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3 “Il mio nome è legione” 149 : individuo e molteplicità.

4. Illusioni grammaticali Il superamento del soggetto metafisico

4.2 Contro Descartes

Da questo punto di vista Nietzsche scrive che “non ci sbarazzeremo di Dio perché crediamo ancora alla grammatica”256. Un’affermazione di questo tipo è

249 FW 354. 250 JGB, Prefazione. 251 Cfr. NF VII, 36 [26].

252 Cfr. JGB 20. In questo senso Nietzsche definisce il filosofare un “atavismo di primissimo rango”. Si veda a proposito anche R. DIONIGI, Il doppio cervello di Nietzsche, cit., pp.47-64. In

particolare si noti l’affermazione significativa secondo cui “la metafisica non nasce con la sua origine ma inizia quando decide di prendere parola”, che sottolinea un inestricabile nesso tra metafisica e linguaggio. Cfr infine F. POLIDORI, Necessità di un’illusione, cit., pp. 73-82: è nel linguaggio che si genera la fiducia nella ragione, nella conoscenza, nella verità. A sua volta esse richiedono un soggetto dotato di un’identità stabile.

253 Difficile qui non rimandare alla famosa affermazione di Quine per cui “Ontology recapitulates

Philology” (l’ontologia ricapitola la filologia). In questo senso non possiamo che ammettere la

credenza nel tempo, nello spazio e nel movimento, poiché nel nostro pensiero sono implicate credenze come azione, autore, sostanza, accidente, soggetto: tuttavia ciò non dimostra la loro esistenza in assoluto, ma solo che non possiamo fare a meno di pensare su questa falsariga (Cfr. NF VIII, 7 [73]).

254 WS 11.

255 Nietzsche parla di un “incantesimo (Bann) di determinate funzioni grammaticali” che tiene in scacco la filosofia. Di nuovo non si può non segnalare in questo frangente un’analogia con il Wittgenstein delle Ricerche filosofiche (§109), il quale descrive la filosofia come una lotta contro l’incantamento (Verhäxung) del liguaggio.

256 GD, La ragione nella filosofia, 5. Ancora una volta vogliamo sottolineare la vicinanza di questo passo nietzscheano con una sezione delle Ricerche filosofiche, che il filosofo austriaco chiude con

dirompente: il filosofo che nel celebre aforisma 125 della Gaia scienza aveva annunciato la morte di Dio, adesso, alcuni anni dopo, ci dice che non ci libereremo dell’ipoteca metafisica che Dio rappresenta finché non saremo in grado di vedere come l’illusione metafisica è incessantemente prodotta dal linguaggio in cui ci troviamo. La fede in Dio, come la fede nell’io, come la fede in un qualsiasi fondamento ultrasensibile e vincolante, dipendono dalla nostra fede nella grammatica. Lottare contro la metafisica significa certo svelare genealogicamente che i valori vincolanti ed eterni hanno una storia, e che dunque non sono così inattaccabili e fondanti come vorrebbero spacciarsi, ma lottare contro la metafisica significa anche lottare contro gli sprachliche Zwänge che ci costringono ad un pensiero metafisico257.

Il vincolo grammaticale che più interessa il nostro discorso è quello che riguarda l’azione. Le nostre strutture linguistiche ci costringono infatti a ricercare, per ogni azione, il suo autore: perfino nel riconoscere che non esistono nella realtà i concetti ipostatizzati di vero e di falso, ma solo diverse gradazioni di illusorietà, siamo tentati di andare oltre e chiedere “ma in fondo chi è che ci illude?”, “non c’è bisogno forse, per ogni finzione, di un fingitore, per ogni menzogna di un mentitore, per ogni azione di un agente?”. Il punto è che già questo “c’è bisogno” fa parte della finzione: “Non è forse permesso essere alla fine un po’ ironici verso il soggetto come verso oggetto e predicato? Non potrebbe il filosofo innalzarsi al di sopra della fiducia della grammatica?”258. E questo tentativo di prescindere dalla grammatica è in fondo anzitutto il prescindere dalla struttura soggetto- predicato che ne è alla base, saper guardare ad essa con ironico distacco. È un’idea radicalmente falsa quella che vuole una separazione tra agente e azione259: tolta l’azione, dell’agente non resta niente. L’illusione di un sostrato permanente, come ci viene richiesta dal nostro linguaggio metafisico, risponde solo a quel

le parole “Teologia come grammatica”, sottolineando come il parlare di Dio dipenda dalla grammatica che utilizziamo (§373).

