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Il compito di rieducare. Quarant'anni di pedagogia penitenziaria

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Educazione

&

ricerca sociale

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collana diretta da Paola Brunello Andrea Caldelli Simone Giusti

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IL COMPITO DI RIEDUCARE

Quarant’anni di pedagogia penitenziaria

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dell’Università degli Studi “G.D’Annunzio” di Chieti-Pescara Dipartimento di Economia Aziendale

L’opera, comprese tutte le sue parti, è tutelata dalla legge sui diritti d’autore.

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ISBN volume 978-88-6760-406-7 ISSN collana 2420-9813

2016 © Pensa MultiMedia Editore s.r.l.

73100 Lecce • Via Arturo Maria Caprioli, 8 • Tel. 0832.230435 25038 Rovato (BS) • Via Cesare Cantù, 25 • Tel. 030.5310994

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Indice

Introduzione 15

CAPITOLO PRIMO

Le origini della pedagogia emendativa 23

1. Disagio, devianza, disabilità, criminalità, rischio:

linee d’intervento della pedagogia emendativa 23 2. Dalla pedagogia sociale alla pedagogia penitenziaria:

tra devianza e marginalità 30

3. Piero Bertolini e la pedagogia per i ragazzi difficili 41 4. Da Bertolini a Freire: il compito di “ri-educare” 50

CAPITOLO SECONDO

Altri approcci teorici nello studio

della devianza e della criminalità 57

1. Alcuni approcci teorici su devianza e criminalità 57 2. Sociologia della devianza e della criminalità 58

3. Criminologia 65

4. Psicologia 73

4.1 Le teorie psicoanalitiche 75

4.2 Comportamentismo e teorie

dell’apprendimento sociale 77

4.3 Disturbi di personalità e personalità criminale 81

CAPITOLO TERZO

L’Esigenza di punire: le funzioni della pena 87

1. L’esigenza di punire 87

2. La funzione retributiva 89

3. Funzione intimidativa o deterrente 92

4. Funzione di difesa sociale 93

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lo sguardo sulle vittime dei reati 96

7. Le teorie abolizioniste 99

CAPITOLO QUARTO

Esperienze dialogiche di educazione interiore in carcere:

proposte di rieducazione 103

1. Narrazione ed educazione interiore 103

2. Le “narrative del male” 113

3. Il social dreaming: narrarsi con i sogni 118

CAPITOLO QUINTO

Seguendo i sentieri nebulosi del sogno:

tracce per una proposta di formazione umana 125

di Danilo Sarra

Premessa 125

1. L’incontro con l’alterità 127

2. L’arte del sogno 139

2.1 Alla ricerca di nuove forme 139

2.2 La voce degli artisti 146

3. Sogno e autoformazione 150

CAPITOLO SESTO

I nostri pomeriggi in carcere: storie di dentro.

Percorsi narrativi e dialogici di educazione interiore 159

1. Le attività trattamentali ed il trattamento rieducativo durante l’esecuzione della pena.

Una visione esperienziale

di Stefania Basilisco 159

2. L’idea… storie di dentro 163

3. Un incontro informale… “Lontano dal sole” 170 4. Gli incontri del venerdì. I nostri pomeriggi in carcere 173

4.1 Il primo incontro… la conoscenza…

i racconti… i sogni… 173

4.2 Dalla natura umana al senso del limite 179 4.3 Dei padri… dei figli…

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4.5 “Pane e tulipani” e sette amici al bar…

senza aperitivo 199

4.6 Le chiavi d’ottone… 205

4.7 Commiati, Lolite e corrispondenze… 209 4.8 I ricordi di vita di un detenuto 213 4.9 E di venerdì ne furon tanti…

pedalando sulle “biciclette” e sorvolando il cielo 221 4.10 E dopo il carcere? Lavoro e recidiva:

la proposta del Crowdfunding.

Fare impresa con finanziamento collettivo 228

CAPITOLO SETTIMO

L’epistolario. Corrispondenze fra detenuti e studenti 233

1. Sprazzi di felicità… 234

2. Sprazzi di consapevolezza e non… 236

3. Il sentimento della mancanza... 239

4. L’essenza delle cose... 241

5. Povero amore… da una canzone di Edoardo Bennato 243

6. Sull’educazione… sul Sé 252

7. Degli innocenti… 254

8. Sul tempo che scorre inesorabile…

sulla privazione della libertà 257

9. Abbiate il coraggio di essere felici e di perdonarvi 260

10. Il mio canto libero… 265

11. Sul senso della vita 267

12. Into the wild 269

Per concludere 273

APPENDICE

Dalla Riforma dell’Ordinamento Penitenziario del ’75

agli “Stati Generali sull’Esecuzione Penale”, 2016. Una sintesi 279

1. Interventi nella prima giornata, 18 aprile 2016

2. Sintesi del Documento conclusivo degli Stati Generali sull’Esecuzione Penale, con particolare riferimento ai concetti di “rieducazione” e “giustizia riparativa”:

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metodologicamente inedita 304 2.2 Parte seconda. Dignità e diritti:

una reciproca implicazione 305

2.3 Parte terza. La tutela dei soggetti vulnerabili 313 2.4 Parte quarta. L’esecuzione penitenziaria:

responsabilizzazione e nuova vita detentiva 315 2.5 Parte quinta. L’esecuzione esterna:

meno recidiva e più sicurezza 319

2.6 Parte sesta. La giustizia riparativa 326 2.7 Parte settima. Organizzazione, personale,

volontariato e formazione 336

2.8 Una nuova cultura della pena 350

Riferimenti bibliografici 357

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amici detenuti nella Casa Circondariale di Chieti, perché grazie a voi ho imparato ad amare anche l’errore…

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Desidero ringraziare tutti coloro i quali hanno reso possibile questo lavoro, in primis la Direttrice della Casa Circondariale di Chieti, dott.ssa Giuseppina Ruggero, per avermi consentito di entrare in car-cere con il mio progetto, le educatrici, dott.sse Annamaria Raciti e Stefania Basilisco, per avermi sostenuta, incoraggiata, supportata e guidata nel difficile momento dell’ingresso in carcere, con le sue re-gole e le sue prassi. Ringrazio ancora tutto il corpo di Polizia peniten-ziaria, per la disponibilità e la flessibilità dimostratami con spirito di accoglienza e simpatia.

Ringrazio ancora il direttore della rivista delle case circondariali di Chieti-Pescara-Vasto-Lanciano, Voci di dentro, Francesco Lo Piccolo, per avermi fatto conoscere, attraverso gli scritti dei detenuti e attra-verso le sue narrazioni e le sue svariate esperienze come volontario, il mondo interiore delle persone detenute.

Un ringraziamento anche ai miei studenti del corso di Ricerca pe-dagogica, a.a. 2015/2016, Corso di Laurea in Filosofia e Scienze del-l’Educazione dell’Università “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara, per aver accolto con grande entusiasmo la corrispondenza con i detenuti, mostrando interesse, sensibilità e capacità di riflessione su tematiche dove ancora regnano grandi pregiudizi e diffusi stereotipi.

E grazie a voi, cari detenuti, per il valore che avete dato a me co-me persona e per l’importanza che avete dato al mio progetto, nel-l’umiltà di un incontro che ha portato a noi tutti uno scambio di ric-chezza e di comprensione reciproca.

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acrilico su tela (cm 50x70)

(Si ringrazia Carlo Di Camillo per la gentile concessione, testimonian-za luminosa e sgargiante di un fare artistico e creativo simbolo di cu-ra, di estetica e di bellezza).

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A poco più di quarant’anni di distanza dalla Riforma dell’Ordina-mento Penitenziario del 1975, dove si affermava per la prima vol-ta l’imprescindibile funzione rieducativa della pena, accanto alle più classiche funzioni retributiva e di difesa sociale, si avverte l’esi-genza di riflettere nuovamente sulla funzione rieducativa della pe-na, in ragione del fatto che essa, nel corso di questi quattro decen-ni, non sempre si è dimostrata capace di tradursi fattualmente nel-la realtà penitenziaria, a causa di un insieme di fattori critici che caratterizzano l’istituto del carcere. La necessaria ri-problemati-cizzazione del concetto di rieducazione penitenziaria, dovuta alla sua imperfetta attuazione sul piano empirico, come testimoniato dalla gran parte degli esperti a diverso titolo, volontari, educatori, direttori penitenziari, giuristi, sociologi, etc., va a inquadrarsi nel-la imprescindibile riflessione sulle funzioni delnel-la pena e sulnel-la ne-cessità di riconsiderare le prassi della rieducazione carceraria, che caratterizza per esteso tutto il lavoro prassico e teoretico della pe-dagogia penitenziaria, alla quale si affiancano anche le pedagogie della devianza e della criminalità.

