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Gli incontri del venerdì I nostri pomeriggi in carcere

STORIE DI DENTRO PERCORSI NARRATIVI E DIALOGICI DI EDUCAZIONE INTERIORE

4. Gli incontri del venerdì I nostri pomeriggi in carcere

4.1 Il primo incontro… la conoscenza… i racconti… i sogni Il giorno 5 febbraio 2015, alle ore 12.30, in una bellissima giorna- ta di sole, mi recai presso la Casa Circondariale di Chieti per il pri- mo incontro con i detenuti. Nei giorni che avevano preceduto quel momento mi chiedevo più volte cosa fosse giusto fare per loro; mi domandavo che cosa avrebbero potuto gradire, cosa avrei potuto proporre a quelle persone, adulte, e un po’ indurite dalla vita e della vita in carcere. Il mio era diventato un pensiero fisso e assil- lante, volevo fare qualcosa di bello e di buono con loro, essere uti- le, generare un processo positivo, un incontro che potesse arric- chire noi tutti. Le idee erano molte, autobiografia, scrittura creati- va, teatro, cineforum, ma alla fine, come per incanto, ebbi l’im- pressione di aver trovato cosa fare: i sogni. La mia mente tornò a quella metodologia nota come social dreaming, metodo non tera- peutico di narrazione dei propri sogni all’interno di un contesto costituito da un insieme di persone, non necessariamente da un gruppo ben delineato.

Pur consapevole del rischio che stavo per correre, proponendo un’attività inconsueta, sebbene estremamente affascinante e accat- tivante, decisi quella mattina di recarmi in penitenziario con un’idea dominante, quella del social dreaming, senza abbandonare le altre possibili strade, comunque mantenute durante il laborato- rio in alternanza; desideravo intraprendere un percorso condiviso e partecipe, non imposto, pertanto decisi di incontrarli senza una proposta ben definita, anche se balenante nella mia testa. Volevo prima avere modo di respirare quell’atmosfera, capire gli stati d’animo, assaporare le loro reazioni alla mia presenza, volevo in sostanza capire il tipo di approccio per loro e per fare questo so- no arrivata a quel primo incontro con una sola parola d’ordine: au- tenticità. Senza troppi timori sapevo che un approccio veramente autentico mi avrebbe consentito di trovare sicuramente una strada attraverso la quale riuscire a entrare in relazione con loro. E così poi è stato. Ero tranquilla quando l’educatrice mi guidava fra i corridoi del carcere, le sbarre, le celle, i detenuti si trovavano sul mio lato destro, davanti a me la polizia penitenziaria, che di lì a po-

co avrebbe accompagnato i detenuti che avrebbero partecipato al mio progetto di educazione interiore. Una porta conduceva in un piano sottostante, una specie di segreta del castello, le cui pareti e porte erano state anni prima disegnate e colorate a pastelli da un ex detenuto, il quale nei suoi anni di detenzione aveva trascorso proprio su quel piano ombroso e umido gran parte del suo tempo. Qui trovo alla mia destra una piccola stanza adibita al taglio dei capelli, due aule con sedie e qualche banco, una biblioteca e una stanza usata da un detenuto per dipingere i suoi quadri olio su te- la o in acrilico, piena di tele, colori e pennelli, in fondo l’ingresso di una palestra… uno di quei quadri, scelto da me fra i tanti pro- posti, è gioiosamente e virtualmente migrato nelle prime pagine di questo volume.

