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I luoghi nietzscheani del ritorno

circolo vizioso

5.1 I luoghi nietzscheani del ritorno

Quanto accadde a Nietzsche nell’agosto del 1881, sulle alture dell’Engadina, nei pressi del lago Silvaplana, “seimila piedi al di là dell’uomo e del tempo”328, fa parte non più solo della biografia nietzscheana ma anche della sua facile mitologia. Si sa infatti che qui, durante una delle sue salutari passeggiate, il filosofo fu colpito dall’illuminazione fondamentale per la sua vita e per il suo pensiero: l’idea dell’eterno ritorno. È questo il punto estremo della sua filosofia, il suo esito più segreto e più terribile. Lui stesso avrà timore a parlarne apertamente e a formularlo con chiarezza, sia perché era consapevole che si trattava di un peso troppo grande per poter essere gettato senza discernimento sulle spalle di un’umanità impreparata, sia per motivi intrinseci relativi alla possibilità di esprimere per verba la sua abissalità. Effetto di questa scoperta – di questa rivelazione – sono al contempo l’euforia per aver trovato un pensiero “che divide in due la storia dell’umanità”329, quanto il terribile spavento per essersi

326 BW, p. 578.

327 J.L. BORGES, L’immortale, in

L’Aleph, inTutte le opere, cit., vol. 1, p. 784.

328 EH, Così parlò Zarathustra, 1.

avventurato al tal punto nei pressi del fondo dell’abisso. Così parlò Zarathustra nasce da qui, da questo pensiero che si sa inesprimibile nel linguaggio comune. Non è inesatto dire che il suo tema sia proprio l’eterno ritorno330, il pensiero che scalzerà definitivamente morale e religione331.

Come accennavamo in chiusura del paragrafo precedente e come tematizzeremo di nuovo più avanti, il pensiero del ritorno non può essere espresso secondo le forme tradizionali della comunicazione e dell’espressione filosofiche, e dunque spinge Nietzsche all’elaborazione di un testo che è un unicum nella sua produzione, un libro allegorico (nel senso benjaminiano di cui sopra), eccentrico, debordante: più vicino ad un testo lirico, profetico, religioso, romanzesco che a tutte le forme espressive di cui si è servita tradizionalmente la filosofia (e anche la filosofia nietzscheana). La cosa a cui si avvicina di più è forse un Vangelo – cui Nietzsche rimanda per lo più parodisticamente lungo tutta l’opera. La buona novella, l’evangelion di Nietzsche-Zarathustra (l’annuncio dell’oltreuomo attraverso la dottrina del circolo vizioso) contro il disangelion cristiano.

Nietzsche annuncia un pensiero nuovo, che aprirà un tempo nuovo, il tempo del “grande meriggio”332, l’era dell’oltreuomo, eppure si rende conto di non essere in grado di comunicare una tale scoperta (tanto che nell’opera che immediatamente segue la rivelazione, la Gaia scienza, quasi non ve n’è traccia). Quella di Nietzsche diviene così una filosofia “impraticabile”333, come sostiene egli stesso e come spesso tengono a notare i suoi esegeti: è fondamentale rilevare che lo stesso Nietzsche arriva a questa dichiarazione di “impraticabilità” proprio nel periodo in cui viene a contatto con il suo pensiero abissale. È questa constatazione a spingerlo verso un testo profetico, silenzioso, in cui egli stesso dovrà uscire di scena e farsi maschera attraverso Zarathustra. Ad una certa elusione del linguaggio, o quanto meno della sua pretesa di trasparenza e di aderenza alle

330 Eugen Fink giustamente sostiene la seguente articolazione dell’opera nietzscheana: la prima parte è relativa alla morte di Dio, la seconda alla volontà di potenza e la terza all’eterno ritorno (parallelo a questi scorre anche l’altro oggetto dell’annuncio di Zarathustra e la quarta idea portante della sua filosofia, cioè l’oltreuomo). La quarta parte è invece ritenuta da Fink inessenziale, oltre che non riuscita. Resta il fatto che il terzo libro è quello fondamentale e quello verso il quale corrono i primi due. Non bisogna infine dimenticare che lo stesso Nietzsche lega indissolubilmente lo Zarathustra al pensiero dei pensieri (l’eterno ritorno – EH, Così parlò Zarathustra, 1). Cfr. E.FINK, La filosofia di Nietzsche, cit.

