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3 “Il mio nome è legione” 149 : individuo e molteplicità.

4. Illusioni grammaticali Il superamento del soggetto metafisico

4.3 Se cade il soggetto

Come abbiamo più volte detto c’è un rapporto di dipendenza molto stretto tra il soggetto e la costituzione della metafisica occidentale. Per questo vediamo Nietzsche in continuo conflitto con quella soggettività che secondo Heidegger proprio la sua filosofia aveva infine fatto trionfare, portandola alle sue estreme conseguenze. Nietzsche sa di dover in qualche modo preservare il suo pensiero da un attacco di questo tipo, che di fatto lo vanificherebbe, rendendolo effettivamente un pensiero, di nuovo, metafisico. Se cade il soggetto, cade, quasi dando origine ad un effetto-domino, l’intero edificio metafisico occidentale; altrimenti la lotta può dirsi – in ultima istanza – vana.

“La credenza fondamentale” scrive Nietzsche, è che “ci sono soggetti; [che] tutto ciò che avviene si rapporta come un predicato ad un qualche soggetto”290. Da questa credenza seguono tutte le altre. E Nietzsche esamina nel suo Nachlass tutta la rete di relazioni che legano il soggetto alla metafisica, e che rendono questa dipendente da quello. Sulla scorta di un frammento molto chiaro in questo senso,

287 Cfr. anche M. CACCIARI, Krisis, cit., p. 60. 288 Cfr. NF VIII, 2 [151], e soprattutto NF VIII 7 [70].

289 I centri dell’interpretazione, volendone trovare, sono forze preindividuali (i bisogni, gli istinti, le pulsioni) o sovraindividuali (la volontà di potenza).

e attraverso alcune integrazioni prese da altri luoghi per lo più dell’opera postuma, è possibile fare una mappatura di quali concetti debbano seguire la caduta del soggetto, una volta che questo si sia rivelato non un qualcosa che agisce, ma una mera finzione grammaticale291, una volta che l’io si sia rivelato non più in grado di garantire alcunché. A cadere, in quanto finzioni desunte dal modello soggettivo e da esso dipendenti saranno dunque: (a) il concetto di “cosa” (la cosalità)292 e a maggior ragione di “cosa in sé”; (b) il concetto di causalità293; (c) il concetto di atomo294; (d) il concetto di sostanza295 (e accidente, e attributo)296; (e) il concetto di “oggetto”; (f) il concetto di durata; (g) il concetto di identità; (h) il concetto di essere297; (i) il concetto di modificazione298; (l) il concetto di unità299.

Alla luce di questi passi nietzscheani, risulta difficile esagerare il ruolo del soggetto come la principale illusione metafisica, da cui le altre dipendono. È veramente legittimo a questo punto dire che per Nietzsche il soggetto è ciò che determina la struttura ontologica del mondo così come se la rappresenta la metafisica.

Vorremmo ora aprire una breve parentesi. Abbiamo avuto modo, nel corso del presente capitolo, di confrontarci – seppur in modo breve e certamente tutt’altro che esaustivo – con alcuni dei concetti qui proposti come conseguenze della fondamentale credenza nel soggetto, mentre ci pare di dover trattare meglio il concetto di causalità300, sia perché è rimasto fin qui più o meno trascurato, sia perché il nostro autore torna con particolare insistenza sul nesso soggetto-causa301 (non più considerando il soggetto come causa di pensieri o azioni, ma vedendolo piuttosto come modello del rapporto causa-effetto).

291 Il frammento che seguiamo è NF VIII 9 [91], in nota indicheremo alcuni luoghi o analoghi o integrativi.

292 Cfr. anche per esempio GD, La ragione nella filosofia, 5 e NF VIII, 14 [98], NF VIII, 9 [91]. 293 Vedi oltre.

294 Cfr. anche per esempio GM I, 13, NF VIII, 14 [98], NF VIII, 9 [91]. 295 Cfr anche per esempio NF VIII 9 [98].

296 Cfr. Ibidem.

297 Cfr. anche per esempio GD, La ragione nella filosofia, 5 e NF VIII 9 [98]. 298 Cfr. NF VIII, 1 [43].

299 Cfr. NF VIII 14 [79].

300 Un approfondimento di questo tipo sarebbe possibile, e forse opportuno, per ognuno dei temi proposti da Nietzsche, ma questo ci porterebbe eccessivamente lontano dal proposito di questo lavoro. Basti pertanto questa breve ricognizione sul concetto di causa a titolo di esemplificazione. 301 Cfr. oltre al già citato NF VIII 9 [91], FW 127, GM, I, 13, GD, La ragione nella filosofia, 5, NF VII 35 [35], NF VIII 1 [37], NF VIII, 1 [38], NF VIII 1 [39], NF VIII 14 [98].

