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Il Sistema Sanitario Nazionale italiano: punti di forza e di debolezza di un modello spesso sottovalutato.

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Academic year: 2021

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Il Sistema Sanitario Nazionale italiano:

punti di forza e di debolezza di un modello

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A Neva e Bruno.

Ogni persona che passa nella nostra vita è unica. Sempre lascia un po’ di sé e si porta via un po’ di noi.

Ci sarà chi si è portato via molto, ma non ci sarà mai chi non ha lasciato nulla. Grazie di avermi lasciato una parte di voi.

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Indice

Introduzione Pag. 5

1. Breve storia dello Stato Sociale Pag. 9

1.1 Dall’età moderna a metà Ottocento 1.2 Lo Stato Sociale

1.3 Le politiche sociali tra le due Guerre 1.4 La costruzione del Welfare State 1.5 L’apogeo del Welfare State 1.6 Gli anni della Crisi

1.7 Gli anni Novanta e il nuovo Millennio

2. Sanità in Italia Pag. 49

2.1 Storia e principi del Servizio Sanitario Nazionale italiano 2.2 La legge 833/1978

2.3 Riforma sanitaria bis 2.4 Riforma sanitaria ter

2.5 La legge di riforma costituzionale 3/2001 2.6 Spesa sanitaria e tutela della salute 2.7 Le determinanti della spesa sanitaria

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2.9 Conclusioni

3. Sistemi sanitari a confronto Pag. 77

3.1 Salute e Sistemi Sanitari 3.2 Il sistema sanitario tedesco

3.2.1 Assetto istituzionale 3.2.2 Il modello organizzativo 3.2.3 La spesa sanitaria 3.2.4 Il sistema assicurativo

3.2.5 Valutazioni generali sul sistema sanitario tedesco 3.3 Il sistema sanitario americano

3.3.1 Sanità e istituzioni 3.3.2 Il modello organizzativo 3.3.3 Assicurazioni sanitarie private 3.3.4 Medicare e Medicaid

3.3.5 Il problema dei non assicurati 3.3.6 Spesa sanitaria

3.3.7 Valutazioni generali sul Sistema sanitario americano 3.4 Analisi e prospettive derivanti dal confronto

4. Conclusioni Pag. 115

Bibliografia Pag. 120

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INTRODUZIONE

La sanità rappresenta una metafora di certe caratteristiche profonde della civiltà contemporanea. L’aver reso internazionale il settore sanitario obbliga a una condivisione in tempo reale di informazioni e contenuti da una cultura ad un’altra e diventa vero e proprio strumento capace di creare condizioni per una società integrale ad alto livello di partecipazione collettiva. Il settore della tutela della salute è quindi divenuto significativo per comprendere lo sviluppo dei modelli di società in quanto la sanità nelle realtà contemporanee ha ormai superato il limite storico del rapporto medico-paziente, per interessare più settori dello sviluppo sociale, e inoltre lo studio dei diversi sistemi sanitari consente di conoscere meccanismi finanziari, giuridici, strutturali che possono essere introdotti in altri settori se ritenuti vantaggiosi.

Come vedremo il diritto alla salute è riconosciuto nell’ordinamento italiano come uno dei diritti fondamentali del cittadino ed è su questo presupposto che nel 1978 nascerà poi il Servizio Sanitario Nazionale che ancora oggi caratterizza il nostro paese.

Credo quindi che prima di vedere nello specifico i temi trattati in questa tesi sia necessario chiarire una distinzione fondamentale che ritornerà in molte parti del testo. Sanità e salute sono due concetti diversi, con storie ed evoluzioni diverse. I mezzi di informazione spesso portano i cittadini a confonderli creando immagini sovrapponibili. Questa confusione è un fatto recente, infatti fino a circa metà del secolo scorso sanità e salute erano due concetti nettamente separati anche nella

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percezione comune. Addirittura fino alla fine del 1800 l’apparato sanitario era visto da molti con sospetto, più un pericolo che un aiuto alla salute. Solamente nella seconda metà del 1900 la sanità è esplosa assorbendo risorse economiche che sono passate dall’1-2% del PIL a oltre il 10% in molti paesi industrializzati. Ora “l’esercito sanitario” è enorme e continua la sua espansione in termini di mezzi e di spesa.

