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4 “Molte anime mortali” 631 L’individuo molteplice di Proust

4.1 La discontinuità egologica

“Permanenza e durata non sono mai garantite a nulla, nemmeno al dolore”632: così scrive Proust in un passaggio delle Fanciulle in fiore. Abbiamo già avuto modo di individuare una distanza non trascurabile tra il pensiero di Henri Bergson e ciò che è possibile evincere dal romanzo proustiano, che in alcun modo è possibile considerare, come pure talvolta si è fatto, una versione romanzesca del bergsonismo. A fare in particolar modo da discriminante è l’idea di durata, centrale in Bergson e incompatibile (come ben dimostra la massima proustiana appena citata) con quanto emerge dalla Recherche, in cui si vuole dar vita ad una scansione temporale che si basi sul principio opposto. Alla continuità melodica Proust oppone il principio generale di discontinuità633, che investe tutto il suo romanzo, a partire dalla sua sostanza temporale. Fin qui, niente di nuovo: abbiamo già avuto modo di parlare del tempo proustiano come tempo frammentato, atomico, vuoto. E abbiamo anche già detto come il tempo stesso sia la forza prima che dà forma alla realtà con l’esito di frantumarla in pezzi irrelati (Deleuze a tal proposito parla della Recherche come una macchina per creare

631 La citazione è tratta ovviamente da Friedrich Nietzsche (VMS 17). 632 JF, p. 247.

633 Ricordiamo che l’illuminante lettura di Proust che propone questo principio è quella di Georges Poulet (cfr. in particolare Études sur le temps humain, vol. 1). Anche ne Lo spazio proustiano Poulet porta avanti un discorso analogo, che si preoccupa anche di portare a debita distanza il romanzo proustiano da una sua eventuale lettura bergsoniana; ma questo saggio pare costruito su di un vizio di forma: se infatti è vero che il tempo della Recherche è discontinuo, e che lo spazio stesso si trova ad essere trattato in modo discontinuo, ciò non vale a concludere che il tempo è spazializzato o considerato alla stregua di una dimensione spaziale (è semmai vero il contrario: lo spazio è trattato come il tempo).

frammenti, e del tempo come di quella forza grazie alla quale esso produce incessantemente questi frammenti privi di una totalità che li redima634).

Un discorso analogo è possibile farlo anche per quanto riguarda l’io. Come a proposito del tempo tanto Bergson quanto Proust si scagliavano contro il tempo dell’orologio, ma finivano per reagire ad esso in modi antitetici, così qui entrambi prendono come oggetto polemico l’io superficiale, ma danno immagini diametralmente opposte di cosa significhi “io profondo”635. Ancora una volta il problema si pone nei termini precedenti: da una parte l’io bergsoniano, in continua evoluzione, ma pur sempre “intero”, duraturo, in cui tutto il passato si conserva (e che è anche – dato non trascurabile – dotato di libertà636), dall’altra un io disciolto nel tempo, plurale, il cui passato si trova in parte disperso nell’ampio regno dell’oblio e in parte conservato da una memoria che lo congela e lo svuota di significato (e i cui margini di libertà vanno sempre più restringendosi).

Abbiamo detto “io plurale”: è infatti fondamentale evidenziare come la distanza tra questi due pensieri si fondi su di una incessante evoluzione dell’io, che da una parte si dimostra flessibile, capace di accrescersi continuando a mantenersi, a divenire sempre più complesso ma intimamente unitario, mentre dall’altra l’io è rigido, vitreo, incapace di resistere al cambiamento, che anziché accrescerlo finisce per disintegrarlo. Ogni cambiamento determina così in Proust una vera e propria rottura egologica, che porta il vecchio io a lasciare il posto ad uno nuovo, prodotto dal cambiamento stesso, e del resto altrettanto instabile ed effimero quanto il precedente. Essenzialmente questa visione plurale dell’io può farsi derivare in linea teorica (almeno per quanto riguarda uno dei suoi due aspetti fondamentali) dalla concezione proustiana della temporalità637. Il tempo, come temps qui est ecoulé, come tempo trascorso e non tempo in scorrimento, ovvero come tempo essenzialmente fermo, cristallizzato in attimi che si giustappongono

634 Cfr. G. DELEUZE, Marcel Proust e i segni, cit., pp. 134-148.

635 Anche in questo caso si rimanda al saggio per molti aspetti chiarificatore di J.N. Megay,

Bergson et Proust (cit., pp. 97-112)

636 Parleremo nel prossimo paragrafo della libertà proustiana, o meglio, dell’assenza di libertà nella

Recherche, che ha portato perfino a parlare di forme di determinismo nel romanzo di Proust.