Le cause del parziale insuccesso della funzione rieducativa del-la pena vanno ascritte a diversi fattori, non propriamente pedago-gici, fra cui il sovraffollamento, la mancanza di risorse, la scarsa at-tenzione della società civile e il rifiuto culturale della funzione rie-ducativa della pena a vantaggio di una funzione meramente afflit-tiva che hanno, di fatto, reso difficoltosa una corretta formalizza-zione sul piano empirico del lavoro di rieducaformalizza-zione penitenziaria.

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Senza volersi soffermare troppo sull’inadeguatezza del termine “rieducazione”, termine spesso osteggiato anche dai detenuti stes-si, i quali vedono nel concetto di rieducazione una specie di ritor-no all’infanzia che genera quell’infantilismo carcerario di cui so-vente vengono accusati proprio i detenuti, è essenziale recuperare il valore e il significato del termine, che non deve essere letto co-me lavoro educativo che dovrebbe servire a dare una “nuova edu-cazione”, partendo dal presupposto che la “precedente educazio-ne” abbia fallito il suo compito.

In realtà, il lavoro di ri-educazione in carcere, più che genera-re forme di infantilismo e di genera-reggenera-ressione allo stato infantile, si pro-pone di generare spinte propulsive a processi di responsabilizza-zione, consapevolizzazione ed evoluzione interiore personale ca-paci di rendere i soggetti attori protagonisti della loro vita diversa-mente intesa, fornendo spazi interpretativi, ermeneutici ed esi-stenziali costituiti da diverse categorie dell’esistenza. Ri-educare, allora, dovrebbe rappresentare quell’azione specifica e intenziona-le che mira alla capacità di indurre a “pensare il nuovo”, in termi-ni concettuali, ma anche, e soprattutto, in termitermi-ni di maturazione personale e di scelte soggettive traducibili in nuova vita, illumina-te da nuovi campi di consapevolezza e da nuovi slanci vitali.

Ri-educare significa, allora, anche intensificare e promuovere “il coraggio di cambiare”, di volgersi altrove, di cambiare direzio-ne e senso alle proprie esistenze, spesso distrutte dai loro stessi cri-mini, poiché delinquere non paga. Non paga mai, o quasi.

Tuttavia, nessun lavoro di rieducazione può aver luogo e sen-so senza che la sen-società civile, la cultura e le comunità non percor-rano lo stesso sentiero e la stessa intenzione. Rieducare significa, infatti, anche concedere nuove opportunità, concedere fiducia a chi ha sbagliato e ha compreso l’origine del suo male; “ri-educare” allora diventa possibile solo se vi è una società capace di “ri-acco-gliere” gli ex-detenuti, capace di favorire il loro “re-inserimento” e la loro “ri-socializzazione”. Il problema principale non è il car-cere, ma il “dopo-carcere”; alla domanda fatta a un detenuto in procinto di finire la sua pena: “Che cosa farai una volta uscito dal carcere?” mi sono sentita rispondere “E che devo fare? Devo cer-care un lavoro… e se non lo trovo devo per forza tornare a fare il mio mestiere”, ed io “Il tuo mestiere? Perché ti pare che si tratti

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di un mestiere?”, e lui, “Certo che è un mestiere, tu lo sai fare? No. Hai visto che è un mestiere che nemmeno tutti sanno fare?”, e poco conta che la breve conversazione sia finita con una frago-rosa risata liberatoria, buttandola sullo scherzo e sul motto di spi-rito. Il problema principale è e resta il dopo. E a niente sarà servi-ta la “ri-educazione” senza una “ri-accoglienza” sociale, perché si sa, nessuno vuole dare lavoro a un ex detenuto o a una ex detenu-ta, macchiati di colpe più o meno gravi, rei di aver superato i limi-ti imposlimi-ti dalla legge, dalla società, dalla coscienza.

Gli stereotipi sono duri a morire, specie quando si osservano i dati riguardanti le statistiche di recidiva, la maggior parte degli ex-detenuti torna in carcere dopo aver commesso nuovi reati. Allora lo stigma si rinforza, l’etichettamento si avvalora, la sfiducia si so-stanzia e la paura, quale emozione primaria, induce alla fuga o al-l’attacco. Un ex-detenuto resta criminale per tutta la vita. La lette-ra scarlatta è impressa sulla sua persona come un tlette-ratto indelebile o come una marchiatura a fuoco. Intimamente lo sappiamo tutti che è così. E sicuramente è anche un po’ così perché il carcere dav-vero fa fatica a “ri-educare”; i detenuti sono costretti in celle, spes-so spes-sovraffollate, hanno la classica ora d’aria e poi, nelle case cir-condariali che lo consentono, passano ore e ore a camminare da-vanti e indietro nei lunghi corridoi delle celle messe in fila. E con-tinuano a camminare anche dopo, una volta usciti dal carcere; al-cuni di loro, recidivi, mi hanno raccontato che, una volta usciti dal carcere, in una qualsiasi sala d’attesa o in un qualsiasi corridoio, loro prendono a camminare su e giù, su e giù, su e giù, su e giù. Ma bisogna camminare da detenuti, “non come i pazzi che costeg-giano il perimetro del corridoio! Bisogna fare avanti-indietro e non girare tutt’intorno al perimetro come i pazzi!”, e si rischia di impazzire, sì, di impazzire, di pensare ogni giorno le stesse cose, avvocati, colloqui, processi, giudici e tribunali, racconti di reati commessi, ogni giorno, e poi ancora, e ancora e ancora, pensieri ossessivi che originano nel carcere, spesso sconnessi dalla realtà, che crescono come funghi velenosi in menti appiattite dalla noia e dallo scorrere di un tempo lento e costante, inesorabile. Non ba-sta più leggere un libro, non baba-sta più parlare con qualcuno, non basta più dipingere o recitare. Non basta mai. Assetati di tutto, persino dei nostri incontri del venerdì, in cui per qualche

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momen-to si parla d’altro, si ride, si scherza, si piange anche a volte, si liti-ga anche, ma su qualcosa di “diverso”.

Ecco, questi saranno gli ex-detenuti che torneranno nel mon-do dei liberi. Rieducati? Non so, sicuramente diversi, cambiati, fe-riti, umiliati. Sì, perché per molti è quello che si meritano. Ma la categoria “detenuti” è così vuota e astratta, è capace solo di pro-durre euristiche, schemi veloci di interpretazione della realtà che servono a ridurre la complessità in una sola parola, “detenuti”, a cui concediamo la variante di genere “detenute”. In carcere trovia-mo persone diverse, storie diverse, vite diverse, anime diverse, na-zionalità diverse, religioni diverse, realtà sociali diverse, status di-versi, reati didi-versi, professionalità diverse, generi didi-versi, intelli-genze diverse: sono tutti raggruppati nella categoria “detenuti” e “detenute”, categoria che non dice assolutamente nulla, tanto vuota e assurda è la sua capacità di rappresentare la realtà delle persone che abitano il carcere.

Sul compito di riflettere sulle funzioni della pena e sulla realtà carceraria si è fatto carico anche il Ministero della Giustizia con l’istituzione, nel 2015, degli Stati Generali sull’esecuzione penale, voluti dal Ministro Andrea Orlando, in cui un insieme di esperti, fra cui volontari, educatori, direttori penitenziari, giuristi, sociolo-gi e architetti hanno lavorato per dare una nuova veste al carcere e alle funzioni della pena. La conclusione dei lavori, presentata nel carcere di Rebibbia il 18 e il 19 aprile 2016, ha prodotto un Docu-mento finale, la cui sintesi estesa è riportata nell’appendice di que-sto lavoro, in cui vengono tracciati i principi ispiratori e riforma-tori per una nuova Riforma penitenziaria. Nonostante l’amara considerazione circa il parziale fallimento della funzione rieduca-tiva della pena dal ’75 a oggi, gli esperti dei tavoli hanno riafferma-to e ribadiriafferma-to a gran voce l’assoluta imprescindibilità della funzio-ne rieducativa della pena, anche in ragiofunzio-ne della difesa e della si-curezza sociale.

In conclusione del Documento finale, consultabile sul sito del Ministero, si invitano gli esperti, gli enti formativi e l’intera socie-tà ad avviare un processo di comprensione della realsocie-tà carceraria vista e osservata dal dentro, nel tentativo di far comprendere che la rieducazione, insieme a un rinnovato impianto normativo fon-dato sulla giustizia riparativa, non implicano una riduzione del

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va-lore retributivo e afflittivo della pena, ma solo una più razionale riorganizzazione delle pene, anche per meglio garantire sicurezza sociale, insieme alla difesa e alla tutela delle vittime reati.

