritto giovanile (risale al 1873, sostanzialmente contemporaneo alla Nascita della tragedia, e viene fatto rientrare in quello che canonicamente è definito “primo periodo”32), mai dato alle

30 Un esempio in JGB, 55, dove si parla di diversi modi di rapportarsi al divino in base a diverse forme di vita. Più noto il tema di FW 125, in cui si annuncia la morte di Dio come un evento in virtù del quale dividere la storia dell’umanità (“tutti coloro che verranno dopo di noi apparterranno in virtù di questa azione ad una storia più alta di quanto siano mai state le storie fino ad oggi!” e più avanti un nuovo spartiacque è posto dalla comprensione di questo evento: “‘vengo troppo presto!’, proseguì, ‘Non è ancora il mio tempo! Questo enorme evento è ancora per strada e sta facendo il suo cammino – non è ancora arrivato alle orecchie degli uomini”): la morte di Dio accade in un certo momento e inaugura una nuova forma di vita, e con essa la possibilità di interpretazioni diverse. Cfr. anche, stavolta in sede più teorica, MA 16, dove si lega la costruzione di un mondo alle inclinazione morali, estetiche e religiose così come alle nostre passioni e alle nostre paure; cfr. infine Z, Dei mille e uno scopo, dove lega il gusto alla forma di vita di un popolo.

31 JGB, 22. Ancora una volta ci richiamiamo a Nehamas e alla sua interpretazione del modo in cui le posizioni di Nietzsche siano da ritenersi vere: “Mediante l’artificio di definire vere le sue concezioni, Nietzsche sottolinea la loro natura profondamente personale e idiosincratica, il fatto che esse siano le sue proprie interpretazioni” (NEHAMAS, La vita come letteratura, cit., p. 91).

32 Con questa suddivisione del pensiero di Nietzsche si raggruppano tradizionalmente le sue opere in tre blocchi: quello delle opere giovanili (fino a Umano, troppo umano), quello cosiddetto “illuministico” (da Umano, troppo umano fino a Così parlò Zarathustra) e infine quello maturo (dallo Zarathustra alla follia). Cfr. ad esempio, G.VATTIMO, Introduzione a Nietzsche, cit., ID., Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della liberazione, Bompiani, Milano 1974, Karl

Löwith, Nietzsche e l’eterno ritorno, Laterza, Bari-Roma, 1982 (pp. 20-25). Una trattazione leggermente alternativa di tale periodizzazione è quella presentata da E. FINK in La filosofia di Nietzsche, Marsilio, Venezia 1973, in cui, in sostanza il terzo periodo è spezzato in due parti, l’una

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stampe da Nietzsche, presenta, in un contesto teorico ancora schopenaueriano, un proto-prospettivismo. Non è infatti sbagliato leggere il prospettivismo – nella sua forma matura – come una conquista tarda di Nietzsche, solo preparata da scritti, pur di capitale importanza sia dal punto di vista storico che da quello teorico, come questo. La domanda di Pilato, già posta in questo testo, ottiene una risposta che solo parzialmente si può far rientrare nel prospettivismo radicale (in qualche modo – richiamandoci di nuovo al passo di Leibniz33 – la città cui si guarda – la cosa in sé di Kant e del non ancora rinnegato Schopenauer – è pur sempre postulata, anche se di fatto non attingibile) col quale dovremo confrontarci in seguito.

Lo scritto Su verità e menzogna attacca la hybris di quell’animale intelligente ed infinitamente vanesio che vive sperduto in un angolo remoto dell’universo. Questa tracotanza umana è quella che fa credere alla possibilità di penetrare la natura, le cose in sé, con la forza dell’intelletto. In realtà questo osannato intelletto (che Nietzsche tiene a mostrare come forma transeunte e del tutto contingente nell’universo34) non è che uno strumento il cui effetto universale è l’inganno: “L’intelletto, come mezzo per conservare l’individuo, spiega le sue forze principali nella finzione”35. Non dunque la verità come un che di metafisicamente inteso, come verità del reale, ma verità come inganno che l’uomo perpetra verso se stesso, fingendo di poter conoscere ciò che gli è precluso, allo scopo di non soccombere sotto il peso annichilente dell’altra verità (intesa qui non più come verità di comodo, sistematizzazione arbitraria del reale ad opera dell’intelletto – e per mezzo di un linguaggio – ma come quel fondo oscuro, quel caos originario che molto ricorda il terrificante volto della volontà schopenaueriana)36.

occidentale sotto il segno del profeta dell’eterno ritorno (ma senza mai ritrovarne la capacità costruttiva, la forza dello Jasagen).

