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L’incontro con l’alterità

DI FORMAZIONE UMANA

1. L’incontro con l’alterità

Quando sogna l’uomo è “funzione di vita”, quando è desto egli fa “storia di vita”

L. Binswanger Sant’Agostino si contorceva. Ci sembra di sentire il suo pianto che gli grida nelle viscere, di vedere il sudore sulla sua fronte e di ascoltare il suo respiro affannato. Non riusciva a spiegarsi come mai, nonostante la fermezza del suo cammino spirituale, le imma- gini dei suoi sogni lo rendevano tanto diverso da ciò che voleva e sentiva di essere. Lo sentiamo urlare, disperato:

“E allora lì, nel sogno, non sono più io, o Signore mio Dio? Eppure vi è una così grande differenza tra me e me stesso nel giro di pochi istanti, in cui da sveglio cado nel sonno o dal sonno ritorno alla veglia!”4.

Il dubbio lo addenta e la contraddizione lo travolge: un nuovo sé voleva nascere, ma il vecchio stentava a morire. Da sempre, sep- pur variamente connotato, l’uomo ha avvertito, davanti ai propri sogni, quello stesso sentimento di alterità espresso da Sant’Agosti- no. Assurdo, incoerente, inevitabile, irripetibile, fonte di gioie o di terrori infondati, come lo definì Kafka5, il sogno, per linguaggio e

contenuto, difficilmente può essere ridotto o persino paragonato alle modalità tipiche della cosiddetta vita vigile. Per un altro gran- de narratore, Robert Louis Stevenson, la paternità dei sogni ap-

6 R. L. Stevenson, “Un capitolo sui sogni”, in R. L. Stevenson, Lo strano caso

del dottor Jekyll e del signor Hyde, Mondadori, Milano 2016, p. 249.

7 Ivi, p. 265. 8 Ivi, pp. 267-268.

9 J. Hillman, Il sogno e il mondo infero, Il Saggiatore, Milano 1989, p. 43 10 Ivi, p. 92.

11 Ivi, p. 57.

partiene a degli esserini che dirigono il teatro interiore dell’uomo6,

i quali non hanno nulla a che vedere con l’io quotidiano del sogna- tore perché, a differenza di quest’ultimo, non hanno la minima idea di ciò che chiamiamo coscienza7:

“Per la maggior parte i miei folletti, sarà chiaro, sono piut- tosto fantasiosi, simili alle loro storie ancora calde, pieni di passione e di senso del pittoresco, capaci di animarsi di vi- vaci incidenti, incapaci di aver pregiudizi nei confronti del soprannaturale”8.

Eppure, nonostante questa distanza, nel corso della propria vi- ta e del proprio percorso creativo, Stevenson riuscirà a stabilire un proficuo dialogo con quegli esserini animati da un intemperante slancio creativo, i quali avranno così un ruolo determinante nella sua attività di narratore. Pezzi di alcuni sogni, inoltre, saranno im- piegati come spunto per Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, uno dei romanzi più importanti e significativi sul tema del doppio e dunque sull’alterità, spesso contraddittoria, che ciascuno custodisce dentro di sé. Se nel sogno non siamo noi che parliamo e agiamo, ne deriva che anche il linguaggio è quello di un altro. Se- condo James Hillman, infatti, il sogno parla una lingua radical- mente opposta a quello della veglia. Tra il sogno e la vita vigile in- tercorre, metaforicamente, lo stesso rapporto che vi è tra il mon- do dei vivi e quello dei morti: il secondo è irriducibile al primo9.

Data questa incolmabilità, per Hillman, non siamo noi a dover agi- re sui nostri sogni, traducendoli, bensì dobbiamo trasformarci noi stessi, lavorando sulle modalità con le quali l’io si rapporta ad es- si10. Se il sogno parla per immagini, o è addirittura immagini11,

termina e cioè l’immaginazione, la quale non segue le trame della logica e neppure le direttive della legge di causalità e dei bisogni della vita pratica, ma agisce liberamente attraverso l’intuizione e il gioco delle corrispondenze12. Anche perché le immagini oniriche

non sono semplici simboli di qualcos’altro, ma sono delle vere e proprie metafore13. In quanto tali, come ci suggerisce l’analisi leo-

pardiana, esse hanno una duplice caratteristica: da una parte ser- vono a indicare cose nuove, o non ancora denominate rigorosa- mente14, dall’altra, invece, quando nascono dalla creatività perso-

nale del poeta possono rappresentare ed evocare più idee allo stes- so tempo15. La metafora è libertà proprio perché è quanto di più

contrario possa esserci dalla definizione, che stabilisce una volta per tutte la relazione tra l’espressione e l’espresso: essa è invece co- me un fulmine improvviso e inaspettato che si apre infinitamente alla molteplicità e alla novità. La metafora apre e non chiude. Nel passaggio dalla veglia al sonno è dunque tutto l’uomo che cambia e con esso ciò che lo caratterizza come tale, ovvero sia il suo lin- guaggio. L’uomo si trasforma:

