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Un incontro informale “Lontano dal sole”

STORIE DI DENTRO PERCORSI NARRATIVI E DIALOGICI DI EDUCAZIONE INTERIORE

3. Un incontro informale “Lontano dal sole”

Il primo incontro avuto con le detenute e con i detenuti è avvenu- to in data 25 gennaio 2016, da un’idea promossa dell’educatrice Annamaria Raciti e dalla direttrice della Casa Circondariale di Chieti Giuseppina Ruggero, quando il laboratorio di pedagogia in- trospettiva e di educazione interiore incontra la presentazione di un libro, Lontano dal sole10, scritto dal teatino Paolo Miscia, ro-

manzo in cui si narrano le vicende di alcuni amici dediti da ragazzi a condotte devianti che alla fine finiscono in carcere, dove viene ambientato gran parte del romanzo, in un’alternanza fra il dentro e il fuori nella relazione fra mondi di vita dei detenuti e mondi di vi- ta di chi resta fuori, familiari, figli, mogli, fidanzate, mondi che, ine- vitabilmente, rimandano una diversa immagine della realtà.

Dal punto di vista fenomenologico, infatti, la prospettiva dalla quale si osserva il mondo, il punto di osservazione, rimanda un’im- magine della realtà sempre parziale e incompleta, così come avvie- ne a chi osserva la realtà dietro le sbarre di una prigione. Allo stes- so tempo chi osserva la realtà da un qualsiasi altro punto dell’uni- verso non potrà, allo stesso modo, che avere un’immagine parzia- le delle cose, relativizzata dalla possibilità di poter cambiare libe- ramente il proprio punto di osservazione. È proprio questo era il mio intento primario nell’iniziare questo percorso con i detenuti e le detenute, entrare all’interno del loro punto di osservazione per respirare la loro immagine delle cose e portando, nello stesso tem- po, la mia immagine delle cose, in uno scambio relazionale assolu- tamente paritario, in un confronto fra anime capace di donarsi qualcosa reciprocamente.

Il pomeriggio è trascorso fra letture di brani e riflessioni con- divise fra i presenti; sollecitati dalle domande e dalle osservazioni dei detenuti si è parlato di recidive e di etichettamento, “perché quando noi usciamo dal carcere, nessuno si fida più di noi e allora siamo costretti a commettere altri reati per vivere”, di resilienza; delle difficoltà umane e sociali che spesso portano gli individui a intraprendere azioni contrarie alle leggi, si è parlato ancora del

tempo vissuto in carcere, un tempo immanente, relativo, secondo lo psichiatra francese Eugène Minkowski11, che scorre più lenta-

mente o più velocemente in base alla condizione psicologica di ba- se, rispetto al tempo transitivo, quello oggettivo-cronologico del- l’orologio.

Per me, il tempo di quel pomeriggio, fu un tempo unico e bel- lissimo, speso nell’oceano della complessità umana. Se la vita con- siste anche nel dare pienezza e senso al nostro tempo vissuto, quel pomeriggio per me fu uno dei più intensi pomeriggi della mia vi- ta; un po’ perché entrare nel carcere lascia sempre la sua impres- sione, un po’ perché stare in compagnia dei detenuti e delle dete- nute, con quelli che la società e il sistema penale hanno voluto/do- vuto estromettere dalla vita normale di noi uomini e donne liberi, lascia profonde suggestioni, un po’ perché, a torto o a ragione, ero intimamente convinta del fatto di stare facendo qualcosa di buono per gli altri e anche per me stessa. Mi ero concessa, e mi era stata concessa, l’occasione di entrare in un territorio sconosciuto, che incute un po’ di timore, che lascia un po’ sgomenti nel guardare quei volti, alcuni belli, altri segnati, altri sofferenti, altri ancora con un barlume di gioia negli occhi, altri arrabbiati, tristi. Osservare nei loro volti un velo di timidezza, o forse di vergogna, nell’incon- trare i liberi, forse per il timore di essere giudicati, forse per il ti- more di essere rigettati, forse per la paura di far paura, come nei protagonisti di qualche divertente cartone animato dove ci si spa- venta per il timore di spaventare gli altri, forse per il timore di non essere accettati e compresi nella loro complessità umana, «non tut- to nero, non tutto bianco», come tutti, liberi e non.

Mi accorgo di aver costantemente usato parole come «paura» e «timore», e forse è proprio in queste che possiamo trovare la chia- ve per aprire un mondo troppo spesso governato da paure e timo- ri, sia dalla parte di chi sta dentro, sia dalla parte di chi sta fuori, sia, ancora, dalla parte di chi non è ancora dentro, ma che per pau- ra e timore di qualche cosa finirà dentro, proprio come quei cani, spesso innocui, che mordono per paura e difesa.

11 Cfr. E. Minkowski, Il tempo vissuto. Fenomenologia e psicopatologia, 1933, Ei- naudi, Milano 2004.

Ho voluto incontrare l’umanità di quelli di dentro, lontani dal sole. Null’altro. E molta ne ho trovata leggendo alcuni articoli scritti dai detenuti delle Case Circondariali di Pescara e Chieti nel giornale del carcere, Voci di dentro. E vi ho trovato non solo uma- nità, ma anche bellezza stilistica nella scrittura, espressione artisti- ca pittorica, intelligenza e profondità desuete nell’analisi dei pro- blemi sociali e delle vicende esistenziali dell’umanità intera.

Resto in attesa del primo incontro ufficiale previsto per il 5 feb- braio 2016 con qualche idea, tante sensazioni da portare e tanto desiderio di lasciarmi guidare da quello che per loro, e non solo per me, sarà l’essenziale. L’idea principe, in fondo, non è altro che avviare un’esperienza condivisa in cui poter costruire insieme un percorso che possa risultare significativo, utile e gratificante per tutti, avverando un ideale di vera reciprocità: «lasciare qualcosa in dono e ricevere qualcosa in dono».

Ma c’è ancora un’altra parola che mi piace introdurre oltre a «reciprocità» e si tratta della parola «rispetto». Bisogna entrare in carcere con rispetto, poiché qualsiasi uomo e qualsiasi donna, an- che se hanno sbagliato, non perdono il diritto di essere rispettati, da alcuno. E mi è venuta in mente la parola rispetto quando, dopo la domanda di una detenuta a me rivolta, prima di risponderle le chiesi: “Posso darle del tu?” (perché dare del tu alle persone? Per- ché preferisco accorciare le distanze piuttosto che creale con vuo- ti e sterili giochi di forma); a quella domanda seguì uno strano si- lenzio dell’uditorio e il volto sorpreso della detenuta la quale, do- po una lieve esitazione dovuta alla sorpresa, mi rispose: “ma cer- to… ci mancherebbe!”. E perché questo breve scambio avrebbe dovuto lasciarmi il segno che mi lasciato, se non per il fatto che, nell’istante in cui le feci la domanda, mi sentii quasi fuori luogo, forse perché a loro è mancato troppo spesso nella loro vita il rispet- to? Non sanno forse come ci si sente a essere trattati con rispetto? Non lo so.