Come abbiamo detto, è necessario ricordare che sanità e salute sono due concetti diversi: il primo infatti può essere definito come l’insieme delle procedure, delle risorse umane, strutturali e tecnologiche dedicate alla cura delle patologie e alla prevenzione; il secondo invece è una condizione relativa ai cittadini singoli e/o come popolazione.

In generale infatti sono molti e di varia natura i fattori che concorrono alla definizione del complesso rapporto tra questi due concetti: il livello delle conoscenze mediche e biologiche e la loro diffusione sono determinanti nel fissare qualità e livello della salute e dei Sitemi sanitari così come la politica dal momento in cui è lo Stato a fissare le regole generali e le principali azioni di settore; l’economia, dal momento che la sanità assorbe quote consistenti di Prodotto Interno Lordo di un paese; la tecnologia, in quanto i protocolli clinici e le strutture sanitarie sono caratterizzati in misura crescente dall’uso e da un’altissima concentrazione di tecnologie; ma anche lo stile di vita e le abitudini di un paese influenzano fortemente sanità e salute; la cultura e i sentimenti degli individui; l’informazione e la conoscenza dei propri diritti e delle proprie responsabilità nei confronti della salute; e infine la possibilità dei cittadini di scegliere in materia di propria salute, la libertà di scelta influenzerà sempre l’intero sistema obbligando la sanità ad abbandonare i tradizionali modelli autoreferenziali e a rapportarsi con la volontà, le scelte e l’opinione dei cittadini.

Come vedremo queste considerazioni, importanti soprattutto negli ultimi anni, hanno delle ripercussioni enormi sul governo dei sistemi sanitari e sue dinamiche, infatti se ci si concentra solamente sugli aspetti sanitari in senso stretto e si trascurano gli altri si rischia di produrre uno sforzo enorme con risultati modesti.

L’obbiettivo di questa tesi è quello di analizzare il tema della sanità coniugando punti di vista della visione sociologica con intuizioni che vengono dalla teoria economica.

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Ho deciso di articolare questo scritto in tre capitoli principali.

Nel primo capitolo ho cercato di ripercorrere le tappe fondamentali dell’evoluzione del Welfare

State nei principali periodi storici, dalla rivoluzione industriale, alla prima vera e propria stagione di

riforme sociali nel XIX secolo che hanno portato il cancelliere Bismark all’introduzione del primo schema di assicurazione obbligatoria in caso di infortuni, arrivando poi alla Grande crisi del ‘29 e all’affermarsi della Social Security, e infine attraversando gli anni gloriosi e la rapida ascesa del

Welfare fino a giungere al suo declino negli anni ottanta. Anche se brevemente, sono state analizzate

le difficoltà e le problematiche con cui si sta confrontando lo Stato Sociale a partire dagli anni ‘90; ho cercato inoltre di delineare le nuove caratteristiche che ha dovuto assumere per cercare di farvi fronte.

Il secondo capitolo rappresenta una sintesi dell’evoluzione del modello sanitario italiano, sono quindi citati gli interventi legislativi più importanti: la prima riforma sanitaria con la legge 833/1978 che finalmente garantisce il diritto alla salute di ciascun cittadino citato nella costituzione della Repubblica italiana del 1947; la riforma sanitaria bis con i Decreti legislativi 502 e 517 dei primi anni Novanta che hanno introdotto nel nostro sistema sanitario i principi di regionalizzazione e aziendalizzazione; la riforma sanitaria ter, con il D.lgs 229/1999, che ha enunziato l’importanza dei LEA per garantire la sostenibilità del sistema e la sua universalità; infine la legge di riforma costituzionale 3 del 2001 che ha rivoluzionato l’assetto istituzionale e le competenze organizzative del nostro paese.

In questo capitolo ho inoltre cercato di lanciare uno sguardo alla spesa sanitaria italiana e in particolare ho cercato di definire i suoi determinanti, la sua composizione e le principali difficoltà che si incontra nel suo contenimento.