331 Cfr. NF VIII, 9 [8]. 332 Cfr. NF V, 11, [161]. 333 NF V 11 [241].

“cose”, rispondeva senz’altro anche la forma aforistica, che Nietzsche aveva fino ad allora usato in maniera pressoché esclusiva; qui però siamo di fronte ad un procedimento più complesso, che è richiesto dal ruolo peculiare della dottrina del ritorno e in particolare dalla sua inesprimibilità. Nietzsche si sottrae, rinuncia a parlare direttamente, a parlare da quel luogo in cui si dice “io”, e lascia la scena ad un profeta, al profeta dell’oltreuomo e del Circulus vitiosus deus334, il quale a sua volta non potrà esporre quest’ultima dottrina, ma solo parlare per simboli, per aenigmata335. Tanto che il lettore che si aspettasse una trattazione del problema dell’eterno ritorno nello Zarathustra, resterebbe fortemente deluso, forse, dal constatare che in un testo che sfiora le quattrocento pagine non sono più di dieci quelle dedicate al ritorno, e che in queste dieci troviamo solo parabole, visioni, enigmi, e solo due esposizioni della teoria stessa (ed entrambe puntualmente rifiutate). L’incredibile varietà di interpretazioni del pensiero dei pensieri (di cui vedremo una breve rassegna) si basa anche su questa scarsezza di luoghi nietzscheani che chiariscano gli aspetti del problema.

Risulta pertanto necessario confrontarsi in prima battuta con i luoghi dell’opera nietzscheana esplicitamente dedicati a questo tema: si tratta di tre sezioni, che cercheremo di analizzare adesso, in cui si parla più o meno esplicitamente del ritorno e di una quarta sezione che, pur non affrontandolo in modo diretto, rimanda esplicitamente ad esso. Più precisamente si tratta dell’aforisma 341 della Gaia scienza (che ha come titolo Il peso più grande) e delle sezioni La visione e l’enigma e Il convalescente, che troviamo nella terza parte dello Zarathustra, alle quali si aggiunge la già citata sezione Della redenzione, che troviamo nella seconda parte del medesimo testo336.

Vediamo subito la lettera nietzscheana:

334 Cfr. JGB 56.

335 È opportuno chiarire, con Vattimo, che quello che talvolta resta inestricabilmente enigmatico in Nietzsche (e più che mai nello Zarathustra) lo è anche per Nietzsche stesso, e ciò si lega principalmente all’incomunicabilità di alcuni pensieri che inevitabilmente eccedono la comunicazione verbale (Cfr. G. VATTIMO, Introduzione a Nietzsche, cit., p. 91).

336 Si potrebbe tra gli altri aggiungere l’aforisma 56 di Al di là del bene e del male (quello in cui viene usata l’espressione circulus vitiosus deus) in cui il ritorno è sostanzialmente legato alla figura dell’oltreuomo.

Il peso più grande. Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un

demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: “Questa vita, come ora tu la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e innumerevoli volte, e non ci sarà mai in essa niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere, e ogni pensiero e ogni sospiro, e ogni cosa indicibilmente piccola e grande della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione – e così pure questo ragno e questo lume di luna tra gli alberi. E così pure questo attimo e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta – e tu con essa granello di polvere!”. Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato? Oppure hai forse vissuto una volta un attimo immane, in cui questa sarebbe stata la tua risposta: “Tu sei un dio, e mai intesi cosa più divina!”? […] La domanda che ti porresti ogni volta e in ogni caso: “Vuoi tu questo ancora una volta e ancora innumerevoli volte?” graverebbe sul tuo agire come il peso più grande! Oppure, quanto dovresti amare te stesso e la vita, per non

desiderare più alcun’altra cosa che quest’ultima eterna sanzione,

questo suggello?337

Ci troviamo qui di fronte all’unico aforisma pubblicato prima dello Zarathustra in cui si faccia cenno al pensiero del ritorno. In che modo risulta abbastanza evidente. Nietzsche non si impegna ancora (ammesso che si sia mai realmente impegnato in questa direzione) a fondare anche solo teoricamente (oltre che scientificamente) la sua dottrina fondamentale, ma la presenta in una forma assolutamente ipotetica (Wie, wenn dir eines tages oder nachts, ein Dämon in dein einsamste Einsamkeit nachschiche und dir sagte: “[…]” – Würdest du…). Ovvero, Nietzsche sta chiedendo solo lo sforzo di concepire come possibile questo eterno ritorno dell’uguale, per poter adombrare almeno quale sarebbe la sua reazione su di noi, come reagiremmo al demone che ponesse questa domanda cruciale alla nostra più riposta intimità.