257 Cfr. tra gli altri MARIO RUGGENINI., La fede nell’io e la fede nella logica. La questione onto-

logico-grammaticale dell’io nel pensiero di Nietzsche. In GIULIO SEVERINO (curatore), Il destino dell’io, Il melangolo, Genova 1994, pp. 104-108, in cui si sottolinea anche la tematica del

linguaggio come incantamento. Si può inoltre notare, con Vattimo, il nesso che lega la “struttura della lingua, delle grammatica, e la struttura di dominio” (G. VATTIMO, Il soggetto e la maschera, cit., p.237): il riferimento qui è al fondamentale capitolo della Genealogia della morale GM, I, 13. 258 JGB, 34.

bisogno di “essere” di cui abbiamo avuto modo di parlare in precedenza: solo l’essere è conoscibile, non il divenire260, solo il permanente è oggetto di possesso, non il transeunte. Così nasce la mitologia dell’agente, che è, usando un’espressione cara all’interpretazione deleuziana, la mitologia della forza separata da ciò che è in suo potere: una forza sarebbe cioè sia la sua potenzialità di agire sia l’attuazione di questa potenzialità, mentre l’inazione non intaccherebbe minimamente quella potenzialità, che resterebbe presente sebbene inespressa. Siamo di fronte ad una delle massime ipoteche che Aristotele ha posto sullo sviluppo della metafisica occidentale, la distinzione tra potenza ed atto, ovvero l’aver interpretato ogni accadere come un fare, ed esserci perciò rappresentati un’indipendenza dell’autore dal fare261. In realtà la forza consiste esclusivamente di ciò che fa: una forza inerte semplicemente non esiste: ogni cosa è la somma dei suoi262 effetti, e non la causa permanente dei suoi effetti (e delle sue astensioni ad agire).

Anche in questo caso il paradigma estetico proposto da Alexander Nehamas, secondo il quale egli svolge tutta la sua esegesi nietzscheana, può essere d’aiuto per comprendere cosa questo significhi. Il filosofo greco-statunitense propone

260 Una domanda potrebbe scorrere sotterranea lungo tutto il discorso nietzscheano (e specie in punti teorici come quello che stiamo affrontando): da quale posizione parla Nietzsche? Un’affermazione come quella per cui solo l’essere è conoscibile e non il divenire, con la sua apoditticità, non dovrebbe essere spazzata via dallo stesso prospettivismo, assunto come principio metodologico nietzscheano? Ovviamente sì, e molta difficoltà nel leggere Nietzsche si colloca a questo livello, nel far convivere l’ermeneia senza centro e senza fondamento con affermazioni che hanno l’aspetto di essere e di presentarsi come “vere”. Abbiamo detto qualcosa su questo punto nel paragrafo sul prospettivismo, e ribadito che nel momento in cui Nietzsche parla in questo modo lo fa aderendo alla sua prospettiva, consapevole che essa sia solo la sua, e dunque non possa ambire a valere come universalmente vera. Certo, un qualche senso di discrepanza tra momento metodologico e momento contenutistico non si può fare a meno di percepirlo. Un’ulteriore obiezione in questo senso potrebbe essere: la dissoluzione nietzscheana del concetto di verità, per esempio, non dipende da una concezione “forte” della verità, intesa tradizionalmente, aristotelicamente e tomisticamente, come adequatio rei et intellectus? La sua critica resta valida di fronte alle idee novecentesche di una verità come coerenza, come predicibilità (o anche come disvelamento)?

261 Cfr. NF VIII 7 [1].

262 Nasce qui un problema: una cosa è la somma dei suoi effetti. Tale affermazione sembra equivoca. Se non c’è altro essere al di fuori dell’azione, se una cosa, un sostrato, un riferimento permanente al di là del divenire delle azioni non sono dati, cosa significa quel suoi? In realtà possiamo darci una risposta di tipo ermeneutico: non esiste un mondo di oggetti indipendenti, ma solo un intero di parti che esistono solo all’interno dell’intero dato: non cose in sé ma elementi che si definiscono come relazioni ad altri (cioè che da tali relazioni sono definiti) e come differenza dagli altri. È il medesimo modello ermeneutico, suggerisce Nehamas (Nietzsche. La vita come

letteratura, cit., pp. 102-104), della linguistica di De Saussure, che concepisce il linguaggio come

intero le cui parti si definiscono come elementi differenziali e non come aventi un’autonomia intrinseca.

infatti di vedere gli oggetti (e a maggior ragione i soggetti agenti) come personaggi di fiction. Allo stesso modo in cui non è possibile definire questi se non dalle azioni che di essi ci vengono raccontate, senza poter presupporre alcun sostrato a cui facciano capo, così è possibile concepire tanto l’attività dell’io (che è ciò che fa, senza dover postulare un supporto fisso agente) quanto quella del semplice oggetto (che è il suo accadere e il suo entrare in relazione ad altro)263. È dunque dalla postulazione grammaticale di un agente separato dall’azione che veniamo a trovare, quasi fosse un residuo264, l’idea di soggetto265.