“Una volta Chuang Chou sognò d’essere una farfalla: era una farfalla perfettamente felice, che si dilettava di seguire il proprio capriccio. Non sapeva di essere Chou, gravato dalla forma. Non sapeva se era Chou che aveva sognato d’essere una farfalla o una farfalla che sognava d’essere Chou. Eppure tra Chou e una farfalla c’è necessariamente una distinzione: così è la trasformazione degli esseri”16.

Questa trasformazione è necessaria e ineludibile perché, per natura, l’essere umano deve dormire e dormendo sogna: negarla sarebbe dunque un pregiudizio, nonché un’ingiusta limitazione. Quando siamo vigili e abbiamo di fronte a noi degli oggetti nello spazio, stabiliamo nei loro confronti un rapporto di dominio: at-

12 Ibidem. 13 Ivi, p. 56.

14 G. Leopardi, Zibaldone, Mondadori, Milano 2015, p. 918. 15 Ivi, pp. 1589-1590.

17 E. Fromm, Il linguaggio dimenticato, Bompiani, Milano 1994, p. 32. 18 M. Foucault, Introduzione a L. Binswanger, Sogno ed esistenza, SE, Milano

1993, p. 37.

19 Tertulliano, La testimonianza dell’anima, Edizioni Paoline, Roma 1982, p. 145.

20 L. Binswanger, Sogno ed esistenza, SE, Milano 1993, p. 121.

traverso il complesso delle nostre conoscenze e soprattutto delle nostre categorie siamo in grado, o almeno crediamo di esserlo, di contenere e indirizzare le reazioni che essi producono in noi. Nel sonno e nel sogno, trasformandoci, è proprio questo tipo di rap- porto che viene meno: diventiamo allora una farfalla e voliamo, senza sosta né appoggio, nell’aria vuota. Erich Fromm non può far a meno di rilevare che, proprio perché addormentato, il sognato- re si libera dalle incombenze pratiche nei riguardi del mondo e scioglie così i vincoli che gli impongono la società e la natura a lui esterne, per rivolgere l’attenzione al tessuto dei propri vissuti inte- riori17. Ed è in virtù di questo distacco che, in alcuni momenti del-

la sua storia, l’essere umano ha prestato particolare attenzione ai sogni del mattino, quando i fumi della digestione, quindi i richia- mi del corpo, si sono del tutto placati; perché il sogno

“è ricco [...] in ragione della povertà del suo contesto og- gettivo. Tanto più vale quanto meno ha ragione d’esse- re”18.

Allontanato dai pungoli del corpo, ma soprattutto dal regno della necessità, il sognatore vive nel pieno della sua nuova forma. E con questa trasformazione, che implica l’annullamento o la tra- sfigurazione delle facoltà caratteristiche della vita vigile, come la volontà19, si attiva nel sognatore un nuovo modo di esperire la sua

presenza:

“Qui, per esprimerci nei termini di Heidegger, la presenza è posta di fronte al suo essere; “è posta” nel senso che a es- sa accade qualcosa ed essa non sa che cosa e come le sta succedendo. Questo è il tratto ontologico fondamentale di qualsiasi sogno [...] Sognare significa: non so che cosa mi succede né come mi succede”20.

Il sognatore assomiglia a un naufrago in balia della burrasca. Nulla lo tiene legato a quel mondo al quale appartiene quotidiana- mente. Egli subisce gli eventi del sogno e, gettato inconsapevol- mente da una parte all’altra, è mosso esclusivamente dal fluire in- controllato delle onde. Allora gli capita di incrociarsi con ciò che è radicalmente altro da sé, come i simulacri dei defunti21, o con ciò

che lo sovrasta e lo determina, come i movimenti astrali22e le en-

tità del mondo sovrannaturale. Riapprodando poi sulla terrafer- ma, il naufrago non può evitare di chiedersi “perché mi succede proprio questo? E perché proprio a me? Perché questo sogno?”. Allora l’uomo, dice Kafka, sente l’ansia di comunicare i propri so- gni23, quasi cercasse nella comunicazione, nell’altro da sé, una ri-

sposta ai suoi interrogativi o semplicemente di condividere il suo stupore. Perché il sogno, per forma e contenuto, per la sua drasti- ca alterità, può non essere facilmente sopportabile. Suscita delle reazioni, pone delle domande e avvia un percorso, non certo co- modo e neppure lineare, che, non essendo dominabile da alcuna tecnica, può spaventare e disorientare:

“Il sogno m’impaura come un crepaccio, denso di confusi spaventi, inesplorato e immenso: da tutte le finestre l’infinito mi appare”24.