337 FW 341. Ci scusiamo fin d’ora con l’eventuale lettore per la lunghezza delle citazioni nietzscheane di questo paragrafo. Ma ciò (a parte l’indubbia bellezza del testo nietzscheano) è dovuto al fatto che avremo bisogno di riferirci alle summenzionate sezioni abbastanza puntualmente, per cui può essere utile riportare i testi nella loro totalità (o quasi).

Il titolo stesso dell’aforisma338 indica – al di là della più bella e suggestiva descrizione del circolo vizioso che si trovi negli scritti nietzscheani – che il discorso deve conseguire i suoi effetti in campo morale ed esistenziale, senza impegnarsi in alcuna presa di posizione cosmologica (il fatto che il ritorno possa essere un fatto, oltre che una suggestione). È questo senz’altro uno degli aspetti fondamentali (l’unico unanimemente accettato dagli esegeti) dell’eterno ritorno: il côté etico della teoria nietzscheana, ovvero il ritorno come strumento selettivo, come “teoria che setaccia gli uomini”. Chi sarà in grado di sopportare il peso più grande, l’idea che tutto possa ritornare identico a come è stato, che ogni dolore, ogni sospiro, ogni rimpianto, ogni dispiacere debba tornare di nuovo? Da questo punto di vista è evidente perché l’eterno ritorno sia la forma estrema del nichilismo: se nulla ha senso, esso non fa che spalancare un abisso in cui il non senso continua a ripetersi all’infinito, in cui l’uomo è condannato in eterno ad un destino di Sisifo. È l’ultimo suggello all’insensatezza, che in più aggiunge la vanità di ogni azione, che si limita a ripetere un immodificabile copione eterno. Ma d’altra parte si può immaginare qualcuno che in un attimo immane sia stato in grado di amare se stesso e la vita al punto tale da chiedere che quell’attimo si ripetesse infinitamente, riuscendo a volgere il peso più grande nella più grande gioia. L’eterno ritorno risulta così una sorta di setaccio, che divide l’umanità tra coloro che sono in grado di sopportare un tale peso (i forti, le persone attive, affermatrici) e coloro che soccombono al peso più grande (i deboli, i reattivi, i negatori). L’oltreuomo sarà colui che riuscirà a vivere l’eterno ritorno fino in fondo, a volere l’eterno ritorno, non solo in virtù di un attimo immane e solo in quell’attimo, ma in virtù di un sì radicale, assoluto, primordiale, alla vita nella sua interezza, ad ogni accadimento, ad ogni dolore e ad ogni piacere.

In questo senso si è stati tentati di parlare perfino della riedizione nietzscheana dell’imperativo etico kantiano339. Anziché un esperimento di universabilizzabilità della massima in base alla quale si agisce (“opera in modo che la massima della

338 Troviamo la stessa espressione in un appunto dell’epoca della stesura della Gaia scienza (NF V, 11 [226]).

339 Vanno in questa direzione sia la lettura di Georg Simmel (GEORG SIMMEL, Nietzsche e Kant, in ID., Arte e civiltà, ISEDI, Milano 1976), che quella di Karl Löwith (K. LÖWITH, Nietzsche e l’eterno ritorno, cit., p. 87). Cfr. V, 11 [161]: “[…] Vivere in modo da poster desiderare di rivivere

tua volontà possa sempre valere in ogni tempo come principio di una legislazione universale”340) qui Nietzsche propone un imperativo ad agire in modo da volere il ritorno della nostra azione (“agisci in modo da poter volere questo ancora una volta e ancora innumerevoli volte”). In realtà più che di un imperativo ad agire in un certo modo, secondo una certa forma, l’accento è posto soprattutto sulla possibilità di desiderare, in base al proprio vissuto, alla propria capacità di vivere e di sentire il piacere, la ripetizione eterna delle nostre azioni (non dunque un uniformarsi ad un principio d’azione ma un trovarsi nella situazione in cui poter aderire a chi ci insinuasse in sogno la possibilità della ripetizione eterna della nostra vita).