In sostanza il passaggio essenziale è stato quello di trasporre alle cose l’antica superstizione di un’anima separata dalla sua attività302: si cerca la causa allo stesso modo in cui siamo soliti cercare un’intenzione dietro un qualsiasi evento; ci si imbatte in una vera e propria incapacità di prescindere dalla struttura per cui qualcuno agisce secondo un progetto finalisticamente orientato303. La causa non è dunque esperita ma solo proiettata in base all’idea che ci facciamo del nostro modo di agire304. Alla base c’è la nostra convinzione di essere noi stessi cause (liberi, responsabili, intenzionali), e forse – aggiunge Nietzsche con la malizia dello psicologo – anche un desiderio inconfessato dell’uomo di essere causa sui, o quantomeno pienamente padrone e responsabile di ogni sua azione305. Abbiamo visto che non è così, e se il modello è fallace per l’essere umano, difficilmente sarà trasponibile alle cose.

Nel migliore dei casi, quando parliamo di causa, stiamo facendo una delle seguenti operazioni: o stiamo traducendo una calcolabilità in una necessità (è l’errore del determinismo, della scienza meccanicistica, dell’idea di una legalità naturale) oppure stiamo semplicemente trasformando un post hoc in un propter hoc306 (cioè passiamo da una successione cronologica ad un rapporto di dipendenza)307. In entrambi i casi comunque bisogna notare che il cercare o vedere il rapporto causa effetto ci distoglie dall’accadimento stesso.

Esistono però casi ben peggiori, in cui costringiamo la realtà ad aderire al nostro schema causale anche a prescindere dall’ordine cronologico. Cioè la causa è aggiunta dopo l’effetto, rappresentata in seguito a giustificazione dell’effetto stesso308. Abbiamo già riportato l’esempio del sogno, che Nietzsche produce nel Crepuscolo degli idoli309, in cui il suono del cannone è fatto rientrare nel sogno come causa di qualcosa che nel sogno era già avvenuto, e abbiamo detto come questo sia il modello di tanto pensiero causale. Il punto è che abbiamo bisogno di una strutturazione causale della realtà per questioni di sicurezza. È la paura che ci 302 Cfr. NF VIII, 1 [38]. 303 Cfr. NF VIII 2 [83]. 304 NF VIII, 9 [91]. 305 Cfr. JGB 21. 306 Cfr. NF VIII 14 [81]. 307 Cfr. NF VII 36 [25]. 308 Cfr. NF VII 40 [42] e NF VIII 15 [90].

spinge ad un pensiero causale, ovvero ad un meccanismo per disinnescare il nuovo, l’insolito, che altrimenti potrebbe spiazzarci. La causalità è la ricerca anzitutto di una spiegazione (per evitare che un qualsiasi residuo di inspiegato possa mettere in crisi la nostra posizione) e poi di una spiegazione che sia abituale310. In realtà la causalità non spiega311. Può bensì aiutarci a descrivere (i progressi della scienza sarebbero dunque meramente descrittivi e applicativi e non conoscitivi) o a connotare, ma non ha il potere di svelare un meccanismo che abbia una qualche realtà ontologica. Si tratta come al solito di una proiezione, che prescinde dal continuum reale e agisce per smembrarlo e suddividerlo arbitrariamente. Che poi questa arbitrarietà sia effettivamente sorretta dall’utilità dell’abitudine di pensare in questi termini, non fa che corroborare la tesi per cui questa struttura mentale è mantenuta per la sua comodità, anche contro la sua illusorietà.

Un’altra conseguenza della fede in un soggetto unitario, coerente e calcolabile è – sul piano morale – quella della responsabilità dell’individuo nei confronti delle proprie azioni312. Nel momento in cui, infatti, si spezza l’azione in due parti (la forza che ha la possibilità di agire, cioè il soggetto, e l’estrinsecazione di questa potenzialità) è chiaro che il soggetto diventa responsabile delle proprie azioni, ovvero deve poter rispondere di esse. È questo il presupposto – sbagliato ma incredibilmente radicato – di ogni morale e di ogni diritto: il postulare l’imputabilità dell’individuo nella misura in cui lo si ritiene causa delle proprie azioni313.

Deleuze (ma non solo lui) vede nell’affermazione dell’innocenza di tutto il divenire la “più nobile e bella”314 acquisizione nietzscheana, e tratta il tema della responsabilità e dell’innocenza in diversi luoghi del suo fondamentale saggio su

310 Ibidem, 5. Cfr. anche NF VIII 9 [91]. 311 Cfr. FW 112, JGB 21.

312 Nietzsche pone questa relazione per esempio in GM II, 2.

313 Cfr. NF IV 24 [40]. Si veda anche il frammento postumo NF V 3 [37], in cui si sintetizzano i quattro errori della morale, due dei quali sono l’illusione della stabilità dell’individuo e l’illusione della volontarietà delle sue azioni.