Nel terzo capitolo ho cercato di raggiungere l’obiettivo che mi ero prefissata nello scrivere questa tesi, ossia ho tentato di dimostrare perché il modello del Servizio Sanitario Nazionale italiano rappresenta lo schema di copertura sanitaria più equo e efficiente.

Ho fatto questo confrontando il SSN con il servizio sanitario tedesco di tipo mutualistico e quello americano basato sulle assicurazioni private, e sono emersi tanto i loro aspetti positivi quanto quelli negativi.

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Mi sembra che questo lavoro possa contribuire a rafforzare la posizione del SSN. Nonostante le aspre critiche che ci vengono rivolte da chi ci considera come una mostruosa incarnazione di tutto ciò che può andare storto quando i paesi democratici a economia di mercato imboccano la strada dello statalismo e dell’assistenzialismo, io non credo che tale modello sociale sia superato. Al contrario penso che nelle sue versione più riuscite sia tuttora ineguagliato e non solo in base a criteri etici o valori politici, ma anche per la sua efficienza economica.

Sono gli altri paesi che dovrebbero imparare da noi ed è quello che cercherò di dimostrare nelle prossime pagine.

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1.

BREVE STORIA DELLO STATO SOCIALE 1

1.1 DALL’ETÀ MODERNA A METÀ OTTOCENTO

Nonostante si faccia risalire la comparsa dello Stato sociale all’ultimo ventennio dell’Ottocento credo che sia importante sottolineare che il suo sviluppo inizia con le grandi trasformazioni derivanti dalla nascita della società e e del sistema di produzione industriale . 2

Le pratiche assistenziali, ovvero le modalità con cui venivano gestiti i poveri e il fenomeno della povertà, erano inizialmente quasi interamente gestite dalla Chiesa e dagli ordini religiosi e presentarono solo con la secolarizzazione un carattere più laico.

I fatti storici accennati sono stati ricostruiti sulla base dell’anali combinata dei manuali F.Benigno,

1

C.Donzelli, C. Fumian, S. Lupo, I. Mineo, Storia contemporanea, Donzelli, Roma, 1997 e G. Sabatucci, V. Vidotto, Storia contemporanea: il Novecento,Laterza, Roma, 2008 a cui rimando per ulteriori

approfondimenti.

Il percorso di crescita e evoluzione dello Stato Sociale è stato ricostruito in questa tesi dal confronto tra i

2

testi di F.Conti, G. Silei, Breve storia dello Stato Sociale, Carocci, Roma, 2013; L.Gui; T.Casadei, I diritti

sociali. Un percorso filosofico-giuridico, Firenze University Press, Firenze, 2012, T.H.Marshall Cittadinanza e classe sociale, Laterza, Roma-Bari, 2002 riportati nella bibliografia a cui rimando per

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All’alba dell’età moderna nella mentalità comune la figura del povero ricopriva un ruolo fondamentale: la povertà era il simbolo di una vera e propria virtù secondo i dettami del cristianesimo perché da una parte avvicinava il povero alle indicazioni del Vangelo, e dall’altra permetteva ai ricchi di garantirsi la salvezza eterna traverso opere di carità.

Gli istituti che si occupavano dei poveri erano innanzitutto le Confraternite, sia di carattere religioso come gli ordini monastici o le Misericordie, sia di carattere più propriamente laico come le corporazioni e gli ospedali, ma un ruolo importante era svolto anche dalla beneficenza e dal filantropismo dei ceti nobiliari.

Questo modo di concepire la povertà cambiò radicalmente a partire da XVI secolo, con l’affermarsi della nuova etica protestante e le prime forme di capitalismo mercantile.

Con lo sviluppo della dottrina della predestinazione e quindi della considerazione del successo e della affermazione materiale come un indizio della futura salvezza.

La povertà divenne una minaccia per l’ordine sociale, furono infatti adottati provvedimenti che puntavano ad emarginare i poveri e a considerarli non solo un elemento estraneo ma addirittura perturbatore della pace sociale.

Non stupisce quindi che il pauperismo iniziò ad essere oggetto di misure legislative di contenimento e di regolazione, raggiungendo soluzioni con un rigido carattere repressivo e pesanti sanzioni per i trasgressori.