L’educatrice mi invita a entrare in un auletta un po’ fredda e con le finestre coperte da pannelli colorati che davano all’am- biente una colorazione fra l’azzurro e il celeste; alcuni detenuti iniziano a sedersi davanti ai banchi, immediatamente provvedo a spostare i banchi e a posizionare le sedie tutte in circolo. Ci pre- sentiamo con una stretta di mano, prendiamo posto, io, l’educa- trice e una quindicina di detenuti, chiedo di poterci dare tutti del “tu” azzerando ogni formalità; inizio a parlare del mio lavoro, della mia qualifica universitaria, del mio filone di ricerca e da quel momento si avvia un dialogo ininterrotto e un po’ confuso con ciascuno di loro. Tutti, me compresa, mostravano il deside- rio di parlare, di domandare, di chiedere, la curiosità reciproca credo fosse tanta. Prendo a spiegare il perché del mio interesse per il contesto penitenziario, sottolineando l’aspetto rieducativo e risocializzante della pena, ma focalizzando l’attenzione sul- l’aspetto della formazione interiore dell’essere umano a partire dall’infanzia. Ho cercato di comunicare loro che il mio interesse nei loro confronti non era tanto diverso dall’interesse per i bam- bini o per i ragazzi incontrati nelle scuole nei precedenti proget- ti; il mio obiettivo era trovare i canali giusti per favorire proces- si di educazione interiore e conoscenza di sé in tutte le fasi della vita.

In brevissimo tempo avevamo già toccato diversi argomenti, tutti parlavano e i temi erano davvero tanti e tutti interessanti. Il clima mi sembrava perfetto, i detenuti erano tranquilli, curiosi e ri-

cettivi, decido allora di provare a osare facendo la mia proposta di social dreaming chiedendo loro:

“Sarei curiosa di sapere, fra le altre cose, com’è la vostra vita onirica in carcere. Da quando siete in carcere sognate di più o di meno? Ricordate più spesso i vostri sogni?”.

A questa domanda di ricognizione seguì un entusiasmo gene- rale, con tutti intenti a rispondere con una vivacità inattesa a quel- la semplice domanda! (Anche se poi in seguito venni a sapere che a qualcuno la proposta inizialmente non piacque molto!).

Alcuni riferiscono di sognare e ricordare molto di più, alcuni di non ricordare mai i loro sogni, altri ancora prendono a raccon- tare i loro sogni ricorrenti in carcere, altri a raccontare dei loro so- gni vissuti sempre da dietro le sbarre. Altri prendono a chiedermi aspetti legati alla fenomenologia del sognare, sui sogni premonito- ri, sul perché alcuni sognano tanto spesso persone del loro passa- to, o perché i sogni fossero brevi immagini, altri ancora sul possi- bile nesso fra sogni di una stessa notte. In pochi secondi quella piccola aula situata nelle “segrete” del carcere si popola di sogni, di emozioni, di paure, di sensazioni taciute e inespresse.

Faccio fatica a stare dietro a tutti quegli input, ma il tutto era estremamente bello e divertente; ho subito compreso che la strada dei sogni ci avrebbe consentito di fare un bellissimo viaggio insie- me. Illustro loro la mia proposta di social dreaming specificando che si trattava non di un approccio terapeutico e psicologico, (ap- proccio che i detenuti storicamente non gradiscono affatto!) ma di incontri di narrazione sociale dei sogni in cui l’approccio non sa- rebbe stato molto diverso da quello del raccontare il proprio so- gno la mattina al risveglio alla prima persona disposta ad ascoltar- lo, e precisando che non sarebbe stata l’unica attività svolta insie- me. Spiego brevemente la mia idea, trovando l’entusiasmo e l’ac- cordo dei presenti, distribuisco dei fogli e delle penne in cui avrebbero potuto trascrivere i loro sogni nei giorni a seguire e po- co dopo alla mia destra sento una domanda che mi colpisce mol- to, era del detenuto pittore, C.: “perché sei così interessata ai sogni di noi costretti?”. La parola costretti mi gela il sangue, mi fermo, guadagno l’attenzione di tutti e mi appresto a rispondere, non sen-

za avergli fatto notare che il termine che aveva scelto per definire la loro condizione mi aveva molto colpita e impressionata.