Nietzsche315. Il problema, secondo il filosofo francese, è già presente, ma non ancora risolto, nella Nascita della tragedia, nel momento in cui prende in considerazione il crimine titanico, prometeico. Siamo qui ovviamente ben lontani dall’idea di delitto colpevole propria del cristianesimo (che anzi, aggiungeremmo, con il peccato originale si spinge fino ad una colpa che prescinde dal delitto), ma si rimane pur sempre legati ad una delittuosità, che è sì priva di colpa, ma che in quanto tale ha già in sé il germe del giudizio morale. Questa, di una delittuosità dell’esistenza purificata però dalla colpa, era la posizione di Schopenauer e, in epoca presocratica, di Anassagora. Il nostro autore vorrà superare questi due maestri ed opporre all’asse Anassagora-Schopenauer un asse Eraclito-Nietzsche, in cui non si tratterà più di utilizzare le categorie di responsabilità o irresponsabilità (per cui si è responsabili, seppur incolpevoli, del delitto) ma quelle di colpevolezza e innocenza, per cui l’intero divenire sarà ricondotto al gioco radicalmente innocente del, pai/j pai,zwn eracliteo, che è, già di per sé, una cosmodicea316.

Ciò che la morale e il diritto non possono capire è che l’uomo non può essere imputabile delle proprie azioni perché egli non ne è causa ma solo veicolo. Non c’è altro essere al di fuori del fare: l’individuo è ciò che fa, e fa ciò che può. La morale pretende di imputare all’uccello rapace di essere rapace317, come se ci

fosse un sostrato in grado di decidere se estrinsecare o meno una potenziale rapacità. L’azione è già in sé tanto la forza quanto la sua estrinsecazione, nel senso che la forza è già da sempre la sua estrinsecazione, senza soggetti a far da mediazione. L’individuo è le sue azioni, per cui esse gli possono essere attribuite, ma mai imputate. Nessuna morale e nessun diritto potranno mai accettare la tesi

315 Nietzsche parla direttamente della cosa, per esempio, in MA 39 (in cui la falsa idea di responsabilità è legata all’idea di libertà e in cui si fa anche una storia sommaria di ciò per cui l’uomo è ritenuto responsabile, cioè, nell’ordine, per gli effetti delle sue azioni, per i suoi moventi e infine per il suo stesso essere), in MA 107 (in cui si spiega che l’uomo è del resto molto legato all’idea della propria responsabilità per vanità, per la possibilità che ciò offre di attribuirsi meriti) o WS 9 (in cui si dichiara la libertà del volere un’invenzione delle classi dominanti, vedremo tra breve il perché).

316 Cfr. Ibidem, pp. 30-38. All’opposto di questo modo di pensare c’è la cattiva coscienza, che si fonda sul principio espiativo per cui ci si può salvare solo creandosi il proprio dolore (in realtà, spiega Nietzsche nella Genealogia della morale, il significato del dolore non è quello di qualcosa che bisogna sopportare per aver commesso una colpa, ma risiede nel fatto che procurare dolore e vedere soffrire è, per l’uomo, fonte di piacere).

della necessità e dunque dell’innocenza radicali. Essi sono solo funzioni di sicurezza sociale e non amministrazione di una giustizia che non sia quella che convenzionalmente si dà un popolo. “La mitologia del soggetto libero e responsabile vuole nascondere il fatto che giudicare significa essere ingiusti”318. Il soggetto è dunque ciò che garantisce di poter passare da una presunta colpa ad una pena, ed è ciò che permette ad una società di reggersi su leggi. Da questo punto di vista Nietzsche vede la libertà del volere come un’invenzione delle classi dominanti319, poiché solo in base ad essa è stato possibile instaurare un ordinamento giuridico che garantisse loro il potere (e altrettanto bisogna dire che l’idea dell’imputabilità fa il gioco dei deboli poiché grazie ad essa la loro debolezza diventa una scelta e un merito, la forza dei signori una colpa320).

In questa prospettiva, il prodotto della cultura sarebbe (stiamo di nuovo guardando al saggio deleuziano) non più l’individuo ligio alla legge, ma l’individuo sovrano, legislatore, leggero, irresponsabile. La legge, l’eticità, comportano un uomo affrancato dalla legge e dall’eticità stesse: la giustizia ha come meta la sua autosoppressione321.