Uno dei casi più eclatanti in tal senso si verificò in Inghilterra sotto il regno di Elisabetta I dove fu varata nel 1601 tutta una serie di leggi denominata Poor Law volte a controllare e regolamentare il fenomeno della povertà.

La Poor Law attribuiva alle parrocchie il compito di gestire le politiche di aiuto agli indigenti e stabiliva che per poter usufruire dei sussidi era necessario accertare lo “status di povertà” del richiedente che si traduceva automaticamente alla disponibilità di quest’ultimo di accettare il ricovero forzato presso strutture apposite. Coloro che non erano in grado di svolgere alcuna attività lavorativa perché inabili ( i vecchi e i malati) erano destinati agli spazi di mendicità ( almshouses); al contrario coloro che erano in grado di lavorare prestavano servizio o all’esterno o in specifici istituti (workhouses); mentre coloro che si rifiutavano di svolgere qualsiasi attività lavorativa veniva internato in apposite case correzionali.

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Lo scopo di questo provvedimento era, da un lato, quello di garantire manodopera a basso prezzo, dall’altro quello di scoraggiare i ceti più deboli a ricorrere all’aiuto delle parrocchie.

In molti paesi i provvedimenti sul pauperismo seguirono la scia lanciata dall’Inghilterra e la maggior parte delle iniziative per fronteggiare la povertà rimasero nelle mani della “carità privata”. In un quadro economico e sociale profondamente modificato dalle dinamiche della rivoluzione industriale le strutture assistenziali e l’intero corpus normativo della Poor Law vennero messi a dura prova, evidenziando limiti e carenze che condurranno poi nell’Ottocento a una profonda revisione dei criteri di intervento dello Stato nella lotta alla povertà.

Nel corso del XVIII secolo, sempre nell’ottica di una crescente attenzione al fenomeno del pauperismo, si andarono diffondendo in tutta Europa istituti analoghi alla workhouses inglesi. Questi organismi non si rivolgevano unicamente ai poveri, ma guardavano all’intera e complessa sfera della marginalità e della devianza, nei confronti della quale si andava definendo un disegno più ampio di controllo sociale.

Si assisté quindi al progressivo declino delle forme di carità privata e al diffondersi di richieste di repressione del fenomeno della povertà da parte della società stessa che si tradusse in un ampliamento dell’intervento in questo campo dallo Stato.

A quest’ultimo si iniziò a chiedere di predisporre rimedi non solo di natura repressiva, ma anche volti ad assicurare il benessere dei cittadini.

Secondo le nuove concezioni illuministe, infatti, l’indigenza non era sinonimo di un male inevitabile, ma poteva essere combattuta e debellata eliminandone le cause di fondo e difatti molti paesi adottarono provvedimenti in questo senso: la Carta costituzionale degli Stati Uniti del 1788 stabiliva il diritto alla vita alla libertà e al raggiungimento della felicità; in Inghilterra il Gilbert’s

Act del 1782 attenuò fortemente il principio dell’obbligatorietà del ricovero nelle workhouses, che

iniziarono a ospitare quasi unicamente vecchi, malati e fanciulli; in Francia con la Costituzione dell’anno primo del 1793 si stabilì espressamente che la società doveva garantire espressamente “il sostentamento ai cittadini infelici, sia procurando loro il lavoro sia sia assicurando i mezzi per l’assistenza a quelli che sono nell’impossibilità di lavorare” 3

Altri paesi europei invece adottarono solo in parte questa visione di uno stato attivo e interventista nei rapporti sociali.

Conti, Silei, op.cit., p. 26.

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In Germania ad esempio le idee illuministe si tradussero in un rifiuto da parte dello Stato del benessere paternalistico e interventista e fecero sì che Stato e Società si sviluppassero in modo separato.

All’inizio dell’Ottocento l’aspetto di molte società ed economie europee si trasformò profondamente rispetto al passato.

Il processo di industrializzazione aveva investito appieno l’Inghilterra e con tempi e modalità differenti stava dilagando anche nel resto del continente.