In primo luogo spiego che il mio interesse primario non erano i sogni, ma l’attività di rieducazione in carcere, come previsto dal- la Riforma del ’75; rieducare in carcere cosa doveva significare? Per me la rieducazione non poteva che essere e partire da un’edu- cazione interiore, cercando di ritrovare all’interno di sé spazi d’in- contro con se stessi, con la propria identità e con gli aspetti più po- sitivi di sé. Parlo del motto delfico “Conosci te stesso”, divenuto il motto socratico per eccellenza, e spiego che l’idea di un progetto sui sogni è successivo all’idea di un progetto di educazione interio- re in carcere. Spiego della mia difficoltà nel pensare per loro una strada giusta e opportuna rispetto alle loro caratteristiche umane ed esistenziali e alle loro condizioni oggettive e che mi venne in mente di usare i sogni, in quanto i sogni sono portatori di messag- gi molto utili alla vita se solo siamo in grado di coglierli. I sogni so- no l’espressione della nostra parte più profonda e più pura, della nostra parte più sapiente e per tali motivi lasciar parlare i sogni po- teva significare trovare canali più efficaci per una più profonda co- noscenza di sé, delle proprie paure e delle proprie angosce, ma an- che dei propri desideri e delle proprie speranze future.

Il sogno, nella sua atemporalità condensa presente, passato e futuro in un linguaggio simbolico di grande rilevanza per la vita soggettiva e, nello stesso tempo, il sogno raccontato dall’altro po- teva fungere da occasione per esprimere emozioni, pensieri, rifles- sioni e sentimenti per tutti gli altri, posta la comunanza psichica di noi esseri umani.

Alla mia sinistra, poi, un detenuto mi lancia una provocazione mista a una velata accusa, sostanzialmente l’accusa di essere lì so- lo per raccogliere materiale per le mie ricerche. Da un certo pun- to di vista aveva ragione, questo libro lo sto scrivendo grazie a lo- ro. Eppure sentivo che da quell’accusa dovevo in qualche modo difendermi, ma con il sorriso. Spiego loro che la mia ricerca con loro aveva una sola finalità, quella di risultare utile alle persone che erano state coinvolte nel progetto. Ho cercato, dunque, di precisare che il mio obiettivo era quello di essere utile a loro, co- me ai bambini o ai ragazzi che avevo incontrato in passato e che il senso del mio fare ricerca era quello di essere d’aiuto agli altri in

qualche modo, sebbene la pretesa e l’arroganza di poter aiutare gli altri da tempo non mi persuadeva più tanto, ma che però era viva in me l’esigenza e il desiderio di fare qualcosa di bello, di buono e giusto per gli altri, e che a mio avviso all’interno dei penitenziari ci fosse tanto bisogno di progettualità pedagogica ed educativa a fa- vore e a sostegno dei detenuti. Non so se le mie spiegazioni furo- no sufficienti quel giorno per superare quelle piccole diffidenze, di certo quello che avevo detto corrispondeva al vero e speravo alme- no che questo fosse risultato evidente a tutti i partecipanti.

Molti di loro erano papà, alcuni molto giovani, altri adulti sul- la quarantina, altri superati i cinquant’anni di età circa, fino ad ar- rivare agli ottant’anni e più. E sempre chi aveva mostrato diffiden- za, F., racconta un sogno…

“era come se non riuscissi a centrare il bersaglio… mia fi- glia era in macchina e stava morendo, stava soffocando e io non potevo, non riuscivo ad aprire la macchina per salvar- la. È stato un incubo, mi sono svegliato piangendo con la sensazione di stare soffocando”.

Gli spiego che forse la sua condizione di detenuto lo faceva sentire impotente di fronte ai pericoli che la vita potrebbe presen- tare alla piccola figlia, come se non potesse più proteggerla da quando si trova in carcere. Lui prova a negare, “ma no, non è que- sto, è che lei stava morendo…” ed io… “e tu non potevi fare nien- te”. Poi il silenzio.

Passarono i minuti velocemente, e mentre i sogni e i racconti si accavallavano fa il suo ingresso un detenuto, N. entra, inizia a par- tecipare alla discussione, ma quasi non fa in tempo a sedersi che si trova già a discutere animatamente con qualche detenuto, accusa- to di aver riso alle sue parole. Il fatto di aver riso alle sue parole fu ritenuto così grave da far scaturire offese e insulti ai suoi compa- gni, reazione che a stento sono riuscita a contenere, anche perché, poco dopo, la scena inizia a far ridere anche me e mentre gli chie- devo scusa, spiegandogli che non stavo ridendo di lui, ma che tro- vavo divertente quel suo modo burrascoso di entrare in relazione con noi tutti, si è piano piano calmato, ma non acquietato! Que- sto episodio mi ha fatto pensare alla facilità con cui in carcere si passa all’insulto e all’offesa, all’aggressione verbale vera e propria.