E allora, per contenere il peso di questa alterità e dell’ignoto, in molti casi, gli uomini hanno stabilito che il sogno fosse un te- sto da interpretare. In tal senso, il primo libro dei sogni, scritto nell’Antico Egitto25, e la tecnica interpretativa elaborata dalla psi-

coanalisi freudiana, nonostante la distanza temporale e culturale

21 V. Monti, (tr. it., di), Omero, Iliade, canto XXIII, Mondadori, Milano 1957, pp. 598 e segg.

22 G. Cardano, Sogni, Marsilio, Venezia 1993, p.52. Cecco D’Ascoli, L’acerba, Libro IV, La Vita Felice, Milano 2011, p. 83.

23 F. Kafka, Op. cit., p. 817.

24 C. Baudelaire, “Il baratro”, in C. Baudelaire, I fiori del male, Mondadori, Mi- lano 2010, p.307.

25 E. Bresciani, La porta dei sogni. Interpreti e sognatori nell’Egitto Antico, Ei- naudi, Torino 2005, p. 47: è il Papiro Chester Beatty III che, nel testo citato, può essere letto interamente.

che li separa, sembrano far parte entrambi di un medesimo atteg- giamento, il cui obiettivo, più o meno evidente, sta nel ricondur- re, attraverso una sicura metodologia, l’oscurità dei fenomeni oni- rici a un costrutto chiaro, coerente e persino utile, superando fi- nalmente l’inaccettabile disarmonia tra il sogno e la vita pratica. Il sogno, però, è per sua natura imprendibile e difficilmente può essere ricondotto a una teoria onnicomprensiva e tanto meno a un metodo buono per tutte le stagioni. Lo sapevano bene Artemido- ro e Macrobio che, tentando di diradare la nebbiosità dei fenome- ni onirici, dovettero riconoscerne l’irriducibile molteplicità26: nel-

le Metamorfosi di Ovidio, addirittura, i sogni sono rappresentati come “i mille figli – un intero popolo – del Sonno”27. Essi, posti

in un’altra dimensione spaziale, che sta a metà tra il mondo reale dei vivi e quello aereo dei defunti28, possono assumere le sem-

bianze e le tonalità più varie e inimmaginabili. A metà tra le cate- gorie della realtà e dell’apparenza, o al di là di esse, i sogni rap- presentano una sorta di interregno che può partecipare sia del- l’una che dell’altra categoria, oppure trascenderle entrambe. Da- ta l’indefinitezza e la diversità che li contraddistingue, essi, se in- terpellati e ascoltati, hanno la forza funesta di gettare nell’incer- tezza persino le categorie più consolidate dell’esistenza: ci si apre a un incontro radicale con l’alterità. L’uomo non poteva non sen- tire il peso di quest’alterità ignota che inquieta, che spaventa e mi- naccia le solide colonne del consueto. Gli antichi egizi avevano addirittura predisposto un’ampia gamma di metodi concreti per trattenere la potenza dei sogni cosiddetti molesti29, popolati spes-

so dai simulacri dei defunti, mentre l’uomo mesopotamico aveva l’accortezza di scaricarne a posteriori l’angoscia scrivendoli su di una tavola d’argilla per poi scioglierla nell’acqua, tanto da elimi-

26 Per le classificazioni dei sogni elaborate da Artemidoro e Macrobio, si veda: Artemidoro, Il libro dei sogni, Adelphi, Milano 1975 e S. F. Kruger, Il sogno

nel medioevo, Vita e Pensiero, Milano 1996, p. 47 e segg.

27 Ovidio, Metamorfosi, Einaudi, Torino 1994, p. 457.

28 I. Pindemonte, Odissea di Omero, libro primo, Canto XXIV, Bur, Milano 1961, p. 295.

narne per sempre persino il ricordo30. A turbare è soprattutto

l’arbitrarietà con la quale i sogni si manifestano innanzitutto e per lo più. Essi ci cadono addosso, come rapaci che piombano sulle spalle della preda inerte. Platone teme quella sconvolgente arbi- trarietà nel momento in cui rivendica il controllo preventivo del- l’anima razionale sull’attività onirica, particolarmente suscettibile alle influenze dell’anima concupiscente, la quale, nonostante sia una parte costitutiva dell’essere umano, è esecrabile perché con- traria alla legge morale che l’uomo ragionevole s’impone31. Allo

stesso modo, San Giovanni Climaco riconosce ai sogni l’unica e deleteria funzione di disorientare i novizi sulla strada verso Dio32.