Rispondendo alla già intravista necessità di un polo soggettivo che funzionasse da ordinatore e unificatore del reale, tanto Descartes quanto Kant si erano fatti un’idea “logica” del soggetto. Con ciò si intende che esso era concepito come uno, identico, non-contradditorio, vale a dire come proiezione delle caratteristiche che la logica impone al mondo (e a sua volta in esso trovava quell’indispensabile potere che logicizza e sistematizza il mondo)266. Descartes in particolare, nelle Meditazioni metafisiche, identifica il soggetto con un sostrato in grado di pensare (la res cogitans), il che significa: anzitutto creare un qualcosa di permanente unitario ed identico che funga da causa del pensiero con cui poter in seguito far coincidere il soggetto; in secondo luogo identificare soggetto e pensiero (ego cogito); in terzo luogo considerarlo oggetto di certezza immediata. Il primo punto del ragionamento di Descartes è compendiato da Nietzsche in “si pensa, dunque c’è qualcosa che pensa”267, cioè la realizzazione del vincolo grammaticale che costringe a ricercare un agente per un’attività. Al filosofo francese non è bastato mostrare la realtà del pensiero: egli voleva arrivare a fondare una sostanza268, ad inferire un supporto sostanziale da un mero accadimento. Nel famoso cogito è contenuto: A) si pensa e B) io credo di essere quella cosa che pensa. Il punto è che già in (A) è contenuto un articolo di fede (il pensiero come attività) e non solo – come è evidente – in (B). A sua volta l’ergo non porta ad alcuna certezza

263 Cfr. Ivi, pp. 109-113. 264 Cfr. NF VIII, 2 [158].

265 Ovviamente tutto questo discorso ha come presupposto ulteriore che l’uomo sia anche libero (ovvero che la forza sia libera di esprimersi o meno). In realtà Nietzsche critica l’idea tradizionale di libertà (cfr. ad esempio WS 9, WS 11), ma di questo parleremo in seguito.

266 Cfr. M. HAAR, La critique nietzschéenne de la subjectivité, cit., pp. 335-337. 267 NF VIII, 19 [158]. Cfr. anche NF VII 40 [22].

immediata (ma è possibile, in generale, una certezza immediata? Non è essa già in sé una contradictio in adjecto?269): bisogna anzitutto sapere cos’è “pensare”, poi cos’è “essere”: “si tratterebbe dunque, se l’est (sum) fosse vero, di una certezza in base a due giudizi giusti, con l’aggiunta della certezza che si abbia in generale il diritto di concludere, di far valere l’ergo – cioè in ogni caso non di una certezza immediata”270. La certezza immediata è un ulteriore articolo di fede271 che aggiungiamo agli altri e non una certezza effettiva, un modo di conoscere senza mediazioni fallaci. Dunque il tentativo cartesiano di fondare il soggetto mediante il cogito ergo sum risulta fallace in quanto:

- non ha alcun diritto di passare dall’essere in generale ad un essere specifico: qui al massimo siamo al livello di un articolo di fede. Perciò semmai potremmo concludere cogito ergo est, o meglio cogitatur ergo est;

- Il passaggio dal cogitari all’esistenza di un qualcosa che pensi è vittima del pregiudizio grammaticale per cui al pensiero in quanto attività debba corrispondere un agente;

- Non può essere una certezza assoluta (anzi, semplicemente la certezza assoluta non può darsi).

Insomma il ragionamento di Descartes si riduce ad una ben strana inferenza, che avrebbe la forma “si crede qualcosa, dunque si crede qualcosa”272 (ovvero si crede che qualcosa debba pensare quindi si crede che quel qualcosa sia il soggetto sostanziale)273. La strategia cartesiana non ha dunque fondato, ma solo postulato il soggetto logico: compito dei suoi successori sarà dubitare meglio di come ha fatto lui col suo pur “iperbolico” dubbio274.