In Inghilterra gli effetti delle masse di poveri sulla modernizzazione stavano provocando numerosi problemi e la filosofia che prevalse fu quella di un forte orientamento alla restrizione delle spese destinate alla lotta al pauperismo.

Uno dei temi più spinosi con cui si dovette fare i conti in questi anni fu la “questione operaia”, ma allo stesso tempo si assisté alla comparsa delle prime aggregazioni associative di matrice operaia che si distinsero già dal primo Settecento per il loro carattere mutualistico, questo si tradusse nella adesione da parte dei lavoratori ad un patto associativo che prevedeva un versamento periodico di quote, accantonate e poi utilizzate, a seconda delle finalità stabilite nello statuto.

Nel 1834 fu approvata la New Poor Law che sancì di fatto l’abbandono delle forme di assistenza esterna o domiciliare e un forte inasprimento delle misure di controllo sull’erogazione degli aiuti. Tali provvedimenti, uniti all’affermarsi dei principi del liberismo economico, portarono a una fase sia di progressivo disimpegno dello Stato dall’assistenza dei poveri sia di ulteriore sviluppo delle società mutualistiche.

Anche in Italia in particolare dopo il 1848 e la fine della prima guerra di indipendenza si ebbe un’iniziale diffusione di modelli di associazionismo popolare.

Le varie “società operaie” di connotazione liberale o mazziniana iniziarono a intervenire anche nel campo dell’assistenza che fino a quel momento rientrava nelle competenze della Chiesa, attraverso le Opere pie, e altri istituti di beneficienza.

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Quindi alla nascita del Regno (1861) il settore della beneficienza era supportato a un lato dalle Opere pie (vero perno dell’assistenza a livello locale) e dall’altro sulla rete delle associazioni private a carattere volontaristico.

1.2 LO STATO SOCIALE

Sul finire del XIX secolo in Europa si verificò un’intensa stagione di riforme sociali che ebbe come esito principale quello di affermare un nuovo ruolo dello Stato in tale ambito.

Il fatto principe di questa ondata di riforme va ricercato in Germania nel 1883 quando, a seguito di numerose discussioni sul tema, il cancelliere tedesco Bismarck stabilì l’introduzione di uno schema di assicurazioni obbligatorie in caso di malattia, rivolte principalmente ai lavoratori con bassi salari. Successivamente ampliate agli infortuni e alla vecchiaia, invalidità o morte del capo famiglia, queste disposizioni delineavano i tratti distintivi di quello che viene definito il primo vero e proprio Stato sociale moderno.

Quella che si andava delineando fu una forma di protezione sociale basata sulla partecipazione obbligatoria alle società di mutuo soccorso.

Le caratteristiche veramente innovative del modello bismarckiano vanno ricercate da una parte nella obbligatorietà attraverso la quale avveniva l’istituzionalizzazione delle assicurazioni occupazionali; dall’altra nel fatto che tali assicurazioni erano rivolte a soggetti specifici e avevano scopi più ampi rispetto a quelle puramente sociali; e altro elemento rivoluzionario va visto nel fatto che questi nuovi provvedimenti delinearono definitivamente la differenza, nell’approccio e nelle forme organizzative, tra la questione previdenziale, ossia quella che rientrava nella nuova disciplina sulle assicurazioni obbligatorie, e quella meramente assistenziale.

Ma il principio nuovo, che maggiormente determinò il successo del sistema delle assicurazioni obbligatorie bismarckiane in ambito europeo, fu la sua estensione a un ampio numero di beneficiari.

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Nonostante molti dei paesi europei seguirono le innovazioni apportate dal cancelliere tedesco, accanto al sistema delle assicurazioni obbligatorie e di quelle volontarie, un ruolo molto importante continuò ad essere svolto dal mutualismo.

Ad esempio in Italia si verificò un forte rafforzamento del settore mutualistico anche grazie all’approvazione nel 1886 della legge che sanciva il riconoscimento giuridico delle società di mutuo soccorso.

Ricapitolando si può quindi dire che alla fine dell’Ottocento in Europa, nonostante alcune differenze di paese in paese, sul piano delle politiche previdenziali il sistema di tutela si poggiava su due pilastri: quello delle assicurazioni occupazionali di natura pubblica e quello delle società mutualistiche di carattere privato.

