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Conoscere l’altro (solo) in se stess

Lettura della Recherche

2. Individuum est ineffabile.

2.2 Conoscere l’altro (solo) in se stess

Arriviamo così al secondo punto di quella sentenza proustiana che abbiamo posto in apertura del paragrafo: non è possibile conoscere gli altri se non in se stessi. Come detto, si tratta anzitutto di un portato del prospettivismo: se il

544 CS, p. 181. 545 AD, p. 190. 546 JF, p. 542. 547 JF, p. 591.

narratore non può uscire dal proprio angolo visuale, e rimane imprigionato in esso, ciò ha delle conseguenze nel modo con cui egli tratta i suoi personaggi. Si è da più parti sottolineata la particolarità dei personaggi della Recherche, si è detto che sono “bidimensionali”548, “proteiformi”549, inafferrabili, quasi fossero spettri, ombre, figure che una gigantesca lampada magica proietta nella narrazione del romanzo. Proust non presenta i propri personaggi, si limita a farli apparire550, ad evocarli sulla pagina. Il narratore li mostra così come li ha visti la prima volta: senza comprenderli. Charlus è un signore bizzarro che fa strani gesti o segnali a Balbec, Albertine è un volto di fanciulla perduto tra molti altri, sullo sfondo di un tramonto marino. La conoscenza – secondo il principio del côté Dostoïevsky – arriverà più tardi, o meglio, più tardi arriveranno solamente nozioni ulteriori, spesso contraddittorie, che si assommeranno alle precedenti senza fornire alcuna conoscenza reale. Non è possibile comprendere i personaggi della Recherche come si comprendono, per esempio, i personaggi della Comédie Humaine, come una totalità complessa ma coerente. Beckett si era avvisto, del resto, che Proust non fa, lungo tutto il romanzo, che spiegare i suoi personaggi, motivarne le azioni, cercarne i moventi: l’esito di tutto questo, tuttavia, è che essi resistono ad ogni tentativo di spiegazione, e che finiscono per mostrarsi per quello che sono: inspiegabili551.

Esistono due ordini di motivi per cui i personaggi di Proust arrivano ad essere queste ombre di cui, – dopo tanto parlare e dopo tanto osservare – non sappiamo dire niente, in cui non sappiamo introdurre unità, consistenza, esistenza552.

Il primo ordine di motivi, che qui propriamente ci interessa, è quello che potremmo definire “soggettivo” (cioè quello che raccoglie i motivi per cui esiste un’impossibilità da parte di chi conosce, nella fattispecie in particolare del narratore, a conoscere); il secondo ordine è quello “oggettivo”: perché i personaggi si rivelano in sé inconoscibili. Non tratteremo questo secondo ordine di motivi, in quanto gli sarà dedicata un’ampia trattazione più avanti553;

548 G. PICON, Lecture de Proust, cit., p. 75-76. 549 GENETTE, Proust palimpseste, cit. p. 55. 550 G. PICON, Lecture de Proust, cit., p. 49. 551 Cfr. S. BECKETT, Proust, cit., p. 89. 552 Cfr. CS, p. 514.

altrettanto, sorvoleremo per il momento sui complessi rapporti conoscitivi che si instaurano tra amato e amante, poiché anche questi meritano un’attenzione particolare554.

Il punto su cui invece ci soffermeremo al momento – ancorché brevemente – è il seguente: gli errori ottici che ci impediscono di conoscere un altro essere umano555.

Prendiamo Françoise, la cameriera di zia Léonie prima e della famiglia del narratore in seguito alla morte di lei. Si potrebbe pensare che la lunga frequentazione (del narratore ma anche del lettore) e la relativa semplicità del personaggio possano conferirne una visione d’insieme, se non completa, almeno coerente, unitaria. Ma Proust ci distoglie da un simile pensiero in un passaggio fondamentale:

Capii che era impossibile sapere se Françoise mi volesse bene o mi detestasse. E fu lei così la prima che mi suggerì che, contrariamente a quanto avevo creduto, una persona non se ne sta davanti a noi, limpida e immobile con le sue qualità, i suoi difetti, i suoi progetti, le intenzioni che nutre nei nostri confronti (come un giardino osservato, aiola per aiola, attraverso una cancellata) ma è un’ombra in cui non ci è mai possibile penetrare, di cui non ci è data conoscenza diretta, intorno a cui ci formiamo numerose convinzioni fondate su parole e anche azioni che ci forniscono – sia le une che le altre – informazioni insufficienti e d’altronde contraddittorie, un’ombra in cui possiamo immaginare, di volta in volta, con lo stesso grado di verosimiglianza, il balenare dell’odio o dell’amore.556