Il sogno è soltanto un incidente di percorso al quale non va tribu- tata alcuna attenzione: “Colui che presta fede ai sogni è una perso- na del tutto priva di valore; chi invece non vi presta fede, costui sì che è un filosofo”33. Ma fino a che punto si può bloccare l’arbitra-

rietà del sogno e tacere la voce spontanea del dubbio? Perché questi sogni? Perché sono tanto contrari a quello che si è o si cre- de fermamente di essere? Sono domande che sconvolgono, per il loro potere, ambiguo e imprevedibile, di far crollare interi edifici abilmente costruiti. La giovane Bìblide, personaggio delle Meta- morfosi di Ovidio, sente su se stessa tutto il peso di quelle con- traddizioni che il sogno custodisce e produce. Segretamente inna- morata del fratello, ma incapace di ammetterlo a sé e agli altri, o forse senza nemmeno riconoscerlo:

“Quando è immersa in placido sonno, spesso vede l’ogget- to del suo amore; e le pare anche di unirsi fisicamente al fratello, e arrossisce, benché giaccia addormentata. Il son- no se ne va. Lei resta a lungo muta, ripensa a ciò che ha vi- sto dormendo, e tormentata dai dubbi fa questo discorso: “Povera me, che cosa vorrà dire questa visione nel silenzio

30 AA.VV., Il sogno e le civiltà umane, Laterza, Roma-Bari 1966, p.67; M. Man- cia, Il sogno e la sua storia, Marsilio, Venezia 2004, p. 16.

31 Platone, La Repubblica, libro IX, Laterza, Roma-Bari 1999, p. 292.

32 S. Giovanni Climaco, La scala del Paradiso, Edizioni Paoline, Milano 2007, p. 226.

della notte, visione che non vorrei si avverasse? Perché ho fatto questo sogno?”34.

I sogni le palesano l’indicibile e, scuotendola, la fanno brucia- re nel fuoco della contraddizione. Sospesa tra passione e ragione, tra sentimento e legge morale, capirà di trovarsi di fronte ad una scelta e, in ogni caso, saprà che dopo questa scelta nulla sarà ugua- le a prima. Il sogno, improvviso e indistinto, può scatenare, in un colpo solo e in modo vivido, le contraddizioni profonde che ani- mano il sognatore, chiamandolo a fare una scelta. È questo il caso di Raskolnikov, protagonista di Delitto e castigo di Fedor Dostoev- skij. Raskolnikov è un uomo malato, ma di una malattia strana, fi- sica e morale al tempo stesso: adducendo lucidi ragionamenti, me- dita di uccidere una vecchia usuraia ma, nello stesso tempo, non riesce a silenziare i suoi sentimenti di repulsione e di terrore. E al- lora:

“Quando si è malati, i sogni si distinguono spesso per un’insolita evidenza e vivezza e per la straordinaria somi- glianza con la realtà. A volte si forma una scena mostruo- sa, ma nello stesso tempo la situazione e tutto il processo della rappresentazione sono talmente verosimili e arricchi- ti di particolari così minuti, così inattesi ma artisticamente corrispondenti all’insieme del quadro, che il sognatore non potrebbe mai inventarli da sveglio, fosse pure un arti- sta come Puskin o Turgenev. Tali sogni, sogni malati, si ri- cordano sempre a lungo e producono una forte impressio- ne su un organismo sconvolto e già eccitato”35.

Il sogno di Raskolnikov è terribile. Tornato bambino, passeg- gia con suo padre e all’uscita di una taverna scorge un grande car- ro trainato da una cavallina smunta. All’improvviso, dalla taverna esce Mikolka e invita i suoi amici a salire sul carro. Ma la cavalli- na non può reggere il peso di tutti. Allora Mikolka e gli altri ini- ziano a frustare e picchiare la cavallina. Animati da un furore ai li-

34 Ovidio, Op.cit., p. 367.

miti dell’umano, finiscono per uccidere barbaramente il povero animale. Raskolnikov assiste indignato all’orrenda scena e cerca persino di impedire quello scempio: la rabbia gli ribolle dentro36.