Una differenziazione simile si presentava anche nel campo dell’assistenza dove era presente, da un lato, la carità legale evocata da istituzioni pubbliche facenti capo allo Stato e, dall’altro, la beneficenza privata.

In particolare in Italia il sistema della carità legale rimase sostanzialmente quello adottato all’indomani dell’Unità, per quanto riguarda invece la beneficenza, all’interno della quale rientrava l’operato delle Opere pie, mosse verso un progressivo ampliamento del ruolo dello Stato, inizialmente demandato a una funzione di controllo e coordinamento, e poi con un compito più propriamente di gestione e di intervento diretto.

Particolarmente importante campo fu quindi il provvedimento del 1890 adottato sotto il governo Crispi con il quale le Opere pie vennero trasformate in istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza (IPAB), sottraendole definitivamente al dominio delle istituzioni ecclesiastiche, ma anche l’approvazione delle nuove disposizioni contenute nel nuovo Codice penale e la legge sulla pubblica sicurezza del 1889.

A livello europeo, nel campo delle assicurazioni sociali, si registrò una progressiva estensione degli schemi classici di tutela a categorie di lavoratori che fino a quel momento ne erano esclusi, si deve però tenere presente che ne restavano pressoché totalmente prive le masse contadine, ossia la fetta più ampia della popolazione.

A cavallo tra i due secoli il moderno Stato sociale aveva ormai assunto delle caratteristiche ben precise: anzitutto, come abbiamo visto, la netta differenziazione tra previdenza e assistenza; altro

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elemento che favorì il successivo sviluppo delle politiche sociali è da ricercare nel fatto che le disposizioni previdenziali riconoscevano come diritto del lavoratore sia il salario che una adeguata tutela per una serie di rischi.

Le politiche sociali videro una nuova fase di espansione con l’inizio del Novecento a seguito di determinate scelte economiche, sociali e politiche .

La nuova stagione di riforme si aprì in Francia dove la “Repubblica radicale” approvò una serie di legge volte a rilanciare il processo di laicizzazione e di modernizzazione del paese.

Fu quindi adottata una serie di provvedimenti che puntavano da una parte a mantenere la pace sociale, e dall’altra a rafforzare il ruolo dello Stato nella previdenza e nell’assistenza.

In Italia, creatisi i presupposti per la sperimentazione di forme di collaborazione/competizione tra le forze liberali progressiste e i riformisti del socialismo, si assisté all’affermarsi di cambiamenti importanti: nel 1902 vennero approvate le nuove disposizioni sulla tutela del lavoro delle donne e dei fanciulli; nel 1903 fu approvato un disegno di legge sulle case popolari; nel 1904 fu redatto un Testo Unico sulle disposizioni in materia di infortuni sul lavoro; nello stesso anno venne approvato il Testo Unico sulle leggi sanitarie.

Sul versante delle politiche sociali invece i risultati conseguiti furono più modesti.

Alla vigilia della Grande guerra dunque tutti i paesi più sviluppati erano intenti nella creazione di sistemi di protezione sociale. Pochi mesi prima del conflitto mondiale la Svezia chiuse la stagione di riforme con la legge del 1913 con cui venne istituito uno schema pensionistico obbligatorio che puntava alla creazione di un sistema di assicurazioni nazionali di tipo universalistico

Da un confronto fra i principali paesi emerge un dato significativo, ovvero la graduale scomparsa, in determinati settori di intervento (infortuni, malattia/maternità, invalidità/vecchiaia/superstiti) del carattere volontario delle assicurazioni e la propensione verso schemi obbligatori, i quali necessariamente presupponevano un ruolo crescente dello Stato, da prima con la funzione di garante e poi di finanziatore attraverso la fiscalità generale.

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FIGURA 1.1 4

Spese per pensioni, beneficienza, sanità, sussidi a vario titolo in Italia (1912)

Altro aspetto da sottolineare fu la graduale estensione della copertura assicurativa non soltanto a tutti i lavoratori, ma anche ai loro diretti familiari, passando quindi dalle assicurazioni dei lavoratori alle assicurazioni sociali. Quest’ultime divennero schemi di tutela non più a carattere occupazionale e direttamente legate ai contributi versati, ma universalistico, rivolte quindi anche a coloro che, per vari motivi, non avevano potuto versare le proprie quote e per i quali quindi interveniva lo Stato, garantendo uno standard previdenziale di base.