Questo lungo periodo (oltre a dare la più squisita idea dell’ “apnea” sintattica proustiana) esprime mirabilmente il problema che abbiamo qui messo a tema. Non conosciamo – non possiamo conoscere – l’altro, ed ogni ulteriore conoscenza, ogni nuova nozione, ogni parola e ogni gesto che gli vediamo compiere, non fa che confermarlo, giacché gesti e parole sono tra loro contraddittori e, d’altra parte, sono anche ambigui, per cui uno stesso gesto può

554 Cfr. § 3. 555 Cfr. JF, p. 542 556 CG, p. 77.

essere testimonianza di tendenze opposte. Il punto è proprio questo: una persona non si dispiega limpidamente di fronte a noi, come un sistema ordinato e decifrabile, ma si dà come un complesso intermittente di segnali ambigui e spesso contraddittori. A chi vuole conoscere non resta che “immaginare, di volta in volta”, i possibili significati di quei geroglifici557, senza garanzia alcuna che la sua interpretazione, ancorché verosimile, gli dica qualcosa di effettivo sull’altra persona.

Non resta al narratore (ma si tratta di una legge che vale universalmente) che farsi interprete di questi segnali, ma nella misura in cui essi sono aperti alle più molteplici letture, si tratta più propriamente di costruire la persona con cui si entra in relazione. E così accade che finiamo per proiettare senza sosta i nostri stati d’animo, le nostre paure, i nostri desideri sulle altre persone, con l’esito di farne delle nostre creature, che poco hanno a che fare con ciò che esse sono. Il processo costruttivo è del resto – naturalmente – direttamente proporzionale all’interesse che una persona suscita in noi o (secondo il meccanismo del desiderio triangolare, descritto in modo così illuminante da René Girard558), che si crea in noi attraverso la mediazione di un terzo. La Berma diventa ciò che è stato descritto sotto questo nome da Bergotte o da Norpois, la duchessa di Guermantes diventa di volta in volta la raffigurazione di un arazzo, una divinità marina, una figura mitica evocata dal suo nome e dalla sua tradizione, un oggetto d’amore, una semplice vicina di casa, Gilberte diventa un essere meraviglioso perché conosce Bergotte prima, per un rifiuto poi, Albertine per gelosia, Odette per un ritardo. L’amore, in particolare, si configura come mera proiezione di uno stato d’animo sulla persona amata – e che, naturalmente, non ha nulla o poco a che vedere con la persona in sé559.

Che un amore, del resto, possa (ma sarebbe meglio dire debba, nel mondo proustiano) prescindere dall’essere amato è testimoniato dal fatto che il narratore

557 Cfr. P, p. 159 un’immagine analoga di Albertine, che si dà esclusivamente attraverso diverse Albertine separate, incomplete, profili inconciliabili che fanno ipoteticamente capo ad un’altra persona.

558 RENÉ GIRARD, Menzogne romantiche e verità romanzesca, Bompiani, Milano 1981.

559 Cfr. JF, p. 493: “Avevo intuito un tempo ai Champs-Élisées, e capito meglio in seguito, che quando siamo innamorati di una donna, non facciamo che proiettare in lei un nostro stato d’animo; che, dunque, l’importante non è il valore della donna, ma la profondità di quello stato”. Cfr. anche CS, p.287.

non riesce a ricordare i tratti di Gilberte, o quelli della duchessa di Guermantes560, ma solo l’idea che si è previamente fatto di loro. Di Gilberte il narratore ricorda gli occhi azzurri, ma solo perché si intonano al biondo dei suoi capelli (quegli occhi in realtà sono neri)561. Non è possibile ricordare i tratti di una persona come non è possibile fissarla: diciamo di conoscere ciò che abbiamo immobilizzato, ma non appena ci capita di volerci fermare con interesse a guardare una persona, a fissarla, essa si decompone in mille immagini, mille forme, mille sapori: di un essere non abbiamo che “fotografie mancate”562.