Il conclusione di questo paragrafo vorremmo tornare per un istante al problema che lo ha generato, vale a dire al problema linguistico. Abbiamo detto di come l’illusione del soggetto metafisico, sostanziale, agente, sia in ultima analisi un’illusione perpetrata dalla grammatica secondo i cui schemi ci troviamo a pensare. Bisogna del resto anche vedere che proprio laddove Nietzsche invita a superare questo tipo di costrizioni linguistiche, non è ingenuamente convinto che ciò sia un problema di semplice soluzione. In nessun momento possiamo dirci svincolati dalle strutture linguistiche metafisiche entro cui ci troviamo a parlare e a pensare. Nietzsche sa bene che non esiste pensiero che possa liberarsi tout court

318 R. DIONIGI, Il doppio cervello di Nietzsche, cit., p. 80; Cfr. WS 24 (in cui condannare significa punire l’eterna necessità) e MA 39 (per cui “giudicare vuol dire essere ingiusti”). Per quanto riguarda le relazioni tra morale, diritto e responsabilità, vedi, di nuovo, R. DIONIGI, Il doppio

cervello di Nietzsche, cit., pp. 77-85.

319 Cfr. WS 9.

320 Cfr. GM I, 13. Non c’è probabilmente bisogno di sottolineare che in Nietzsche il termine “deboli” e il termine “classi dominanti” non sono affatto opposti, ma che anzi i dominatori odierni sono proprio i deboli – che non per questo cessano di essere deboli.

321 Cfr. G. DELEUZE, Nietzsche e la filosofia, cit., pp. 203-206. Colui che parla, che diviene legislatore, non è più costretto a rispondere, a sottomettersi ad una legge non sua.

della costrizione linguistica: “pensare razionalmente significa interpretare secondo uno schema che non possiamo rigettare”322.

Da questo punto di vista si può spiegare anche la forma-poema dello Zarathustra come una sorta di consapevole risposta a questo problema. Questo testo è forse la vetta del pensiero nietzscheano, e soprattutto è l’unico testo cui egli abbia creduto di poter affidare il suo terribile segreto (in che modo lo vedremo nel prossimo paragrafo). Il punto che qui interessa è vedere come egli, per abbandonare quel luogo da cui si dice “io”, abbia dovuto procedere ad un’evaporazione del linguaggio in simbolo, ovvero abbia dovuto cercare un linguaggio fatto più di silenzi che di parole (e più che mai in prossimità del pensiero abissale del ritorno), più di zone d’ombra che di trasparenza323. Vattimo324 propone, per comprendere questo testo, di utilizzare la categoria benjaminiana di allegoria, vale a dire di quel discorso inevitabilmente e programmaticamente eccentrico rispetto a quello che vuole dire, poiché ciò che deve essere detto non può essere esaurito, non si può centrare e del resto solo mancandolo si è in grado di dirlo. Allo stesso modo Zarathustra non può comunicare i suoi pensieri fondamentali, se non decentrandosi, cercando di parlare da un luogo altro rispetto a quello da cui si parla solitamente, e che è il linguaggio della metafisica325.

322 NF VIII 5 [22]. Si pensi alle parole, un secolo più tardi di Jacques Derrida: “Non ha alcun

senso non servirsi dei concetti della metafisica per far crollare la metafisica stessa; noi non

disponiamo di alcun linguaggio – di alcuna sintassi e di alcun lessico – che sia estraneo a questa storia, non possiamo enunciare nessuna proposizione distruttrice che non abbia già dovuto insinuarsi nella forma, nella logica e nei postulati impliciti a quello stesso che esso vorrebbe contestare”. (La struttura, il segno e il gioco nel discorso delle scienze umane in JACQUES

DERRIDA., La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1990, p. 362).

323 Fabio Polidori, nel discutere questo tema, sottolinea più volte la differenza tra il silenzio di Zarathustra e il silenzio dell’ultimo uomo. L’ultimo uomo tace perché ormai sa, possiede le cose senza mediazione, le domina; Zarathustra tace perché cerca di svincolarsi dai vincoli che il linguaggio metafisico inevitabilmente riproporrebbe

324 Cfr. G. VATTIMO, Il soggetto e la maschera, cit., pp. 177-178. Vattimo individua i motivi di questo decentramento nella necessità di fondare il suo discorso in termini non dialettici e conscio dei limiti che si corrono a parlare – ancora –ad individui. Per noi la ragione essenziale resta invece quella linguistica.

325 In nessun modo, invece, si può considerare lo Zarathustra come un rivestimento poetico dato ad un nucleo teorico esplicitabile altrimenti mediante il consueto linguaggio filosofico.