Efficace antidoto contro il pregiudizio, secondo quanto ripor-tato nel Documento finale degli Stati generali, appare essere pro-prio la conoscenza diretta della realtà carceraria:

“Nell’ottica di favorire una crescente sensibilizzazione del-l’opinione pubblica, sarebbe auspicabile che si riuscissero a moltiplicare le occasioni in cui la collettività possa avvici-narsi al carcere per conoscere di quale sordida e misera ma-terialità sia quasi sempre fatta la giornata del recluso, quan-to sia inesorabilmente lenquan-to il tempo dell’inedia, quanquan-to di-sperante e demotivante sia per taluni condannati l’impossi-bilità di sognare un domani degno di essere vissuto. «Biso-gna aver visto», ammoniva Calamandrei, prima di parlare di pena e di carcere.

La conoscenza avvicina sempre le persone e allontana le paure. Bisogna abbassare i “ponti levatoi” tra collettività e carcere in modo che l’opinione pubblica non lo percepisca più come una sorta di extraterritorialità sociale, un’encla-ve del male, del pericolo, della sacrosanta sofferenza”1. E ancora:

“Di fondamentale importanza nella formazione di una più matura consapevolezza del significato e della funzione del-la pena, poi, è riuscire ad avvicinare a questa tematica sin dalla più giovane età, soprattutto attraverso l’opera infor-mativa e forinfor-mativa della scuola, che potrebbe svolgere un compito prezioso ed insostituibile, tanto più efficace se istituzionalizzato attraverso intese tra Ministro della Giu-stizia e Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ri-cerca. Andrebbe prevista una specifica preparazione degli insegnanti al riguardo, realizzabile anche con il contributo

1 Stati Generali sull’Esecuzione penale, Documento finale, (2016), Parte ottava,

Una nuova cultura della pena, p. 101. Il Documento è direttamente

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2 Ibidem.

del volontariato e dell’Università, affinché promuovano momenti di riflessione con gli studenti per abbattere bar-riere culturali ed emotive e prepararli ad incontri a scuola o in carcere con persone condannate. Come meritorie esperienze dimostrano, è questo uno dei modi più efficaci per avviare i giovani a percorsi di legalità e offrire loro gli strumenti per andare oltre al fatto di reato e al dispositivo della condanna, per incontrare la complessa e dolorosa vi-cenda personale che vi è dietro”2.

A quarant’anni di distanza dell’importantissima Riforma peni-tenziaria del ’75 si riafferma, quindi, il valore assoluto della funzio-ne rieducativa della pena; nonostante i fallimenti, le chiusure e le difficoltà incontrate la rieducazione appare, ancora oggi, un fatto-re ineludibile e fondamentale che va ribadito con ancora più for-za e determinazione rispetto al passato.

Il mio lavoro in carcere con i detenuti ha avuto proprio lo sco-po di creare conoscenza e connessione fra il mondo di fuori, con le proprie idee stereotipate sul carcere e sui detenuti, con il mon-do di dentro, fatto di uomini e mon-donne diversi e non catalogabili in un’unica categoria. È stato un lavoro di ascolto e di comprensione che ha consentito la conoscenza di una realtà complessa fatta di bi-sogni, esigenze, vuoti e significati che difficilmente potevano esse-re compesse-resi esse-restando vilmente al di fuori. E stando dentro ho compreso ancora di più il valore della ri-educazione, intesa come opportunità, come creazione di spazi e momenti di riflessione fra detenuti su tematiche che esulino dai temi ossessivamente ripetu-ti in carcere e non soltanto come luogo in cui misurarsi con corsi professionalizzanti o esclusivamente di natura formativa. La riedu-cazione è, a mio modesto avviso, prima di ogni altra cosa, un pro-cesso di evoluzione soggettiva, personale e interiore che, vista sot-to altri punti di vista, spetta a ciascuno di noi, liberi o detenuti. Un corso di ceramica o da elettricista, di sartoria o di teatro, la scuola e l’alfabetizzazione, seppur importantissimi e imprescindibili, non bastano per produrre un reale, vero e autentico cambiamento

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in-teriore, ma per questo non tutti i detenuti sono pronti… e nemme-no fra nemme-noi liberi ne troviamo molti. Questa è l’umana natura.

Si raccoglie allora l’invito di Calamandrei a conoscere il carce-re dal di dentro per capirne la vera essenza e per capicarce-re che la rie-ducazione non è un palliativo che annacqua l’afflittività della pe-na. Rieducare significa far rientrare nella società persone cambia-te, persone consapevoli, persone alle quali può e deve essere offer-ta un’opportunità, e tutto questo non è altro che una pura e sem-plice azione di difesa sociale, unica garanzia di sicurezza e di be-nessere sociale. E se non vengono “ri-educati”? Consoliamoci con il fatto che nemmeno tanti insospettabili liberi incensurati lo sono; “educati” intendo.

Entrare in carcere mi ha consentito di rispondere alla doman-da Quale rieducazione? Una ri-educazione pensata e costruita sul-la base dell’ascolto dei bisogni e delle esigenze dei detenuti. Una rieducazione che sappia superare i limiti e le criticità fin qui incon-trate. Una rieducazione a misura di uomini, donne e minori che in carcere attendono un’espiazione di pena, ma anche un’altra op-portunità per spendere in maniera migliore la propria vita e il bre-ve tempo che ci viene assegnato.

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1 J. Cervellati, Pensieri ed esperienze di pedagogia emendativa, Cappelli, Rocca San Casciano 1951, p. 5.

1. Disagio, devianza, disabilità, criminalità, rischio: linee d’inter-vento della pedagogia emendativa

“Tutte o quasi le sventure che piagano l’umanità, hanno origine dallo spirito, o che esso, ottenebrandosi, abbia ne-gato all’uomo il suo volto dignitoso, o che esso, negandosi alla fede, abbia tolto all’uomo la possibilità di lottare con-tro le brute prevalenze della materia. Cause remote e pros-sime del suo dolore, traggono radice dallo spirito perché, immiserita che sia l’anima, annegata che sia nel caos o nel-l’assurdo del materialismo, l’uomo non è più capace di amare né se stesso né altrui, non è più in grado di credere al di là della morte, non è più atto a fare della sofferenza fisica un motivo di elevazione, non è più idoneo a metter-si ad un livello intellettivo, non è più responsabile di sé e precipita tragicamente nel baratro dell’animalità, del-l’istinto, della passione.

A ragion veduta dunque, gli educatori moderni si preoccu-pano dell’analfabetismo spirituale, grave oltre misura in molti strati sociali e non suscettibile di mitigazione in vir-tù dei vecchi farmaci scolastici, intesi a fornire gli strumen-ti del leggere-scrivere far di conto, ma non a illuminare le coscienze”1.

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2 Ibidem. 3 Ivi, pp. 9-10.

Jolanda Cervellati (1897-1966), nota pedagogista del secolo scorso, ha incentrato gran parte della sua opera pedagogica sui problemi relativi al recupero e al sostegno delle persone in stato di disagio, malattia mentale, disabilità e difficoltà. Come si evince dall’illuminate brano sopra riportato, la pedagogista intendeva la missione pedagogica ed educativa come un compito che doveva fare molto di più che formare alle conoscenze; ella lamentava l’as-senza di un presupposto spirituale e interiore alla base di qualsia-si altra acquiqualsia-sizione, denunciava il dilagante analfabetismo spiri-tuale e rilanciava il ruolo degli educatori visti ed intesi quali por-tatori di un imprescindibile spirito ricostruttore2, capace di

rico-struire alle fondamenta la missione pedagogica originaria e fon-dante, combattendo alla radice le origini del disagio e della soffe-renza individuale e sociale. L’accusa, non velata, che la Cervellati rivolge alla società riguarda essenzialmente l’egoismo di intere so-cietà le quali, impegnate nella loro sopravvivenza, escludono e ignorano, o creano sistemi di detenzione, che di fatto “risolvono” in superficie i problemi generati dalle società stesse.