Questo sogno lo sconvolge e Raskolnikov si convince che non sop- porterà di compiere un omicidio, nonostante i suoi ragionamenti. Egli è posto dal sogno davanti ad un bivio: essere Mikolka, ubria- cato dai suoi calcoli e dal suo sistema di pensiero, oppure essere quell’altro se stesso nel sogno, rifiutando di compiere un’azione ignobile della quale non può reggerne il peso. L’intera storia che segue, fino alla sofferta redenzione di Raskolnikov, sarà lo svilup- po di questa contraddizione fondamentale. Quello di Raskolnikov è anche un sogno di crisi. I sogni hanno, spesso, quella oscura ca- pacità di presentarsi nei momenti di crisi e, con una tonalità e un’intensità particolari, riescono a produrre una svolta. Succede questo a Padre Damien Karras, personaggio fondamentale del film L’esorcista (1973), il cui sogno fotografa e apre definitivamen- te la sua crisi spirituale, e al protagonista de Il sogno di un uomo ridicolo di Fedor Dostoevskij che, accecato da un estremo solipsi- smo di matrice nichilista e vicino al suicidio, grazie a un lungo so- gno ucciderà la sua vecchia identità ritrovando un rapporto rinno- vato con il mondo: lui ha visto la verità e, da allora in avanti, la sua vita sarà una costante ricerca e una convinta affermazione di quel- la stessa verità. Il sogno fa in modo che un’intera esistenza prenda una rotta completamente diversa: acquista così un valore mistico. Stando alle analisi di Michel De Certeau, infatti, alla base del- l’esperienza mistica c’è un vissuto straordinario che, improvvisa- mente, conduce “alla scoperta di un Altro, vissuto come inevitabile o essenziale”37. Questa esperienza, in virtù della sua forza, apre un

itinerario38: l’intera esistenza, con l’insieme dei suoi mezzi e dei

suoi fini, viene radicalmente ridisegnata, con l’unico obiettivo di comprendere in modo sempre più globale quell’Altro che si è fu- gacemente, ma intensamente, intravisto. I sogni, talvolta, hanno la forza necessaria per aprire un sentiero formativo di tal fatta e i per-

36 Ivi, pp. 65-71.

37 M. De Certeau, Sulla mistica, Morcelliana, Brescia 2010, p.58. 38 Ivi, p. 60.

sonaggi di Dostoevskij lo sanno benissimo. Ma possono anche mettere il sognatore davanti ai propri sensi di colpa, all’impossibi- lità di una redenzione e ai lati più miseri della propria anima, co- me succede a Svidrigajlov in Delitto e castigo39che pagherà con il

suicidio la terribile consapevolezza che i suoi sogni gli sbattono davanti agli occhi. Sospesi tra nascita e morte, tra rigenerazione e distruzione, i sogni abbattono delle barriere e bisogna essere pre- parati a sopportarne il peso. Se necessario, bisogna anche saperli controllare. In ogni caso, essi, però, sono in grado di dischiudere possibilità prima impensabili per il sognatore. A tal proposito, di- ceva Novalis che il sogno:

“ci insegna in modo eccelso la sottigliezza della nostra ani- ma nell’insinuarsi tra gli oggetti e nel trasformarsi allo stes- so tempo in ciascuno di essi”40.

Nel sogno e grazie a esso, si possono sperimentare, con la stes- sa intensità di un’esperienza carnalmente vissuta, altre modalità di essere. Si può vivere l’esperienza, funesta e dolce al tempo stesso, di essere altro da quello che si è o si crede di essere. Per l’iniziato- re della Terapia della Gestalt, Fritz Perls, tra l’altro, “ogni parte del sogno sei tu, è una tua proiezione”41. Il sogno contiene quelle par-

ti alienate della personalità, pezzi di sé che non vengono scorti o accettati, restando sulle soglie della vita consapevole42. L’obiettivo

di un percorso di formazione43sui sogni consiste proprio nel riap-

propriarsi, criticamente, di quelle parti dimenticate, al fine di ar- ricchire la propria personalità. Il sogno, quindi, va agito nuova- mente nel presente44 e usato, magari, come canovaccio per una

39 F. Dostoevskij, Op. cit., p. 585 e segg.

40 Novalis, citato in M. Foucault, Il sogno, Raffaello Cortina, Milano 2003, p. 37. 41 F. Perls, La terapia gestaltica parola per parola, Astrolabio, Roma 1991, p. 78. 42 Ivi, p. 86.

43 Ivi, p. 34: “Nella Terapia della Gestalt abbiamo un fine estremamente speci- fico, lo stesso fine che almeno verbalmente esiste in altre forme di terapia, in altre forme di scoperta della vita. Quello scopo è quello di maturare, di cre- scere”.

pièce in piena regola, interpretando tutti i personaggi dei propri sogni, sentendosi e riscoprendosi in essi:

“Nulla più che i vostri sogni è vostra opera! Materia, for-