Se ce ne fosse bisogno, basterebbe accostare due immagini che hanno della stessa persona due individui differenti, per accorgersi che ognuno è diverso nelle percezioni di ogni altro (vedremo più avanti che ogni individuo è in realtà una molteplicità di persone; ciò vale anche rispetto agli altri: c’è un diverso “me” nella mente di ciascuno con cui entro in relazione563). Si possono fare, da questo punto di vista, due esempi (più o meno) speculari, che riguardano le immagini di due persone prodotte da Robert de Saint-Loup e dal narratore stesso. Nel primo caso l’oggetto di interesse è Rachel, la ragazza di Robert, per cui egli impazzisce d’amore (e di giustificata gelosia) e dilapida il patrimonio: egli è arrivato a conoscerla attraverso un percorso di desiderio lungo, faticoso, spesso frustrato, e tenuto sempre vivo dalla passione e soprattutto dalla gelosia, e dunque vede nella ragazza ogni dote, la considera l’essere perfetto, quasi angelico. Il narratore invece l’ha conosciuta, per così dire, già disvelata, senza cercarla, per caso: era quella Rachel che egli si divertiva a chiamare Rachel quand du signeur in un postribolo, dove spesso gli veniva offerta, ma che egli sempre rifiutava perché, avendole sentito chiedere una volta alla tenutaria di tenerla presente in caso di bisogno, aveva perso per lui ogni attrattiva. Seduti tutti e due allo stesso tavolo con Rachel, il narratore e l’amico vedono in lei due esseri distinti, contraddittori, incomunicabili, entrambi rispondenti al nome di Rachel564. Nessuna delle due Rachel, del resto, è più vera dell’altra.

560 CG, p. 71, in cui il narratore vede ogni volta un viso diverso (composto in parte dai tratti fisici, in parte dalle porzioni del vestito che invadono lo spazio del volto) della duchessa di Guermantes. 561 CS, p. 170-1. Sull’impossibilità di ricordare Gilberte cfr. CS, p. 484-5.

562 JF, p. 75.

563 Cfr. CG, p. 329 e anche JF, p. 385. 564 Cfr. JF, p. 181 e CG, p. 190.

Saint-Loup a sua volta renderà la pariglia al narratore quando questi lo chiamerà, disperato per la fuga di Albertine, per farsi aiutare a ritrovarla. Mostrandogli una foto dell’amata – di quella Albertine per cui il narratore si è fatto aguzzino, si è egli stesso recluso, ha esperito le sofferenze più atroci e rinunciato ad ogni altro piacere – egli si rende conto che l’amico non vede in lei che una ragazza, piuttosto vacua, dallo sguardo non intelligente, grassoccia e tutto sommato bruttina. Anche qui, Albertine è una persona diversa in ciascun occhio che la guarda. Proust si barrica dietro quel famoso motto: “Lasciamo le belle donne agli uomini privi di immaginazione”565. Con questo però non fa che

confermare che in amore, ma più in generale in ogni tipo di rapporto umano, ogni conoscenza è per lo più questione di immaginare l’altro, di costruirlo attraverso tutte quelle sensazioni che si interpongono tra il volto dell’altro e il nostro sguardo.

Si tratta ancora del principio generale della discontinuità. Si parte sempre da piccoli pezzi, da frammenti infinitesimali dell’altro, e su questi, abolendo o rielaborando gli immensi spazi vuoti, si foggia “come d’oro” una persona dotata di consistenza e unità566. Analogo alla scena in cui il narratore corre tra i finestrini per ricomporre un’alba dai frammenti che gli offre il treno in movimento567, il lavoro del narratore (e dei personaggi del romanzo in generale) consiste nel prendere le poche istantanee parziali che hanno di una persona e quindi ricostruirla come individuo coeso. Anche perché un altro principio, quello di economia (cioè di pigrizia), fa sì che immaginiamo che tutto ciò che non sappiamo dell’altro sia identico a ciò che già sappiamo, senza integrarvi possibilità alternative568. E se proprio finisce che deroghiamo a questo principio lo facciamo solo per aggiungere alla persona in questione qualcosa che ci viene suggerito dai nostri desideri, dalle nostre aspettative, o dai nostri timori su di lei.

Per il resto, una volta che l’immagine è foggiata (si pensi al caso di Vinteuil e della figlia), “chiudiamo” l’individuo in questione, per così dire, nell’immagine fissa e inattaccabile che ci siamo fatti di lui e ci tappiamo occhi e orecchi569 per

565 AD, p. 30. 566 Cfr. CS, p. 180-1. 567 JF, p. 277. 568 CS, p. 434. 569 Cfr. JF, 5.

non dover percepire qualcosa che riapra i cantieri di costruzione di quell’individuo e ci costringa così a ripensarlo. Anche perché, nel momento in cui si moltiplicano le prospettive su di una medesima persona, finisce per accadere quello che il narratore dice di Françoise: essa implode in una quantità eccessiva di volti non più sintetizzabili in unità, e si comprende che quella sequela di avvenimenti che una persona è, non è in alcun modo possibile farla oggetto di una conoscenza stabile ed effettiva.