637 Cfr. G. DELEUZE, Proust e i segni, cit., p. 120: “[Il tempo perduto], con la forza dell’oblio, della malattia, e dell’età, afferma non meno dell’altro, con la forza del ricordo e della resurrezione, i pezzi in quanto disgiunti”.

l’uno all’altro, contigui ma reciprocamente impermeabili, è ciò che determina una dispersione dell’io in questi momenti. L’idea proustiana di io è così intimamente solidale con l’idea di tempo: si tratta di una sequenza irrelata di io, di stati che si succedono senza una logica interna, come continuamente proiettati da una lanterna magica, che non mostra uno svolgimento ma solo una serie di immagini indipendenti, autonome, concluse. Ancora una volta risulta centrale per comprendere la poetica della Recherche l’immagine dei “vasi chiusi e non comunicanti”638. Entro ogni vaso vive un io diverso, di fatto quasi impossibilitato a comunicare con gli altri, a essere parte della serie, evoluzione di un io differente. Non c’è evoluzione in Proust: ci sono solo movimenti spezzati. Si prenda per esempio la prima visita a Madame Swann (Odette), madre di Gilberte, la bambina di cui il giovane Marcel è follemente innamorato. Avendo, con la sola forza della propria immaginazione e delle sue proiezioni, fatto di Madame Swann una figura del mito, irraggiungibile, quasi divina, il narratore si trova, potremmo dire d’improvviso, ad essere invitato a casa sua, e a prendere un tè con lei.

Per anni avevo potuto credere che frequentare la casa di M.me Swann fosse una vaga, inattingibile chimera; dopo averci passato un quarto d’ora, era il tempo in cui non conoscevo la padrona ad essersi fatto chimerico e vago come un possibile annientato da un altro possibile.639

Si tratta solo di uno dei mille fenomeni di questo tipo, che può in qualche modo esser preso a modello: illustra infatti il passaggio repentino, l’esclusione reciproca dei due momenti diversi e incomunicabili, il nascere nel nuovo momento di un nuovo io, al quale il precedente sembra incomprensibile, il crearsi introno a questo nuovo io di un universo che propriamente annienta il precedente. Non solo il nuovo io non è un’evoluzione del precedente, ma ne è quasi, almeno in questo caso, almeno per certi aspetti, l’antitesi; non solo il passato non viene conservato, ma viene reso dalla rottura addirittura alieno e incomprensibile all’io attuale.

638 CS, p. 165.

639 JF, pp. 133-134. Cfr. CS, p. 222, già citato per illustrare il tempo discontinuo (in particolare per quanto riguarda la temporalità del bambino).

Così, anziché un flusso continuo (il trascorrere del tempo non è che un’ipotesi costruita a posteriori per giustificare la differenza degli istanti temporali contigui), il tempo proustiano è scandito da una serie di stati, fermi, ecoulés, di cui Proust parla in un passo di Dalla parte di Swann come di quegli “états qui se succedent en moi”640, stati che si succedono in una medesima persona e che generano vere e proprie persone diverse che si incarnano in uno specifico momento e che da esso dipendono. Tra l’io che esiste in un momento e l’io del momento successivo viene a crearsi un dislivello non dissimile da quello che crea una morte: “Si tratterà dunque di una vera e propria morte di noi stessi, una morte seguita sì da una resurrezione, ma in un io differente”641. La morte non è affatto un evento unico e finale, conclusivo di una parabola continua dell’individuo: moriamo continuamente, l’alterità essendo una vera e propria morte, ed essendo la vita umana un susseguirsi continuo di piccoli divenire altro da sé. Cotidie morimur: con linguaggio più vicino alla fisiologia e alla psicologia dell’epoca Proust parla di una “morte frammentaria e successiva”642, ovvero di una serie ininterrotta di piccole morti, attraverso le quali si opera un ricambio di cellule, le nuove venendo via via a sostituire le vecchie. Ora, Proust non sostiene che ogni momento sia generativo di un nuovo io, o che in ogni momento si muoia per risorgere in un essere diverso da quello che eravamo: salvo eventi che creino delle vere e proprie rotture (quali il citato invito al tè di Madame Swann), la morte frammentaria opera inesorabilmente ma lentamente643, attraverso piccole rotture successive. Non crediamo sia casuale infatti che l’insistenza proustiana su questo tema si concentri nei volumi (e nei luoghi) dell’opera più “di passaggio”, meno centrati su di un solo tema (Fanciulle in fiore, Sodoma e Gomorra, Albertine scomparsa), mentre resta in ombra nei volumi in cui il narratore si mantiene fisso attorno ad un centro gravitazionale dell’azione (la mondanità ne La parte di Guermantes, Albertine ne La prigioniera, l’arte nel Tempo ritrovato).