Da parte sua anche Kant cerca di fondare il soggetto come soggetto trascendentale (e chiama significativamente tale unità Ich denke, Io penso) che sia in grado di garantire l’unitarietà delle funzioni sensibili ed intellettive. È però

269 Cfr. NF VII 40 [23]. 270 NF VII 40 [24]. 271 Cfr. NF VII 40 [25]. 272 NF VII 40 [23].

273 Scrive a proposito del cogito cartesiano Mario Ruggenini: “L’astratta indubitabilità di me, che assorbe la stessa forza del dubbio iperbolico che la vorrebbe mettere in questione, e la trasforma nella propria arma invincibile, si circonda di difese apparenti, trincerandosi dietro un’immediatezza

che non ha luogo, se non nel vuoto di un’esperienza di me puramente verbale” (M. RUGGENINI.,

La fede nell’io e la fede nella logica, cit., p. 113), riassumendo così brillantemente i punti della

critica nietzscheana. 274 NF VII 40 [25].

importante capire che Kant, al contrario di Descartes, non cerca alcuna sostanzializzazione dell’io, il quale anzi risulta a sua volta essere non un sostrato ma una funzione (la funzione che a sua volta rende possibile alle altre di riferirsi al medesimo centro). Kant dunque viene giustamente riconosciuto dallo stesso Nietzsche (che pure sappiamo quanto astio nutrisse, specie in campo morale, per il filosofo di Königsberg) come colui che, pur volendo fondare il soggetto, ne ha adombrato l’inconsistenza. Infatti, spiega Nietzsche: “Kant voleva dimostrare, in fondo, che, partendo dal soggetto, il soggetto non può essere dimostrato – e nemmeno l’oggetto: pare non gli sia stata sempre ignota l’idea di un’esistenza apparente soggetto”275. Egli insomma avrebbe riconosciuto che l’io non sarebbe causa del pensiero, ma sarebbe condizionato dal pensiero stesso: una sintesi che viene compiuta dal pensiero stesso per garantire le proprie funzionalità276.

Nietzsche, dunque, porta alle estreme conseguenze quello che Kant aveva solo adombrato (e anche in maniera parziale: il suo resta un soggetto unitario, identico, e non contradditorio, anche se non sostanziale e forse solo apparente). Scrive in un frammento della seconda metà degli anni ’80:

Il soggetto è una creazione del genere [cioè opera degli esseri che rappresentano, pensano, vogliono, sentono], una cosa come tutte le altre: una semplificazione per indicare la forza che pone, inventa, pensa, come tale, distinta da ogni porre, inventare e pensare. Dunque la facoltà distinta da ogni atto singolo: in fondo il fare, considerato in

275 JGB 54.

276 Ibidem. Si prendano in considerazione i seguenti passi kantiani, dalla Critica della ragion pura, per comprendere quanto il discorso di Nietzsche possa essere fondato, testi alla mano. A fondamento della falsa scienza dell’anima “noi non possiamo mettere nient’altro che la rappresentazione io, una rappresentazione semplice e in sé stessa completamente vuota, della quale non si può neanche dire che sia un concetto, ma una semplice coscienza che accompagna tutti i concetti. Tramite questo io, o egli o esso (la cosa) che pensa, non viene rappresentato che un concetto trascendentale dei pensieri = x, il quale viene conosciuto solo tramite pensieri che sono i suoi predicati e di cui separatamente non possiamo avere il benché minimo concetto” (KrV, A 346); “In tutti giudizi io sono sempre il soggetto determinante di quella relazione che costituisce il giudizio. Che però io, che penso, debba sempre valere nel pensiero come soggetto e come qualcosa che non può essere considerato solo come un predicato inerente al pensiero è una proposizione apodittica e perfino identica; essa però non significa che come oggetto io sia un ente sussistente per me stesso, o che io sia una sostanza” (KrV, A348). Ci siamo avvalsi delle traduzione di Costantino Esposito in IMMANUEL KANT, Critica della ragion pura, Bompiani, Milano, 2004.

relazione a ogni fare ancora prevedibile (il fare e la probabilità di un fare simile).277