Fin qui, il celebre passo della Gaia scienza, ovvero la prima formulazione, nei termini appena visti, della dottrina del ritorno. Siamo al penultimo aforisma del quarto libro (quello che nelle intenzioni originarie doveva concludere l’opera), e subito dopo sarebbe seguito l’aforisma 342, dal titolo Incipit tragoedia che rimanda allo Zarathustra (anzi è la prima pagina medesima del prologo dello Zarathustra, a voler indicare una continuità tutt’altro che inessenziale). Così parlò Zarathustra segue dunque direttamente dal quarto libro della Gaia scienza e più precisamente comincia non appena Nietzsche ha dato la prima versione del suo pensiero abissale341. Questo accostamento conferma una volta di più lo Zarathustra come testo che ha come obiettivo primario l’eterno ritorno (accanto ad altri non trascurabili, oltreuomo in primis). Ma, come accennato, il lettore che si volesse fare un’idea chiara del pensiero dei pensieri resterebbe deluso nel trovare al riguardo solo due “parabole”, che restano per di più prive di esegesi. È con l’analisi di queste due parabole che intendiamo proseguire il nostro discorso.

Il primo di questi due brani ha titolo La visione e l’enigma, ed è un racconto (per lo più simbolico ed enigmatico, come lascia capire lo stesso titolo) che Zarathustra tiene di fronte ai marinai con cui sta compiendo un viaggio per mare.

340 I. KANT, Critica della ragion pratica, Laterza, Bari 1997, p. 65.

341 Il quinto libro della Gaia scienza, senz’altro ben lungi dall’essere trascurabile, è comunque un’aggiunta successiva, e dunque non spezza la voluta continuità tra l’aforisma 341 e lo

Zarathustra. Si può discutere inoltre sulla riuscita di questo quinto libro, e forse in generale sulla

riuscita delle aggiunte nietzscheane ai suoi testi (si pensi al quarto libro dello Zarathustra). In particolare sull’inaderenza del quinto libro della Gaia scienza cfr. GIORGIO COLLI, Scritti su Nietzsche, Adelphi, Milano 1995, pp. 107-108. Per una critica aspra al quarto libro dello Zarathustra Cfr. E. FINK, La filosofia di Nietzsche, cit., p. 123-4.

Egli cammina, verso una meta sconosciuta, di cui non sappiamo se non che si trova in alto, che dunque egli sta salendo. Ma sulle sue spalle sta accovacciato il suo demone, una figura storpia metà nano e metà talpa, che egli chiama “spirito di gravità” e che gli continua a ripetere che è inutile salire, poiché ogni cosa che sale è destinata a cadere, ed ogni cosa scagliata in alto tornerà a colpire chi l’ha lanciata. Per questo Zarathustra decide di prendere in mano la “mazza più micidiale” – il suo coraggio – per liberarsi definitivamente del suo demone, di quella pesantezza che gli impedisce l’ascesa: “Alt, nano! O io! O tu!”. Ma sarà Zarathustra, ovviamente, ad avere la meglio, perché egli solo, dice, conosce e sa sopportare il “pensiero abissale”342. Ancora una volta torna il tema della dottrina del ritorno come setaccio, come selezione (e dunque come istitutrice di gerarchia). Già queste parole alleggeriscono Zarathustra, poiché il nano, incuriositosi, salta giù dalle sue spalle. Così Zarathustra prova ad esporre il suo pensiero abissale:

“Guarda questa porta carraia! Nano! Essa ha due volti. Due sentieri convergono qui: nessuno li ha mai percorsi fino alla fine.

Questa lunga via fino alla porta e all’indietro: dura un’eternità. E quella lunga via fuori della porta e in avanti – è un’altra eternità.

Si contraddicono a vicenda, questi sentieri; sbattono la testa uno contro l’altro: e qui, a questa porta carraia, essi convergono. In alto sta scritto il nome della porta: ‘attimo’.

Ma chi ne percorresse uno dei due – sempre più avanti e sempre più lontano: credi tu nano, che questi due pensieri si contraddicano in eterno?”

“Tutte le cose dritte mentono”, borbottò sprezzante il nano. “Ogni verità è ricurva, il tempo stesso è un circolo”.

“Tu, spirito di gravità! Non prendere la cosa troppo alla leggera!”