Così talvolta il narratore viene colto quasi di sorpresa dalla scomparsa di un io che pensava ancora presente, oppure ne constata serenamente la morte. Ogni

640 CS, p. 223.

641 JF, p. 297 (cfr. tutto il brano a partire da p. 296). 642 Ibidem.

643 Cfr. per esempio CS, p. 105. È così che anche nell’ultimo volume Proust parla dell’operare del tempo (e anche dell’operare dell’abitudine).

nuovo io che via via si allontana da Albertine è più indifferente alla morte di lei, perché non la conosce se non per interposta persona, per aver avuto rapporti con qualcuno che l’ha conosciuta (quel vecchio io, che l’amava e che ci ha vissuto assieme); non è possibile resuscitare Albertine (il ricordo di lei) perché non siamo in grado di resuscitare noi stessi, quell’io che fu con lei644. Altre volte il narratore accetta con rassegnazione di non provare più emozioni per certe persone o per certe attività645 (ma, del resto, è sull’oblio del passato che è possibile costruire il nuovo646). Bisogna inoltre registrare il tono spesso spaventato con cui il narratore si trova a parlare dell’imminenza della sua morte, del sopraggiungere di un nuovo io che sarà indifferente a ciò che lui ama in quel momento e che amerà cose che a lui non è neanche dato conoscere647.

Del resto Albertine era stata per il narratore una specie di fabbrica di personalità diverse e successive. Nel periodo della prigionia, in particolare, il narratore esiste in modo quasi esclusivamente reattivo: le sue azioni sono tentativi di rispondere e di adeguarsi a quelle di Albertine, come quelle di un predatore dipendono da quelle della preda. Così ai continui cambiamenti di Albertine – e alle mille facce, per lo più menzognere, che ella mostra al suo aguzzino, e ai mille modi in cui lui pensa a lei – il narratore si muta in un io diverso, ora indifferente, ora innamorato, ora geloso, ora tenero, ora crudele648.

Altrettanto Proust mette talvolta in evidenza in forma estrema questo principio di discontinuità delle morti frammentarie, in un modo che abbiamo già trovato in Nietzsche649: evidenziando cioè come nell’arco della stessa giornata ruotiamo vertiginosamente, interpretando una serie di personaggi diversi e contraddittori (“il cattivo, il sensibile, il delicato, il villano, il disinteressato, l’ambizioso”650), che del resto, non potendo essere compresenti, non arrivano a manifestare questa contraddittorietà. Allo stesso modo (e sempre in modo di nuovo molto simile alla

644 Cfr. AD, p. 272.

645 Tra i numerosi esempi (è senz’altro un tema su cui Proust tiene ad insistere) che si possono citare di questo meccanismo si vedano JF, p. 245, SG, p. 139 e SG, p. 305.

646 Cfr. JF, p. 295.

647 Cfr. per esempio AD, p. 215. 648 Cfr. JF 627-628.

649 Cfr. in particolare NF VII 25 [374]. 650 AD, pp. 71-72.

lettera nietzscheana) non è la stessa persona quella che veglia e quella che si esprime nel sonno (e nei sogni)651.

Non siamo un solo essere, ma una variopinta serie di esseri che si alternano, senza una particolare logica di sviluppo o di evoluzione, senza costruire sul passato, senza conservarlo.

Non ero un solo uomo, ma la sfilata, un’ora dopo l’altra, di un composito esercito in cui c’erano, a seconda dei momenti, degli appassionati, degli indifferenti, dei gelosi – gelosi nessuno dei quali era geloso della stessa donna.652

Si tratta evidentemente di un passo fondamentale per elaborare una teoria proustiana dell’identità. Ma come è possibile parlare di identità personale, una volta che si è dissolto l’io in una serie instabile di persone diverse, che abitano provvisoriamente e accidentalmente quello che chiamiamo un individuo? Si tratta in realtà di quel processo di ricomposizione ex post, di cui abbiamo avuto già modo di parlare653, che riporta sotto un unico nome una realtà che è irresolubilmente plurale, e con cui d’altra parte non si potrebbe entrare in relazione se non semplificandola e snaturandola. L’identità è dunque la violenza con cui si impone all’altro di aderire ad un modello unitario, coerente, socializzabile e conoscibile di se stesso, mentre la sua esistenza reale si sgretola in continue rifrazioni individuali chiuse in se stesse e subito perdute, sostituite da nuovi individui.

Proust descrive così una molteplicità diacronica dell’io, vale a dire il suo essere un individuo diverso ad ogni momento, chiuso all’interno di ciascun momento, e destinato ad equilibri irrimediabilmente instabili. La temporalità dell’uomo significa alterità, incessante divenire altro, che è non essere in senso forte. La

651 Cfr. AD, p. 215. 652 AD, p. 88.

653 Si pensi alla scena della ricomposizione dell’alba dai frammenti che il narratore vede dai vari finestrini di un treno in viaggio (JF, pp. 276-77).

morte non è l’opposto della vita, ma ciò di cui essa piuttosto si sostanzia (contrario della morte sarà, semmai, l’arte)654.