“Bisogna convenire che la compagine sociale in genere, sti-molata da un salutare istinto della propria conservazione, poco si cura dell’individuo guasto e inutile al quale riserva la galera, il cronicario, il manicomio, senza domandarsi ab-bastanza profondamente il grado di responsabilità che le spetta, senza considerare che nella più parte dei casi un provvido intervento e sollecito, avrebbe evitato una cadu-ta, senza ricordarsi che molte volte il pane è la ragione pri-ma di tutte le vigliaccherie upri-mane. Che cosa ha fatto la so-cietà per questo sventurato? Quale aiuto gli ha offerto?”3. La pedagogia emendativa, secondo la Cervellati, è quella tipolo-gia di pedagotipolo-gia che mira al sostegno di coloro i quali mostrano dei bisogni particolari o delle difficoltà oggettive, essa ha il compi-to di consentire il recupero, lo sviluppo e l’elevazione dei soggetti secondo le loro capacità e possibilità. Essa ha, altresì, il compito di

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4 Ivi, p. 13. 5 Ivi, p. 25.

agire ad ampio raggio, convogliando al suo interno la società inte-ra, passando dall’individuo, alla famiglia e a tutto l’ambiente cir-costante, interrompendo e/o modificando la successione di cause ed effetti deleteri, e ancora,

“la pedagogia emendativa si svolge in un campo del tutto soggettivo e rifugge dalla generalizzazione. Come dunque può esistere una legge e un principio per ciascun indivi-duo?”4.

Metodi, regole e principi pedagogici e didattici, devono dun-que sempre considerare la specificità di ciascun individuo, che presenta differenze sia sul piano mentale e cognitivo, sia su quello affettivo ed esistenziale; per ottenere una maggiore capacità di comprensione è necessario formare gli educatori a un eclettismo concettuale e disciplinare in grado di attingere dalle varie e diver-se ramificazioni del sapere, quindi pedagogia, psicologia, neurolo-gia, socioloneurolo-gia, psicopatoloneurolo-gia, al fine di amplificare la percezione dei fenomeni e dei casi specifici.

Fra i principi illuminati della pedagogia emendativa la Cervel-lati include: l’amore incondizionato per gli altri; la dedizione verso scopi eletti e giusti, quali il miglioramento della società; lo studio e la continua ricerca della verità; la fiducia nelle possibilità dell’ap-proccio emendativo capace di compiere “prodigi” e di “aiutare i più tristi”; tenacia, costituita dalla paziente azione che contempla i fini e le sue ragioni; evoluzione, ovvero ascesa continua5.

Aspetto essenziale dell’attività pedagogica emendativa è la ca-pacità, da parte dell’educatore, di saper osservare i soggetti, inclu-dendo nell’osservazione globale anche lo studio dell’ambiente, delle abitudini e delle vicissitudini esistenziali che contribuiscono a determinare personalità ed eventi, specie quegli eventi e quelle reazioni spesso determinate dalla fuga dal dolore o dal turbamen-to; questa conoscenza approfondita del soggetto viene definita “anamnesi remota”, che studia il caso sia sotto il punto di vista

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6 Ivi, pp. 25-26. 7 Ivi, pp. 33-34.

dell’ereditarietà, sia dal punto di vista dei fenomeni ante e post na-scita. Secondo la pedagogista, inoltre,

“l’uomo fa della vita una serie continua di atti di difesa contro tutto ciò che lo turba, che lo emoziona, che gli dà sofferenza; questa sua stessa difesa gli porta per effetto i pochi momenti di piacere. Da ciò si deduce che la vita è una reazione al dolore e che la reazione è tanto più poten-te quanto più i mezzi sono validi. Ora se si considera che il dolore non si manifesta sugli uomini in un attimo, ma in una successione, in un susseguirsi di prima e di poi, cioè nel tempo, si conclude che tempo e dolore sono la stessa cosa e che la difesa dell’uomo contro il dolore è difesa del-l’uomo contro il tempo”6.

Il dolore, allo stesso tempo, è quell’emozione fondamentale che avvisa l’uomo di una disarmonia, di un pericolo interno o esterno e, in qualche modo, esso si rivela indispensabile campanel-lo d’allarme per l’avviamento di tutte quelle procedure emotive e razionali in grado di fronteggiarlo nella maniera più idonea. So-vente, ambienti malsani o società che, come quella occidentale, in-neggiano alle forme più estreme di materialismo, depauperano la dimensione umana e spirituale dell’esistenza, conducendo gra-dualmente gli individui a sperimentare forme di frustrazione e di sofferenza che possono sfociare in comportamenti devianti o cri-minali:

“si tratta di una specie di organizzazione di cause degene-ranti, di un clima psichico, di un piccolo mondo materia-le: esso tanto sotto l’aspetto della disordinata abbondanza e del lusso irragionevole quanto della miseria e della im-moralità, accoglie il bambino con mille insidie e lo sospin-ge, […], al pervertimento, all’arrangiamento illecito, al pauperismo spirituale, all’inganno, alla frode”7.

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Di contro, alla facilità del giudizio, sia sociale che giuridico, si contrappone la considerazione su quanto la società stessa e i suoi Istituti abbiano mancato nell’opera fondamentale di prevenzione, abbandonando gli individui a se stessi, ai propri dolori, alle pro-prie solitudini.

Essere concretamente impegnati nella pratica della pedagogia emendativa comporta la necessità di saper conoscere i soggetti e le loro realtà; questo presuppone una certa familiarità con discipline psicologiche, antropologiche e sociologiche in grado di inquadrare il soggetto sia dal punto di vista psichico che sociale e culturale.

La pedagogia emendativa, in ambito penitenziario, non può che partire dalla considerazione e dall’interpretazione del concet-to di devianza, intesa come fuoriuscita dai binari delle regole e del-le del-leggi socialmente e giuridicamente imposte; condotte ritenute devianti sono quelle che, in qualche modo, tradiscono il patto so-ciale posto alla base delle società, mettendone a rischio la loro stes-sa costituzione, sostenuta da coesione e da una generale percezio-ne di sicurezza sociale. L’origipercezio-ne delle società, infatti, ci viepercezio-ne de-scritta da molti pensatori, e in particolare da Hobbes, come un evento necessario al fine di garantire la sopravvivenza degli indivi-dui. In una delle sue opere fondamentali, scritta nel 1651, il Levia-tano8, partendo da un concetto negativo di natura umana,

caratte-rizzata da egoismo, esigenza di dominio, sopraffazione e bellige-ranza, Hobbes descriveva lo stato di natura originario come carat-terizzato dallo ius in omnia, ovvero il “diritto su tutto”, e dall’ho-mo homini lupus, in cui il più debole veniva costantemente sopraf-fatto dai più forti, e spiegava la necessità, avvertita dai singoli in-dividui, di fondare società organizzate per mezzo di un “contratto sociale” stipulato fra gli uomini secondo precise regole, leggi e strutture di funzionamento che garantissero la sopravvivenza e la sicurezza di ogni singolo individuo, al di là dell’esercizio della vio-lenza e della sopraffazione dei più forti. Nascono, così, gli ideali di “diritto” e di “giustizia”, il cui rispetto da parte di tutti rappresen-ta l’uscirappresen-ta dallo srappresen-tato di natura verso un sistema codificato garante

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9 Cfr. S. Freud, “Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte”, in Il disagio

della civiltà, Bollati Boringhieri, Torino 2001.

dei diritti e dei doveri di ciascuno, ai quali si unisce il “giudizio so-ciale”, talvolta non meno pesante delle sanzioni normative.

Questa concezione pessimistica della natura umana, bilancia e problematizza un’altra concezione altrettanto famosa e discussa, quella aristotelica, che vede l’uomo come animale sociale, contesta-ta anche dalla teoria delle pulsioni di Sigmund Freud, nella quale si riteneva che la costituzione delle società, al fine di garantire la si-curezza per tutti, avrebbe comportato la rinuncia e la rimozione degli istinti primordiali dell’uomo, istinti che non vengono sempli-cemente soppressi una volta per tutte, ma che permangono nell’in-conscio fino a quando non si ridestano in comportamenti più o me-no violenti, più o meme-no legalizzati come le guerre. In Considerazio-ni attuali sulla guerra e sulla morte del 1915, Freud analizza l’even-to guerra sotl’even-tolineando l’apparente civilizzazione della natura uma-na nelle società; la uma-natura umauma-na, secondo Freud, era stata solo for-malmente ed esteriormente civilizzata poiché lo sforzo costante nel controllo degli istinti primordiali e delle pulsioni, connaturate alla natura umana, solo difficilmente poteva essere mantenuto nel tem-po con una certa regolarità. In realtà, le pulsioni e gli istinti che l’uomo sacrifica in nome della “società civile” e dei vantaggi che in essa risiedono, conformandosi alle norme da essa poste per la so-pravvivenza e la pace civile, si ridestano in moltissime occasioni in-dividuali e collettive, come nel caso delle guerre9.

L’uomo è dunque un animale sociale o al contrario la sua natu-ra è natunatu-ralmente ostile, istintiva, antisociale e pulsionale come so-stengono Spinoza, Locke, Hobbes e Freud? Pur ritenendo la se-conda opzione quella più valida, anche in riferimento alle numero-se conferme empiriche nell’arco della storia, si comprende che ri-spondere a questa domanda non risolve la questione circa la neces-sità delle società, delle leggi e degli organismi deputati alle sanzio-ni. La società è, dunque e forse, il minore dei mali, e di essa, neces-sariamente e ineluttabilmente, gli individui hanno bisogno per ga-rantirsi il minimo di pace e di sicurezza che essa stessa promette.