Nella vita di fuori, noi tutti facciamo una costante opera di “auto- controllo”, dandoci di norma dei limiti per precisi. Il senso di que- sto limite personale in carcere viene assolutamente sovvertito, manca sovente il controllo degli impulsi e delle reazioni e ciò che non è consentito fuori, pena l’esclusione sociale e l’emarginazione, in carcere diventa, o può diventare, la norma.

Vengono oltrepassati i confini che assegniamo ai nostri limiti personali, tanto da far sembrare quasi che essi non esistano più, come se in carcere tutto fosse consentito, l’impulso, l’offesa, l’in- sulto. Rieducare, allora, significa anche ricostruire il senso di un li- mite che era stato smarrito con il crimine e che in carcere cristal- lizza e sedimenta nel suo non-essere del limite, nell’esercizio del mio desiderio incontrollato, della mia rabbia, del mio impulso, della mia volontà di arrecare un danno in risposta a un’offesa, o presunta tale. La pena sancisce il superamento di un limite, il limi- te fra il lecito e l’illecito, fra il consentito e il non consentito; ma il senso del limite viene altresì posto dalla propria coscienza morale, dall’esercizio moralizzatore del nostro Super-Io in senso freudia- no, ci viene posto dalla società di riferimento, dalla cultura e dai valori e dalle norme sociali condivise, ci viene posto dalla famiglia, sovente, quando non si tratti di contesti disfunzionali, e solo in ul- timo ci viene posto dalle leggi e dalla giustizia. Ristabilire il pro- prio senso del limite è allora uno dei primi passi per una rieduca- zione che sappia riportare dietro al limite consentito azioni, com- portamenti e parole affinché i soggetti possano davvero essere ri- socializzati e reintegrati nella società.

Il problema della rieducazione carceraria, infatti, è anche e so- prattutto un problema sociale, in quanto alle persone, talvolta, non interessa il recupero di chi ha commesso un crimine, ma solo che sconti ogni secondo della pena che gli è stata comminata. La società smette di pensare ai “criminali”, “etichettati”, un attimo dopo che questi sono stati assicurati alla giustizia e finiti dietro al- le sbarre, senza comprendere l’origine del male, senza comprende- re le ragioni del male, senza considerare la possibilità di recupero. L’ideale di giustizia implicito nei progetti di rieducazione guarda invece proprio al recupero, che non riguarda soltanto i detenuti nella loro singolarità, esso ha anche lo scopo di ottemperare a una delle funzioni più importanti della pena, ovvero quella della dife-

sa sociale. La società è cieca se non comprende che il carcere, così com’è, fallisce il suo obiettivo di difesa sociale se, come dicono le statistiche, 7 su 10 tornano in carcere a causa di recidive.

Vorrei allora un carcere fatto di progetti educativi, un carcere fatto di cose belle, di occasioni per rivisitare se stessi e la propria vita in un altro orizzonte di senso, affinché una volta usciti, si pos- sa essere e divenire qualcosa di diverso e di migliore.

Esco circa due ore dopo, portando con me i loro sogni, i loro racconti, le loro vite, il loro tempo lì dentro, i loro volti, le loro emozioni. Nei giorni seguenti ero come rapita dal loro ricordo: mi tornavano in mente domande a cui non avevo fatto in tempo a ri- spondere, frasi che avrei voluto o potuto dire, frasi che avrei volu- to assolutamente dire come questa: “Voi non siete il reato che ave- te commesso. Siete molto di più…”, che mi ha risuonato nella testa per giorni. E mi ricordavo di quella mia risata di cuore tanto inop- portuna, ma che non ero riuscita a controllare e che ancora mi fa- ceva ridere! E poi del sogno che non avevo avuto il tempo di ascol- tare bene e delle storie che molti di loro non avevano avuto il tem- po di narrare e mi chiedevo come si possano fare sezioni di social dreaming con matrici anche di 40 persone. Esco, usando una me- tafora, con la sensazione di non aver dato loro il quantitativo d’ac- qua che occorreva per dissetarli; esco con la consapevolezza che tutte quelle lacune avrei potuto colmarle, in parte, solo sette gior- ni dopo. Un tempo che mi sembrava ormai infinito.