33 Cfr. supra, n. 25.

34 “Vi furono eternità in cui esso [l’intelletto] non esisteva; quando per lui tutto sarà nuovamente finito, non sarà avvenuto nulla di notevole”, UWL I, p. 227.

35 UWL I, p. 228.

36 Cfr. Sul pathos della verità in PGZ, p. 88. “Tale sarebbe la sorte dell’uomo se egli fosse soltanto un animale conoscente; la verità lo spingerebbe alla disperazione e all’annientamento; la verità di essere condannato alla non verità. All’uomo per contro si addice solo la fede in una verità raggiungibile, in un’illusione cui ci si avvicina con fiducia”. Bisogna appunto fare attenzione alla distinzione tra “verità” intesa in senso convenzionalistico (si veda oltre la risposta nietzscheana al quesito di Pilato in UWL, I) e “verità” come quel fondo oscuro, quella cosa in sé che ancora – sebbene molto simile ad un Caos impenetrabile – non è stata abolita.

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Ma gli elementi che Nietzsche mette in movimento in questo scritto sono già molti, e, se le differenze con il prospettivismo maturo non sono trascurabili, bisogna del resto notare anche i punti che resteranno saldi all’interno del suo pensiero. Anzitutto la già accennata questione dell’errore, dell’illusione, della finzione come strumento di autoconservazione dell’uomo: abbiamo l’illusione per non perire a causa della verità37. Se non intraprendessimo un continuo lavoro di sistematizzazione, razionalizzazione, concettualizzazione – ovvero: falsificazione – del reale, in nessun modo potremmo trovare quella sicurezza che ci permette di vivere la nostra vita.

Ma questo breve saggio si concentra in particolare su di una prospettiva essenzialmente linguistica. Questo testo dà la struttura formale – leggi: linguistica – della décadence. È Vattimo in particolare a mettere in rapporto questo testo con la Nascita della tragedia in questi termini: La nascita della tragedia si concentra sul passaggio, in cui è andata persa la possibilità di una conoscenza tragica (ovvero col “suicidio” della tragedia operato da Euripide e con il trionfo correlativo della ratio socratica), e quindi tratta il tema della décadence dal punto di vista genetico (“archeologico”, vale a dire: come si è potuta dare la decadenza a partire da un’età tragica, e quindi non decadente); Su verità e menzogna invece si sgancia dalla questione del come e quando la décadence si sia prodotta e ne affronta invece la struttura da un punto di vista formale, linguistico38. È con il linguaggio che comincia infatti a porsi il problema della verità: con i nomi, con il dover catalogare gli enti, noi operiamo impropriamente (o meglio: arbitrariamente) una selezione e un raggruppamento degli enti: una “designazione delle cose uniformemente valida e vincolante”39. Il “fatto” che la pietra sia “dura” dipende esclusivamente dal fatto che abbiamo avuto degli stimoli assolutamente soggettivi (e per di più diversi tra loro) che abbiamo definiti “durezza”. Non esiste

37 Cfr. NF VIII 16 [40], “Abbiamo l’arte per non perire a causa della verità”. Si tratta qui di quella verità dionisiaca che troviamo nel mito di Sileno, che Nietzsche riporta nella Nascita della tragedia, cfr. GdT, 3. Sileno, il saggio seguace di Dioniso risponde così alla domanda di re Mida (quale sia la cosa migliore e più desiderabile per gli uomini): “Il meglio per te è irraggiungibile: non essere nato, non essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è – morire presto” (GdT, 3). È per non entrare in contatto con questo tipo di verità che una cultura decadente, che ha perso il senso della conoscenza tragica, crea quegli schermi logico-linguistico-concettuali (e di fatto, nel mondo odierno, scientifici) che sono oggetto di trattazione (e di smascheramento) in Su

verità e menzogna in senso extramorale.