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de-vianza, quale fenomeno che descrive una forma incoerente e ina-deguata di socializzazione, che agisce non in conformità dei fini delle società miranti al rispetto delle norme e delle leggi, compre-se quelle non scritte, all’integrazione e alla coesione sociale, si po-ne all’attenziopo-ne come fenomeno che riguarda la società intera, in quanto, il comportamento deviante non riguarda solo i protagoni-sti e gli attori del fenomeno deviante o dell’azione criminosa, ma deve riguardare al contrario l’intera società. Se in passato si cerca-va di intervenire sui soggetti devianti in maniera essenzialmente coercitiva e stigmatizzante, oggi le più moderne teorie pedagogi-che, psicologiche e sociologiche pongono l’attenzione sulla perso-na deviante, tenendo conto, come già illustrato dalla Cervellati, delle sue caratteristiche personali, della sua storia personale, delle sue visioni del mondo e dell’ambiente, al fine di poter operare ver-so un recupero della perver-sona non più identificata con il compor-tamento deviante o con l’azione criminosa.

L’esercizio della coercizione e della punizione, coadiuvate da espressioni ghettizzanti che definivano la sostanza dell’azione de-viante e dei devianti stessi, definiti come soggetti marginali che la società contribuiva a marginalizzare reiterando lo stigma e defi-nendo il concetto di “pericolosità sociale”, non risultano più aguati nella nuova visione preventiva e rieducativa dei soggetti de-vianti. Il controllo sociale viene, dunque, illuminato da teorie più moderne le quali invitano alla non stigmatizzazione, alla non esclusione e alla non marginalizzazione, sposando i concetti di re-cupero e di rieducazione come, peraltro, nei fondamenti della Ri-forma penitenziaria del 1975 che ha introdotto in carcere le figu-re dell’educatofigu-re, dello psicologo e dell’assistente sociale.

L’assunto che ha mosso la Riforma penitenziaria del ’75, le cui origini possono rintracciarsi nella Carta Costituzionale del 1947, nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo del 1948, nelle Regole Minime delle Nazioni Unite per il trattamento dei detenuti, 1955, riguarda la possibilità di concepire e attuare forme di riedu-cazione efficaci al fine di redimere e correggere i soggetti devian-ti, favorendo in loro un cambiamento prospettico delle loro visio-ni del mondo e aumentando, altresì, i loro livelli di consapevoliz-zazione interiore per mezzo del trattamento. Cambiare dunque è non solo possibile, ma anche utile e giusto nella misura in cui il

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soggetto deviante perde lo stigma10 di “deviante” per divenire

“persona” che ha compiuto azioni devianti e/o criminose. Questo il fine della moderna pedagogia emendativa, alla base della peda-gogia della devianza e della pedapeda-gogia penitenziaria, declinazioni di un medesimo problema di fondo, quello del disagio sociale e in-dividuale espressi nelle loro diverse forme, dalla violenza all’uso di droghe, dall’alcolismo alla depressione, dalla povertà alla rapina, dalla cultura materialista alla prostituzione minorile e quant’altro. A ben vedere, quindi, il problema della devianza è primariamente un problema che riguarda intere culture, portatrici di messaggi, di valori e di disvalori che possono contribuire al potenziamento o, al contrario, alla contrazione dei fenomeni devianti.

2. Dalla pedagogia sociale alla pedagogia penitenziaria: fra de-vianza e marginalità

Il fondamento epistemologico della pedagogia sociale si colloca al-l’interno di una concezione pedagogica che vede la società intera coinvolta in massimo grado nell’azione educativa e formativa dei singoli. Ogni attività educativa e formativa si rivolge certamente ai singoli, ma è inequivocabile il fatto che ogni singolo viva una stret-ta corrispondenza con la società e la cultura di appartenenza, con il contesto storico, sociale, economico e politico che lo determina e condiziona. Società sempre in continuo mutamento, cambia-menti valoriali ed etici, nuovi bisogni ed emergenze formative ri-chiedono alla pedagogia un costante sguardo rivolto alle dinami-che sociali emergenti nel tentativo di predisporre le più opportu-ne occasioni educative e formative, in liopportu-nea con le opportu-necessità con-tingenti che la società pone nei diversi momenti della storia.

La nascita della pedagogia sociale11è fatta risalire all’opera di

10 Un testo fondamentale che illustra le dinamiche del “divenire” devianti e del-la costruzione sociale e identitari dello stigma di “deviante” è quello di D. Matza, Becoming Deviant, tr. it., Come si diventa devianti, Il Mulino, Bologna 1976.

11 Sulla nascita e l’evoluzione della pedagogia sociale si veda M. Pollo, Manuale

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P. Natorp (1854-1924), filosofo tedesco neokantiano che con la sua opera fondamentale del 1898, Sozialpädagogik, diede un im-pulso considerevole a un’accezione della pedagogia in chiave so-ciale e contraria all’individualismo; sarà H. Nohl a intendere suc-cessivamente la pedagogia sociale come attenzione alla totalità dei bisogni nati in seno alla società, affinché possano essere offerte le risposte necessarie con una valenza assistenziale e riparatrice, as-segnando alla pedagogia sociale tre ruoli fondamentali: prevenzio-ne, aiuto e cura.

Oltre, dunque, a rispondere alle sempre diversificate necessi-tà sociali emergenti, la pedagogia riconosce alla socienecessi-tà un pote-re “educante”, nella misura in cui è la società stessa a trasmette-re e trasferitrasmette-re valori, visioni del mondo, ctrasmette-redenze, principi axio-logici e modi di vita che coinvolgono le scelte e le azioni indivi-duali, come nella definizione di pedagogia sociale offertaci da Aldo Agazzi:

“Chiamo “pedagogia sociale” la coscienza e l’opera di una società consapevole delle proprie responsabilità educative nei riguardi delle nuove generazioni, tali da fare di essa un soggetto educatore, una “società educante””12.

La composizione dinamica della società educante vede coin-volte le diverse agenzie formative, formali e informali, come fami-glia, scuola, enti, istituti, chiese, lavoro, gruppi giovanili, mass me-dia che insieme caratterizzano la società educante e danno la mi-sura dei compiti e degli interessi della pedagogia sociale13nel suo

complesso, analizzando e studiando categorie sociali definite co-me ad esempio l’infanzia, i soggetti marginali, le donne, la terza età e fenomeni sociali rilevanti come la devianza14, il disagio,

l’immi-12 A. Agazzi, “Una pedagogia al servizio dell’uomo”, in Pedagogia e Vita, 1, 2000, pp. 44-45.

13 Cfr. L. Pati, Pedagogia sociale. Temi e problemi, La Scuola, Brescia 2007; A. Gramigna, Manuale di pedagogia sociale. Scenari del presente e azione

educati-va, Armando, Roma 2003; S. Tramma, Pedagogia sociale, Nuova edizione,

Guerini e Associati, Milano 2010.

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grazione, il lavoro, la violenza giovanile15, il bullismo e altro

anco-ra.

Scriveva J. Dewey.

“Ogni educazione deriva dalla partecipazione dell’indivi-duo alla coscienza sociale della specie. Questo processo s’inizia consapevolmente quasi dalla nascita e plasma con-tinuamente le facoltà dell’individuo, saturando la sua co-scienza, formando i suoi abiti, esercitando le sue idee e de-stando i suoi sentimenti e le sue emozioni. Mediante que-sta educazione inconsapevole l’individuo giunge gradual-mente a condividere le risorse intellettuali e morali che l’umanità è riuscita ad accumulare”16.

Se, dunque, la società educante imprime la sua forza sugli indi-vidui, la riflessione costante sulle dinamiche sociali e sulle propo-ste valoriali emergenti induce a una costante problematizzazione che include anche la necessità di saper educare al pensiero critico, sottraendosi alle logiche del pensiero comune omologante, spesso foriero di derive morali ed etiche di rilevanza storica e sociale. “La pedagogia sociale come sapere, quindi, risulta essere oggi un sape-re interdisciplinasape-re e critico, guidato da una riflessione sul sociale e il suo «senso» è legato al fissare-intenzioni, le quali, però, devo-no decidere se porsi al servizio del sistema sociale oppure «fondar-lo» e oltrepassarlo, facendo valere come processo cardine proprio la formazione e la formazione di un soggetto integrato e critico al tempo stesso”17. Ecco perché la pedagogia sociale è anche una

pe-dagogia critica che riflette sui fini, sui mezzi e sulle realtà sociali in-citando a una visione libera e consapevole della realtà, non

omo-questione minorile, criteri di consulenza e intervento, Nuova Edizione,

Gueri-ni e Associati, Milano 2011.