Siamo ancora al paradosso metafisico della forza separata da ciò che è in suo potere, della trasformazione di ogni accadere in un fare e di ogni divenire in un essere. Il pensante separato dal pensiero, causa del pensiero, è l’origine, secondo una costrizione grammaticale, dell’io come “cosa pensante”. La sfida nietzscheana consiste nel rompere il connubio consolidato tra io e pensiero, quel connubio che sta alla base della tradizione moderna. Bisogna disimparare a concepire l’io come ciò che pensa e concepire piuttosto il rovescio di questa affermazione: “L’io stesso [è] una costruzione del pensiero, dello stesso valore di ‘materia’, ‘sostanza’, ‘individuo’, ‘scopo’, ‘numero’”278. Si tratta dunque solo di – per dirlo in modo

kantiano – un ideale regolativo attraverso cui si introduce un po’ di stabilità (di conoscibilità) nel campo del divenire. È il pensiero che pone l’io e non viceversa; una volta capito questo abbiamo forse compiuto il passo fondamentale contro l’illusione grammaticale di un io penso. L’io è dedotto dal pensiero: esiste qualcosa che chiamiamo “pensiero”, cui riferiamo immediatamente un sostrato pensante, che a sua volta identifichiamo con l’io: questa rete di riferimenti è di fatto inevitabile, ed è anzi una finzione indispensabile alla vita, ma ciò non prova nulla contro il fatto di essere falsa. L’io non è qualcosa di agente, in questa prospettiva: l’io è piuttosto agito279, in balia di forze che lo determinano e che tuttavia crede di essere lui a determinare (anzi, a creare, a trarre da sé, quasi fosse veramente nuova forma del divino). Altro sproposito grammaticale, quello di confondere sistematicamente l’attivo con il passivo: “non so quello che faccio”, si dice, e questo è inevitabile, giacché non siamo noi a farlo, e tutto quello che cerca di dimostrare il contrario (che siamo noi ad agire, il nostro libero arbitrio, la nostra volontà) non sono che aggiustamenti après coup, che arrivano a giochi fatti ad arrogarsi la paternità di un’azione ormai avvenuta, a cui al massimo possiamo dare il nostro assenso.

277 NF VIII, 2 [152].

278 NF VII 35 [35]. Cfr. VII 38 [3], quasi identico al precedente, a mostrare una sorta di ossessività del problema in questa fase del pensiero nietzscheano (siamo alla metà degli anni ’80).

L’ego cogito (Ich denke, io penso) deve essere sostituito da una forma assolutamente impersonale di pensiero; bisogna piuttosto dire Es denkt280 (esso pensa) come si dice Es blitzt (lampeggia), ovvero come un impersonale281: un pensiero arriva quando è lui a volerlo, e non quando noi lo vogliamo o lo creiamo. Attribuire l’io al predicato “penso” è una mistificazione (peraltro molto vanesia) dello stato dei fatti, così come era una mistificazione parlare di un “io voglio”. Il pensiero eccede sempre l’io.

Veniamo ora ad un passo chiave della Genealogia della morale in cui Nietzsche riassume in modo decisivo quanto detto fin qui:

Un quantum di forza è esattamente un tale quantum di istinti, di volontà, di attività – anzi esso non è null’altro che questi istinti, questa volontà, questa attività stessa, e può apparire diversamente solo sotto la seduzione della lingua (e degli errori radicali, in essa pietrificatisi, della ragione), che intende e fraintende ogni agire come condizionato da un agente da un “soggetto”. Allo stesso modo in cui il volgo separa il fulmine dal suo bagliore e ritiene quest’ultimo un fare, una produzione di un soggetto, che viene chiamato fulmine, così la morale del volgo tiene anche la forza distinta dalle estrinsecazioni della forza, come se dietro il forte esistesse un sostrato indifferente, cui sarebbe consentito estrinsecare la forza oppure no. Ma un tale sostrato non esiste: non esiste alcun “essere” al di sotto del fare, dell’agire, del divenire; “colui che fa” non è che fittiziamente aggiunto al fare – il fare è tutto.282

Tutta questa tematica del pensiero nietzscheano è riassunta nel passo appena citato. Ad agire sono delle forze, le quali a loro volta non sono che la loro azione. Tutto il resto è un vano postulare – sotto la seduzione della lingua – entità sostanziali che farebbero da supporto e da causa alle forze stesse. Il lampo è il suo bagliore, è il suo accadere, e non un’entità sostanziale che accade e dunque causa

280 Cfr. JGB 17.

281 Cfr. R. BODEI, Destini personali. cit., pp. 86-87. La metafora è usata da Lichtenberg in funzione anticartesiana e poi ripresa da altri – tra cui la maggior fortuna è ovviamente quella spettata a Freud, che ha portato il termine Es ad un livello di diffusione mondiale proprio come conferma dell’idea per cui l’io è agito da forze inconsce che non può controllare.