38 Cfr. G. VATTIMO, Il soggetto e la maschera, cit., pp. 43-45. 39 UWL, I, p. 229.

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un metodo alternativo, un criterio pubblico e pubblicamente verificabile della “durezza”. Ogni trasposizione della cosa in parola risulta così senz’altro arbitraria: le parole non dipendono dalla verità (semmai – lo vedremo tra brevissimo – la creano), e non esiste qualcosa come una “espressione adeguata”. Già in prima istanza si sottopone uno stimolo ad una doppia metaforizzazione: “Uno stimolo nervoso, trasferito anzitutto in un’immagine: prima metafora. L’immagine poi plasmata in un suono: seconda metafora”40. Inoltre il linguaggio, non potendo aderire al flusso continuo del reale e alla irriducibile individualità degli enti, risulta inevitabilmente una forza che crea concetti41. E concetto, per Nietzsche, non è che congelamento della realtà: da una parte l’operare cesure arbitrarie per rendere discreto (solo il discreto è afferrabile) ciò che è continuo, dall’altra l’obliterazione delle differenze individuali per rendere uguale ciò che non lo è42:

Il trascurare ciò che vi è di individuale e di reale ci fornisce il concetto, allo stesso modo che ci fornisce la forma, mentre la natura non conosce invece nessuna forma e nessun concetto, e quindi neppure alcun genere, ma soltanto una x, per noi inattingibile e indefinibile. Altresì la nostra antitesi tra individuo e genere è infatti antropomorfica e non sgorga dall’essenza delle cose43.

Il linguaggio pone dunque le condizioni per il fraintendimento della realtà (si noti peraltro come questa realtà inattingibile sia descritta in termini classicamente metafisici – l’essenza delle cose, dice Nietzsche) e con questo pone le condizioni dell’affermarsi dei concetti di verità e menzogna (in un senso che potremmo definire “morale” distinguendolo dal senso aussermoralisch [extramorale] cui fa riferimento il titolo). In particolare, a rendere necessario l’affermarsi di questi concetti è la necessità di creare una società in cui si sospenda il bellum omnium contra omnes: per questo è necessario ricorrere a degli “ideali regolativi” cui tutta la comunità deve attenersi, una legislazione (fornita essenzialmente dal linguaggio) che renda possibile la comunicazione e quindi la società stessa.

40 UWL, I, p. 331.

41 Cfr., per la critica ai concetti, GD, La ragione nella filosofia, 4 e NF VII 34 [131]. 42 “Ogni concetto sorge con l’equiparazione di ciò che non è uguale”42. UWL, I, p. 232. 43 UWL, I, p. 233.

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Perché una società funzioni bisogna che i suoi componenti si sentano tutelati dall’inganno (o meglio: da quelli che sono i suoi effetti dannosi) e quindi occorre poter capire chi inganna, in modo da poterlo allontanare dalla società, renderlo innocuo. Ecco che l’illusione viene istituzionalizzata: si pone d’autorità una finzione canonica, un modo in cui è lecito (anzi doveroso) mentire. Il dire la verità viene così ricondotto ad un mentire secondo metafore usuali. Ecco il potente passaggio in cui Nietzsche risponde alla domanda di Pilato:

Che cos’è dunque la verità? Un mobile esercito di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane che sono state potenziate poeticamente e retoricamente, che sono state trasferite e abbellite, e che dopo un lungo uso sembrano ad un popolo solide, canoniche e vincolanti: le verità sono illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria, sono metafore che si sono logorate e hanno perduto ogni forza sensibile, sono monete la cui immagine si è consumata e vengono prese in considerazione soltanto come metallo44.

L’uomo crea metafore, è anzi un suo grande potere, e sarà anche uno dei tratti che caratterizzerà positivamente lo Übermensch. Ciò che però trasforma la metafora in verità è la potenza dell’oblio. Il lungo uso rende la metafora usuale, convenzionale: inconsciamente e per un’abitudine inveterata in una storia secolare ci si dimentica quale fosse l’origine delle parole, del linguaggio, del concetto. Si crea uno stile in base al quale si mente abitualmente. Ma ci si è dimenticati la natura illusoria di quello stile, la natura metaforica di quelle immagini, l’origine antropomorfica di quelle relazioni che crediamo di vedere sussistere tra le cose: in base a questo oblio, lo stile (un particolare stile) di menzogna diviene vincolante. Chi non mente secondo questo stile è escluso dalla comunità. Egli non mente più degli altri, ma fa un cattivo uso delle convenzioni, usa espressioni che sono state ritirate dal novero di quelle comunemente e istituzionalmente accettate. Così ogni concetto è il residuo – “tiepido e

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