La mera circolarità non corrisponde all’eterno ritorno: è questo quello che emerge dal primo scambio di battute tra il profeta e il nano. Questa prima esposizione del ritorno, ad opera del nano, va rifiutata perché schiaccia il ritorno sull’idea del circolo. Zarathustra ha bisogno di una chiarificazione ulteriore, che

342 Di questo pensiero abissale Zarathustra dà una formulazione simile a quella di FW 341: “Questo fu la vita? Orsù! Da capo!”

in prima battuta cerca di dare continuando a parlare col nano: insiste sull’attimo343 (è qui probabilmente che il modello del semplice circolo fallisce, perché non riesce a dar ragione dell’attimo, ma di questo parleremo più avanti), sul legame di tutte le cose tra loro (il che rimanda alla volontà di potenza come principio del ritorno), sul fatto che noi stessi torneremo in eterno, identici. Questi sono i primi due tempi della parabola344, in cui si dà una versione in qualche modo chiara, teorica del ritorno: il primo momento consiste nell’esposizione di Zarathustra e nella risposta del nano, il secondo nella replica di Zarathustra all’interpretazione semplicemente ciclica che questi ha fornito. Siamo ancora al momento della negazione, dello smascheramento: Zarathustra non ha ancora toccato il cuore del suo discorso, e ciò essenzialmente perché non si sta muovendo all’interno di un linguaggio che possa mostrarlo, il quale a sua volta si rivela essere – ma neanche questo è dato con certezza – il linguaggio del simbolo.

La seconda visione345, che ci trasporta da un terreno teorico ad uno allegorico- simbolico, si svolge in un contesto completamente mutato: in un deserto notturno in mezzo a orridi macigni. È qui che Zarathustra vede un pastore che si rotola convulsamente a terra, soffocato da un grosso serpente nero che gli penzola dalla bocca. Non c’è modo di strappar via il serpente con la forza e così Zarathustra si trova a gridare “Mordi! Mordi! Staccagli il capo! Mordi!”. E il pastore riesce così a liberarsi della stretta del serpente, staccandogli la testa e sputandola lontano. Dopo questo gesto egli si alza in piedi, completamente trasfigurato: “Non più pastore, non più uomo – un trasformato, un circonfuso di luce, che rideva! Mai prima al mondo aveva riso un uomo, come lui rise!”.

Non è semplice dare spiegazione di questo enigma, in cui Nietzsche si sdoppia ulteriormente, si allontana ulteriormente dalla scena, creando un alter ego dello

343 “Guarda questo attimo! […] E se tutto è già esistito, che pensi, nano, di questo attimo? Non deve anche questa porta carraia esserci già stata? E tutte le cose non sono forse annodate saldamente l’una all’altra, in modo tale che questo attimo trae dietro di sé tutte le cose a venire?

Dunque - - anche se stesso? […] Non dobbiamo tutti esserci già stati una volta? E ritornare a

camminare in quell’altra via al di fuori, davanti a noi, in questa lunga orrida via – non dobbiamo ritornare in eterno?”

344 Seguiamo Vattimo (G. VATTIMO, Il soggetto e la maschera, cit., pp. 199-200) nello spezzare la prima parte della parabola (la prima visione) in due tempi.

345 Titolo più appropriato di questo capitolo sarebbe stato forse “Le visioni e l’enigma”, giacché si danno più visioni cui sottende lo stesso enigma.

stesso Zarathustra. Qui torna di nuovo fondamentale l’attimo, inteso come momento della decisione, momento in cui l’eterno ritorno si istituisce e si fonda attraverso un atto consapevole di liberazione: l’eterno ritorno mostra – paradossalmente – di avere un carattere eventuale346, che proprio ciò che sempre torna è qualcosa che ha bisogno di essere istituito. Ancora una volta sembra che il discorso di Zarathustra vada più in direzione di una riforma radicale della vita umana a partire da una teoria che possa essere considerata vera, piuttosto che verso la fondazione di un discorso cosmologico.

L’altro capitolo dello Zarathustra apertamente dedicato al ritorno prende il titolo di Il convalescente. L’ambiente è cambiato (egli è solo, nella sua caverna) e con esso è cambiato l’interlocutore (non più il suo demone, lo spirito di gravità, ma i suoi animali, che lo accudiscono durante la malattia che gli provoca l’invocazione del suo pensiero abissale). Anche le bestie di Zarathustra danno la loro versione del ritorno, che non differisce però molto da quella del nano: “Tutto va, tutto torna indietro; eternamente ruota la ruota dell’essere. Tutto muore, tutto