“L’uomo è l’essere che non può uscire da sé, che non può conoscere gli altri se non in sé, e se dice il contrario, mente”570. Senza porte né finestre, senza possibilità di conoscere l’altro, l’uomo proustiano si configura dunque come una monade leibniziana, chiusa a qualsiasi comunicazione, e in grado di riprodurre solo, per quanto incessantemente, il suo proprio universo. Ogni parola che egli proferisce su ciò che lo circonda, e sui suoi simili in particolare, non è che un parlare di sé; e dunque la pretesa di dire qualcosa di effettivo sull’“altro” è destinata al fallimento, alla menzogna.

Vorremmo, in conclusione di questo paragrafo, analizzare la terza parte della sentenza (“…e se dice il contrario, mente”) in maniera non solo negativa (ogni pretesa di dire qualcosa su un altro essere è vana, ogni parola menzogna). Abbiamo detto poco sopra, parlando del procedimento artistico di Elstir (e dell’arte in quanto tale), che l’arte è assunzione consapevole e volontaria della menzogna. Questo assunto, che non è sbagliato definire nietzscheano, sta alla base anzitutto della concezione “estetica” proustiana. La superiorità della letteratura sulla vita sta proprio in questa diversa consapevolezza: la vita mente pensando di dire la verità, la letteratura mente perché sa di non poter far altro. Altrettanto, la concezione dell’opera come creazione, come qualcosa di aggiunto al mondo e non come una sua rappresentazione, un suo rispecchiamento, ha la sua base nell’assumere l’arte come menzogna. Ma ciò ha anche una conseguenza fondamentale nel problema dell’altro che stiamo trattando qui: se uscire da sé significa mentire, è anche vero il contrario, che solo mentendo (attraverso questo tipo particolare di menzogna) è possibile uscire da sé.

È la rivelazione, che sarebbe impossibile attraverso mezzi diretti e coscienti, della differenza qualitativa nel modo in cui il mondo ci appare, differenza che, se non ci fosse l’arte, resterebbe il segreto eterno di ciascuno. Solo attraverso l’arte possiamo uscire da noi, sapere cosa vede un altro di un universo che non è lo stesso nostro e i cui paesaggi rimarrebbero per noi non meno oscuri di quelli che possono esserci sulla luna. Grazie all’arte, anziché vedere un solo mondo, il nostro, lo vediamo moltiplicarsi571.

Solo attraverso l’arte l’uomo è in grado di entrare in contatto con i propri simili, solo nell’arte si è in grado di comunicare se stessi agli altri. Ponendosi ad un livello ulteriore rispetto a qualsiasi discorso umano, essa sfonda le porte e le finestre delle monadi, crea uno spazio – diverso e infinitamente lontano da quello della relazionalità sociale – ulteriore, un territorio in cui sia finalmente resa possibile l’intersoggettività572. E questo territorio dell’intersoggettività è costituito benché l’arte non faccia che restituire un’essenza che si configura, sulla scorta dell’illuminante definizione di Deleuze, come “differenza ultima e assoluta”573, vale a dire come prospettiva particolare ed inedita che illumina trasversalmente il mondo. Ma, se abbiamo imparato la lezione proustiana, sappiamo che i “benché” non sono che dei “perché” misconosciuti, e dunque è proprio solo in virtù del suo essere prospettiva unilaterale, particolare, irripetibile, che nasce la sua possibilità di parlare ad un altro, di comunicare con un’altra irriducibile particolarità.

A sua volta, del resto, è solo attraverso quest’opera di straniamento che l’arte viene a produrre, che è possibile capire meglio se stessi, guardare con altri occhi noi e i nostri modi di apprendere il mondo: sebbene l’opera d’arte faccia da tramite, “ogni lettore”, dice comunque Proust, venendo in qualche modo a richiudere la monade in sé, “è lettore di se stesso”574.

571 TR, p. 250.

572 Cfr. G. DELEUZE, Marcel Proust e i segni, cit., pp. 40 – 45. 573 Ibidem.