15 Cfr. E. Elamé, Prevenire la violenza giovanile. Il contributo della pedagogia

so-ciale, Pensa MultiMedia, Lecce-Brescia 2012.

16 J. Dewey, Il mio credo pedagogico. Antologia di scritti sull’educazione, La Nuo-va Italia, Firenze 1954, p. 54.

17 R. Certini, “Tra pedagogia e società: quale legame?”, in F. Cambi, R. Certini, R. Nesti, Dimensioni della pedagogia sociale. Struttura, percorsi, funzione, Ca-rocci, Roma 2010, p. 29.

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logante, contraria al pensiero unico e al conformismo privo di ri-flessione. La riflessività18 è, dunque, una categoria fondamentale

della pedagogia sociale, chiamata a riflettere e a educare alla rifles-sione e al pensiero critico le nuove generazioni, per mezzo della narrazione di sé, del dialogo e dell’ascolto.

Sarà Franco Cambi a dare una delle più belle definizioni criti-che di una pedagogia sociale complessa, dialettica e problematica: “La pedagogia sociale conforma, socializza, integra e segue i mu-tamenti lenti della società. Ma essa sta anche dentro le tensioni e le contraddizioni del sociale. Abita presso le emarginazioni, fissa, nel suo agire, una società più “sana” e la pone in vista e la rende, in qualche modo, già attiva. La pedagogia sociale sta anche tra i rom, nelle carceri, nei centri di recupero ecc. e sente e ascolta e as-simila il dolore di quelle condizioni, il valore di un richiamo che da lì sorge, la tensione di una ricerca ulteriore, verso un’altra società che qui si accenna, almeno in auspicio. Così la pedagogia sociale anche dissente, si oppone, dà voce ai margini, inquieta l’Ordine e invoca una revisione della Legge”19.

Questa bellissima definizione rimanda a una maniera umana e profonda di vivere la dimensione sociale della pedagogia; il suo sguardo è dunque rivolto ai bisognosi, ai sofferenti, alle difficoltà e alle richieste di aiuto; si sostanzia nella sua relazione con il disa-gio, con il dolore, con gli emarginati, i detenuti, le vittime di un si-stema sociale escludente e cinico che inneggia ai valori del succes-so, del potere, della ricchezza lasciando nell’abbandono e nella frustrazione le fasce più deboli della società, quelle che non pos-sono resistere all’indottrinamento sui disvalori né con mezzi intel-lettuali, né con mezzi materiali. La pedagogia sociale critica quindi scuote l’Ordine quando questo è a svantaggio di molti e chiede il cambiamento della Legge, delle regole, degli imperativi laddove questi risultino inadeguati e ingiusti per fette consistenti di socie-tà e di individui.

18 Ivi, pp. 32-41.

19 F. Cambi, “Pratica sociale e/o critica della società? Un modello per gli opera-tori”, in F. Cambi, R. Certini, R. Nesti, Op. cit., p. 126.

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La pedagogia sociale s’interroga e si pone domande anche di ordine etico e filosofico, si domanda dei fini e dei mezzi, delle di-rezioni intraprese dalla società, forzatamente o per intime convin-zioni, si chiede in ultimo quale immagine di uomo e di società è più funzionale all’uomo stesso e alle società, indipendentemente dalle linee di tendenza e dalle consuetudini. L’approccio critico e problematico della pedagogia sociale rappresenta allo stesso tem-po un motore di adattamento e di cambiamento nell’ottica di una riflessione continua sulle condizioni sociali e individuali dell’uo-mo.

Gli ideali di uomo e di società, più giusta ed equa, muovono le riflessioni intorno a tematiche stringenti che richiedono diverse soluzioni e diversi approcci, come nel caso di uno degli ambiti più importanti della pedagogia sociale, ovvero la pedagogia della de-vianza e della marginalità, anche declinata nella più specifica peda-gogia penitenziaria, detta anche pedapeda-gogia emendativa.

Partendo dal presupposto che la costituzione delle società sia fondata nella considerazione di un ideale di corretto funzionamen-to fisiologico di tutte le sue parti, i fenomeni di devianza e crimi-nalità mettono in rilievo una disfunzione nel funzionamento stesso della società che richiede sforzi specifici di ripristino delle condi-zioni ideali. “Se vi è una fisiologia sociale – accettando la similitu-dine di una società come un organismo – vi è anche una patologia che riguarda uno o più organi. Il malessere sociale va pertanto considerato come una sintomatologia. La marginalità e la devian-za, tra i più gravi malanni di una società, non possono essere com-battute in sé. Vanno rimosse quelle disfunzioni organiche che af-fliggono il sistema e vanno reintegrate oppure rieducate le perso-ne”20, specie nel caso della devianza minorile, ambito che richiede

una forma di attenzione ancora più accurata in quanto, in misura maggiore che per gli adulti, l’atto del rieducare un minore aumen-ta ceraumen-tamente le possibilità di successo, sebbene non possa assur-gere a regola matematica.

Plausibilmente la condizione giovanile e adolescenziale

con-20 D. Izzo, A. Mannucci, M. R. Mancaniello, Manuale di pedagogia della

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sente di fare diverse interpretazioni sulle cause scatenanti compor-tamenti devianti e condotte criminali; la particolare condizione psico-fisica, le naturali dialettiche contro l’autorità, la ricerca di una propria identità di contrasto fanno sì che la situazione esisten-ziale del minore venga considerata attraverso un insieme di varia-bili condizionanti il fenomeno, che possono deporre a favore di un recupero positivo e di un reinserimento sociale favorevole. Fonda-mentale, nel caso dei minori, è la considerazione attenta di tutti i fattori di rischio che possono essere rintracciati in situazioni fami-liari disturbate (violenze famifami-liari, povertà), nell’insuccesso scola-stico, dispersione scolastica e abbandono precoce degli studi, de-viazione verso contesti devianti costituiti dal gruppo dei pari, con-dotte violente e antisociali, bullismo, etc. Lo scivolamento gradua-le del giovane verso condotte devianti avvalorate dal gruppo, spes-so poi comporta l’identificazione di sé come spes-soggetto deviante, ac-quisendo un’identità negativa che spinge alla determinazione di vere e proprie “carriere devianti”, un vortice di devianza dal qua-le difficilmente i minori riescono a uscire, invertendo il sistema di forze sociali e interiori che li governano.

La sensazione di disagio, la perdita, olisticamente intesa, di be-nessere è ormai assai diffusa sia nella popolazione giovanile sia in quella adulta; marginalità, straniamento, difficoltà di integrazione etnica, religiosa e culturale, contingenze economiche e politiche spesso fanno cadere la percezione esistenziale di ciascuno in un baratro chiamato angoscia di vivere, spesso accompagnata da una perdita di valori, di autorità, di principi e riferimenti etici, religio-si o normativi ritenuti incontestabili a cui è stato assegnato il me di nichilismo, per taluni la caratteristica fondamentale del no-stro tempo.

“Ai più la vita sembra semplice – scrive la Orsenigo –. Sponta-neo comportarsi secondo uno stile che lentamente scopri come il tuo, in un mondo in cui ti appropri giorno per giorno; insomma funzionare […] fino alla malinconia di lasciare questo ingranaggio familiare o alla gioia di chiamare altri a questa vita. Tuttavia capi-ta, non a tutti e non sempre, che tale flusso (vitale) venga interrot-to. Si inceppi, smetta di scorrere rassicurante e previsinterrot-to. È la mor-te prematura di un amico o di un familiare, la malattia irreversibi-le che dura, irreversibi-le difficoltà impreviste che ralirreversibi-lentano la corsa verso la

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mira da raggiungere o, semplicemente, la noia che ti assale, saturo di occasioni o di divertimento. Allora c’è la rabbia, per alcuni, op-pure lo stupore, per altri. […]”21.