Il carcere lascia segni indelebili a chi vi entra, anche come vo- lontario. S’impara a conoscerlo, ci si porta dietro volti, storie, pa- role e dialoghi che risuonano a tratti e confusamente per giorni nella testa.

4.2 Dalla natura umana al senso del limite…

In data 12 febbraio 2015, alle ore 12.30, era previsto il secondo in- contro con i detenuti. Fecero il loro ingresso i detenuti del prece- dente incontro, con uno o due detenuti mancanti, insieme a loro si uniscono altri detenuti che in settimana avevano fatto richiesta all’educatrice di poter partecipare agli incontri. Dopo i saluti ini- ziali, ci disponiamo con le sedie in ordine sparso, senza una forma

ben precisa, evitando di formare un cerchio, come tipico nelle te- rapie di gruppo, e tenendo presente le diverse disposizione consi- gliate dai teorici del social dreaming che suggeriscono o una dispo- sizione delle sedie a spirare o a losanga. Volendo evitare una di- sposizione rigida delle sedie ho preferito adottare il sistema del- l’ordine sparso e dei posizionamenti casuali nello spazio.

Inizialmente chiesi ai detenuti se qualcuno di loro volesse fare delle osservazioni in merito all’incontro precedente. C. interviene dicendo che l’incontro a suo avviso era stato molto bello e produt- tivo e che, in fondo, i sogni rappresentavano solo un pretesto per avviare discussioni su tematiche molto interessanti che solo di ra- do i detenuti fra di loro intrattengono:

“Erano circa cinque anni che non mi capitava di fare di- scussioni su temi così complessi e interessanti, di un certo spessore. Qui in carcere parliamo, ma parliamo sempre delle solite cose. L’unica eccezione, fino a ora, in carcere è stata quella con il direttore della rivista “Voci di dentro”, con il quale anche capita di parlare di cose interessanti”. Prende la parola poi R. dicendo che per lui è bellissima l’occa- sione di poter parlare dei propri sogni, sogni che in qualche ma- niera consentivano di parlare di sé in maniera più profonda e inti- ma, sebbene non vi fosse alcuna intenzione terapeutica, e forse proprio grazie a questo uso sociale dei sogni. Detto questo inizia a raccontare il suo sogno, sognato durante i giorni precedenti. R. racconta:

“Era notte. Mi trovavo nella mia casa paterna con la mia famiglia. Io sono in salotto. Ad un certo punto sento dei rumori provenienti da fuori. Decido di uscire dalla finestra per andare a controllare fuori e porto con me un bastone. Vedo due persone, due malviventi di origini albanesi che riesco a mettere in fuga. Intanto la casa si stava ricoprendo di una schiuma nera protettiva, come un muro, un cappot- to, che serviva proprio a proteggere la casa dai pericoli esterni. Poi mi sveglio e il sogno si interrompe qui”.

Concluso il racconto del sogno chiedo agli altri di fare delle as- sociazioni al sogno appena raccontato. F. riferisce che si tratta di

un sogno che rivela le paure delle persone sui furti in casa e in ap- partamento che si stavano verificando ripetutamente nella zona. Quindi il sogno come paura reale per l’eventualità di fatti reali. Un altro aggiunge che nel sogno si trova anche la paura degli stranie- ri, i delinquenti per eccellenza, albanesi e romeni in particolare. Intervengo io un po’ divertita dicendo:

“Vedete come nei nostri sogni e nei nostri pensieri comuni i cattivi e i delinquenti sono sempre “gli altri”? Gli stranieri, i diversi?”,

pensando ai classici meccanismi di proiezione colgo anche l’oc-