La società dei consumi, del godimento, del divertissement pa-scaliano, del piacere e dell’apparire, dell’omologazione, del suc-cesso e del denaro, della fretta e della velocità produttiva quanto peso ha nella determinazione del disagio individuale e sociale? Certamente molto. Gli individui sono sempre più soli e sempre più incapaci di far fronte alle incombenze della vita; le mete, qua-si obbligate e imposte dalla società, sembrano sempre più distan-ti, gli ideali, spesso amorfi e ridenti come maschere di carnevale, sempre più deviati rispetto a un ordine valoriale giusto ed equo. Le relazioni si svuotano nella velocità e nella fugacità relazionale, gli amori si appiattiscono nel consumismo affettivo e nel voyeuri-smo 2.0, l’autenticità si annulla nella forma dell’apparire senza so-stanza, la riflessività si vanifica nell’assenza di domande sul senso del fare e dell’agire, sul senso dell’essere e dell’esistere, il senso su-blime del proprio senso del limite si frantuma in un’illusoria e de-leteria sensazione di onnipotenza al di là del bene e del male, nu-trita da una percezione di modernità e di progresso che si sostan-zia nella perdita di ogni valore ritenuto arcaico, desueto, privo di consistenza. Bisogna allora ripartire proprio dall’educazione, la rieducazione del pensiero, del pensiero critico e riflessivo, dal-l’analisi dei valori e delle proposte axiologiche vecchie e moderne, dall’avviamento di pratiche narrative e riflessive di educazione in-teriore.

Il principio pedagogico che guida la pedagogia della devianza, la pedagogia penitenziaria ed emendativa è proprio il principio del-la rieducazione; questo principio si poggia su un altro principio-norma posto come assoluto, ovvero l’educabilità e la ri-educabilità dei soggetti che cadono in una qualche forma di devianza o di di-sagio esistenziale e personale. “Rieducare non significa educare di nuovo o ripetere l’educazione già ricevuta, giacché ci troviamo di

21 J. Orsenigo, “Disagio ed esistenza”, in C. Palmieri (a cura di), Crisi sociale e

disagio educativo. Spunti di ricerca pedagogica, Franco Angeli, Milano 2012, p.

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fronte a soggetti la cui educazione è risultata deficitaria o fallimen-tare. Nel concetto di rieducazione è contenuto un agire educativo più intenso del solito: si tratta non tanto di adattare i soggetti alle norme quanto di aiutarli a ritrovare in se stessi le ragioni per cui è doveroso e opportuno rispettarle. È insomma un vero e proprio recupero sociale, da raggiungere entro una rete di relazioni e me-diante strutture di socializzazione”22. Se la parola emendativa

vie-ne dalla parola emenda, che vuole significare l’aziovie-ne correttiva, spesso con una implicazione penale, è bene ricordare come l’azio-ne propriamente educativa non mira all’emenda in senso stretto, campo specifico della procedura penale, ma alla correzione e alla rieducazione dei soggetti.

Attualmente, dopo la legge 354/1975 (Riforma penitenziaria), infatti, il sistema penitenziario prevede da un lato la funzione re-tributiva della pena, ovvero la necessità dell’espiazione proporzio-nata alla pena come vedremo nei successivi capitoli, dall’altro la funzione rieducativa e trattamentale della pena, che mira alla rie-ducazione, alla risocializzazione e al reinserimento dei detenuti post-delictum. L’approccio rieducativo mira alla considerazione delle caratteristiche individuali e soggettive dei detenuti, unita-mente alla valutazione delle condizioni esistenziali ante-delictum. Il modello riabilitativo prevede il contributo di diverse forze, educatori, psicologi e assistenti sociali, con il compito di favorire tale politica di rieducazione e reinserimento del reo. Esso contem-pla anche una maggiore alternanza fra il dentro e il fuori del car-cere, con una maggiore connessione con occasioni formative fuo-ri dal carcere e relazioni più strette con il terfuo-ritofuo-rio in modo da vi-vificare e rendere operativo un processo rieducativo caratterizzato da “una dimensione “formativa” che investa la globalità della per-sona e si qualifichi come momento di “frattura” rispetto all’espe-rienza di vita sino a quel momento conosciuta”23. L’approccio

22 D. Izzo, A. Mannucci, M. R. Mancaniello, Op. cit., p. 168.

23 M. Fratini, “Il senso del modello riabilitativo oggi”, in A. Turco, Anime

pri-gioniere. Percorsi educativi di pedagogia penitenziaria, Carocci Faber, Roma

2011, p. 62. Marzia Fratini è responsabile della Sezione attività trattamentali, Direzione Generale dei Detenuti e del Trattamento, Dipartimento Ammini-strazione Penitenziaria (DAP).

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educativo deve essere dunque inteso come “occasione per supera-re modelli comportamentali negativi, per riconoscesupera-re le proprie capacità e acquisire fiducia nelle proprie possibilità, per sperimen-tare nuovi modelli di relazione ma anche differenti modi di vivere le proprie emozioni mediante una riscoperta della propria sogget-tività”24da realizzarsi in una vera e propria comunità di

apprendi-mento.

L’approccio interiore, introspettivo, narrativo e autobiografico da lungo tempo avviato in ambito pedagogico con la vasta opera di Duccio Demetrio e non solo, e che rappresenta il filone di ricer-ca più importante di chi scrive, da tempo viene portato in auge per approcci educativi e formativi che investano il campo delle emo-zioni e dell’affettività anche, e soprattutto, in contesti complessi e difficili come il carcere, dove la progettazione educativa risulta an-cora più complessa e, per certi versi, decisiva.“Non si può, infatti, parlare di “riabilitazione” in assenza del riconoscimento della “storia di vita” del soggetto, del suo passato, degli aspetti qualifi-canti del suo presente e delle sue proiezioni sul futuro. L’esperien-za detentiva segna un momento drammatico ma anche significati-vo nella vita dei soggetti reclusi, all’interno del quale essi possono trovare attenzione e riconoscimento, da parte degli altri, in un contesto di ascolto e di accoglienza che tocca quegli aspetti di na-tura relazionale ed emozionale che offrono la possibilità di speri-mentare esperienze qualificanti, utili a una ridefinizione della pro-pria accettabilità sociale”25.

Progettazione educativa significa, altresì, garantire un modello riabilitativo diversificato e variegato nello spettro delle diverse op-portunità palesate nell’ambito dell’istruzione, della formazione professionale, della promozione culturale, delle attività ricreative nell’ottica di un apprendimento che dura che per tutta la vita (li-felong learning) e in tutti i contesti educativi e formativi, carcere compreso. Partendo dall’assunto secondo il quale tutti possiedo-no abilità, talenti, competenze e capacità più o mepossiedo-no possiedo-note e copossiedo-no- cono-sciute o palesate, il compito dell’azione educativa e ri-educativa sta

24 Ivi, p. 63. 25 Ibidem.

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nella sua capacità di portare a compimento le qualità intrinseche di ciascuno, avverando una sorta di trasformazione aristotelica dall’essere in potenza al realizzarsi in atto, enteléchia, creando al-l’interno del carcere un vero e proprio “spazio formativo”26

carat-terizzato da relazione autentiche, piacere di conoscere, libertà di espressione, promozione di un’attitudine critica e riflessiva e ride-finizione progettuale del futuro.

Per pedagogia penitenziaria si vuole, dunque, intendere quella particolare branca della pedagogia che si applica in contesto peni-tenziario. Essa, come la pedagogia generale e sociale, si avvale del contributo delle diverse scienze che possono avere una rilevanza nella gestione dei detenuti all’interno del carcere, come il diritto, la sociologia, la psicologica o la filosofia dell’educazione. L’ambito specifico della pedagogia penitenziaria riguarda gli aspetti relativi all’osservazione e al trattamento dei detenuti, unitamente all’impe-gno costante nei programmi di rieducazione.

L’intera logica trattamentale ruota intorno alla necessità di for-nire ai detenuti le occasioni e gli strumenti che consentano loro di ri-aderire al sistema di norme e di valori condivisi, consentendo la loro risocializzazione e il loro reinserimento futuro. Tutti gli inter-venti e le finalità del trattamento si fondono, come spiega Antonio Turco, educatore e responsabile delle attività culturali della Casa di reclusione di Rebibbia a Roma, “sull’insieme delle opzioni che vengono offerte all’individuo per aiutarlo ad assumere un nuovo atteggiamento di vita.[…]. I soggetti reclusi, dunque, in questa ot-tica, hanno imparato a non sentirsi più soltanto oggetti di una ana-lisi interpretativa dei loro vissuti e delle loro scelte precedenti, ma soggetti che “volontariamente” partecipano alla ridefinizione di un percorso”27, percorso reso possibile solo dall’identificazione

dei detenuti con tre fattori imprescindibili: “il riconoscere il pro-prio stato di bisogno, il desiderio di lavorare per cambiare la real-tà delle cose, la fiducia nei suggerimenti degli operatori”28.

Viene data grande rilevanza, a partire dalle indicazioni della

Ri-26 Ivi, p. 66.

27 A. Turco, Op. cit., p. 48. 28 Ibidem.

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forma del ’75, ai bisogni dei detenuti, alla loro detenzione guidata dai nuovi principi di umanizzazione della pena, alla rieducazione nella veste di una progettualità educativa fondamentale al recupe-ro dei detenuti.

I metodi e gli strumenti in possesso dell’educatore penitenzia-rio sono diversi e variegati, seppur aventi come obiettivo il favori-re processi di compfavori-rensione e di consapevolezza interiofavori-re, condi-zioni che possono garantire l’evoluzione personale e la capacità di esprimere diverse potenzialità sommerse e inconsapevoli. Fra i nu-merosi metodi29, Giampiero Sartarelli, consulente psicologo in

va-ri istituti penitenziava-ri e formatore presso l’Istituto Supeva-riore di Studi Penitenziari del Ministero della Giustizia, suggerisce: il me-todo autobiografico, psicodramma e onirodramma, gruppi di so-stegno e di aiuto-aiuto.

Tutti questi strumenti hanno in comune due aspetti, da un la-to aprono a una modalità di vivere il carcere come luogo di auten-ticità e di verità personali, dall’altro, aspetto estremamente rile-vante, è significativo il fatto che essi vengano impiegati in situa-zioni di gruppo, in cui essenziali diventano le capacità di condu-zione dell’educatore e dove ognuno, raccontandosi all’altro, vivi-fica processi di conoscenza di sé e dell’altro, risorsa preziosa per aumentare e accrescere il livello di comprensione e di auto consa-pevolizzazione.

In generale, parlando proprio della conduzione dei gruppi, si può dire con Sartarelli che: “La conduzione di un gruppo d’incon-tro o di un gruppo esperienziale, presuppone la capacità, da parte dell’operatore, di saper gestire le conflittualità interne al gruppo, di saper ascoltare le motivazioni profonde dei partecipanti e di fa-cilitare la comunicazione educativa. Una meta importante da per-seguire è quella relativa all’aumento di consapevolezza rispetto al-le proprie scelte di vita deviante, anche se a volte la ‘scelta’ è stata condizionata da eventi esterni alla persona. […]. Attraverso la conduzione dei gruppi esperienziali e di ascolto, e la creazione di una comunità penitenziaria educante, gli operatori prendono

vi-29 G. Sartarelli, Pedagogia penitenziaria e della devianza. Osservazione della

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sione dei bisogni sociali e della sensibilità umana che caratterizza la popolazione detenuta”30.

Laboratori di questo tipo, come quello condotto dalla scriven-te narrato nei capitoli successivi, inducono i descriven-tenuti a rifletscriven-tere sulla loro condizione presente, passata e futura, passo essenziale per una riprogettazione esistenziale e personale che renda vera-mente effettiva la rieducazione.

Essenziali per entrare in relazione con i detenuti è il concetto di empatia, che si sposa con la capacità di entrare nell’universo dell’altro attraverso la partecipazione, la comprensione e l’ascolto profondo che non possono essere acquisite come tecniche, ma che presuppongono un lungo lavoro personale per la conquista di una personalità empatica, scaturita dall’incontro con se stessi e con le proprie verità profonde, unica via d’accesso anche al mondo inte-riore dell’altro. La persona caratterizzata da personalità empatica sa riconoscere talenti, bellezze e qualità nell’altro, comprende i suoi punti di forza e di debolezza, è capace di aiutare e di sostene-re i soggetti nelle lunghe fasi di evoluzione personale ed esistenzia-le, percorso che, necessariamente, deve aver compiuto prima con se stesso, e soprattutto ha acquisito quell’atteggiamento non giudi-cante imprescindibile in tutte le relazioni d’aiuto.

3. Piero Bertolini e la pedagogia per i ragazzi difficili

Quando in ambito pedagogico si affronta il tema della devianza e della criminalità, uno dei riferimenti assoluti e imprescindibili è il pedagogista Piero Bertolini, intellettuale raffinato e sensibile a cui va il merito di aver illuminato, da un punto di vista pedagogico ed educativo, le realtà giovanili, laddove originano fenomeni di de-vianza e di criminalità, facendo una grande opera di sensibilizza-zione e di prevensensibilizza-zione. Sebbene il suo lavoro fosse, infatti, diretto alla condizione giovanile e in particolare ai fenomeni di delinquen-za minorile, i suoi studi e i suoi concetti possono essere assunti co-me cardini di una pedagogia capace di guidare la persona in un

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processo di formazione in cui dare risalto e attenzione a tutte le fa-si di vita dei soggetti, e certamente l’infanzia, la fanciullezza e l’adolescenza rappresentano i momenti più importanti, quelli in cui si vanno sedimentando le radici di ciascuna persona, anche freudianamente intesi, con il carico di dolore, sofferenza, disagio e angoscia che di norma si esplicano in età adulta.

Piero Bertolini apre il suo lavoro, Per una pedagogia del ragaz-zo difficile, dell’ormai lontano 1965, con delle parole introduttive di grande pregnanza, che ci aiutano a stabilire con alcuni punti fis-si le coordinate indispensabili e ineludibili che ci occorrono, anco-ra oggi e sempre di più, per entanco-rare nel mondo della devianza e della criminalità:

“Che il fenomeno della delinquenza minorile o più in ge-nerale e forse meglio […] il fenomeno delle varie e molte-plici difficoltà incontrate dal ragazzo e dal giovane nel pro-cesso del loro adattamento bio-psico-sociale, abbia assun-to proporzioni considerevoli o più giustamente abbia avu-to risonanze sociali mai prima riscontrate, non è giustifica-zione sufficiente al nostro presente lavoro. Né può esserlo, il pur lodevole desiderio di presentare ad un pubblico quanto più vasto possibile le linee fondamentali di una problematica ancor tanto ostica, con l’intento di contribui-re in qualche modo al necessario superamento della con-vinzione, che definiremmo psicologico-sociale perché mol-to spesso inconsapevole, secondo la quale i più credono che esista una ben chiara linea di demarcazione fra «noi» e «loro», fra gli «onesti», cioè, e i «delinquenti», i «catti-vi», i «poveri», ecc.

Ciò infatti ci avrebbe con tutta probabilità condotto ad una semplice accettazione, pur con una conseguente riela-borazione, dei punti di vista e dei risultati cui sono già per-venuti nei relativi campi molti studiosi delle più diverse scienze umane, […].

Dobbiamo quindi chiarire fin dall’inizio che le motivazio-ni profonde che ci hanno guidato nel corso di tutto il no-stro lavoro hanno una diversa provenienza; esse infatti si fondano da un lato sulla coscienza che anche in questo campo, dell’anormalità del processo di formazione, la pe-dagogia in quanto tale ha una sua specifica parola da dire, e dall’altro sul conseguente desiderio di contribuire ad un

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più meditato e dunque più valido inserimento della stessa pedagogia nella concreta opera di recupero e di riadatta-mento dei vari soggetti in difficoltà.

Chiunque abbia una certa dimestichezza con la bibliogra-fia dedicata al fenomeno in questione, non può non stupir-si dovendo constatare l’atteggiamento di sostanziale distupir-sin- disin-teresse mostrato dalla scienza pedagogica verso questa ca-tegoria di soggetti anormali, tanto più se pone mente al fat-to che essa al contrario ha affrontafat-to con originale profon-dità problematiche educative legate ad altre forme di anor-malità, come la deficienza mentale e l’insufficienza senso-motoria […]; mentre deve riconoscere la ricchezza di stu-di che affrontano il problema da altri punti stu-di vista, psico-logico, psichiatrico, psicoanalitico, sociopsico-logico, giuridico, assistenziale, ecc.”.31

Mentre spiega le ragioni del suo interesse per il fenomeno della devianza giovanile, Bertolini lamenta l’assenza quasi totale, in que-gli anni, di studi rivolti proprio all’indagine pedagogica di questo fenomeno, investigato diffusamente, invece, da altre scienze. Que-sta “assurda situazione culturale”32, come denunciata da Bertolini,

si riverberava anche in maniera pericolosa sul trattamento rieduca-tivo previsto per i ragazzi in difficoltà, gestito da educatori non op-portunamente preparati e spesso incerti sia sul piano teorico che pratico, costantemente alla ricerca di supporti provenienti da altre scienze, specie dalla psicologia. Da qui discende la seconda assur-dità rilevata da Bertolini, l’“assurdo equivoco”33che stabilisce,

im-plicitamente, che di questi casi si debbano occupare le altre scien-ze molto più della pedagogia. In realtà, fa notare Bertolini,

“se è vero che i vari e molteplici mezzi e metodi di cura e di trattamento dei soggetti che qui ci interessano non deb-bono essere unicamente pedagogici, è pur tuttavia vero che proprio questi sono gli essenziali”34,

31 P. Bertolini, Per una pedagogia del ragazzo difficile, Malipiero, Bologna 1965, pp. 5-6.

32 Ibidem. 33 Ivi, p. 7. 34 Ibidem.

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