Conti, Silei, op. cit., p. 69.

4 35% 39% 2% 3% 21% Opere pie SMS Casse nazionali Stato Amministrazioni locali

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TABELLA 1.2 5

Percentuale media della popolazione attiva coperta dalle assicurazioni contro infortuni, malattie, disoccupazione, invalidità e vecchiaia (1885-1915)

Come vedremo la prima guerra mondiale favorirà l’ulteriore espansione del ruolo dello Stato nel campo delle politiche sociali.

La risposta iniziale di tutti i paesi in guerra fu quella di intervenire da prima con un riordino a livello ministeriale delle strutture centrali e periferiche che si occupavano della gestione degli schemi previdenziali e assistenziali, e in seguito di attuare provvedimenti legislativi con i quali si estesero e si definirono meglio i compiti di questi nuovi soggetti istituzionali, e si ampliarono i beneficiari degli schemi di protezione sociale.

Paese 1885 1890 1895 1900 1905 1910 1915 Germania 9,8 24,5 41,0 40,8 40,3 44,5 42,8 Austria - 5,3 7,5 9,0 10,0 13,0 13,0 Norvegia - - 3,9 3,3 3,0 4,5 17,8 Svezia - - 1,0 3,3 9,5 11,8 37,0 Danimarca - - 3,8 10,5 13,8 25,8 30,8 Finlandia - - - 1,8 1,8 2,0 2,0 Belgio - - 0,8 3,8 14,8 17,5 17,5 Paesi Bassi - - - - 6,3 7,0 7,3 Francia - - - 6,8 8,5 12,8 11,5 Gran Bretagna - - - 9,8 9,3 17,5 36,3 Italia - 1,5 1,5 2,8 4,0 4,8 4,8 Svizzera 2,8 3,3 3,5 4,0 4,3 4,8 10,8

Conti, Silei, ibidem, p.68.

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Quasi in tutti i paesi belligeranti aumentarono gli interventi di tutela e di regolamentazione del lavoro femminile che aveva assunto un peso strategico a causa degli effetti provocati dalla mobilitazione sulla composizione della forza lavoro in molte aziende industriali.

Il periodo bellico sarà caratterizzato da una forte accelerazione dell’interventismo statale, che avrà pesanti conseguenze anche nell’ambito delle politiche sociali.

1.3 LE POLITICHE SOCIALI TRA LE DUE GUERRE

La Prima Guerra Mondiale determinò una crescita notevole dei provvedimenti a carattere sociale. Lo Stato si vide accresciuto il proprio ruolo di direzione e di indirizzo in quasi tutti i settori e si impegnò ad assicurare il benessere dei propri cittadini visti come una preziosa risorsa per la risoluzione del conflitto mondiale.

In particolare nel caso italiano vennero inizialmente adottate disposizioni a carattere straordinario e provvedimenti a tutela di specifiche categorie di lavoratori, e in seguito furono numerosi gli interventi riguardanti soprattutto gli invalidi e i familiari dei soldati caduti.

La principale novità fu rappresentata dal definitivo riconoscimento del ruolo sempre maggiore della figura femminile nell’economia produttiva del paese.

Al termine del conflitto, con l’obiettivo di gestire al meglio il passaggio da una economia di guerra a una di pace, agli schemi assicurativi già presenti nel nostro paese se ne affiancarono di nuovi a copertura del rischio di disoccupazione.

Una delle principali innovazioni fu però rappresentata dal passaggio definitivo dalle assicurazioni dei lavoratori a forme di assicurazioni di tipo sociale.

Nel primo dopoguerra molti paesi si orientarono verso il principio della copertura minima dei bisogni mentre i paesi dell’Europa scandinava e quindi Svezia, Norvegia, Danimarca e Finlandia e il Regno Unito si impegnarono nell’espansione dei sistemi di sicurezza sociale in senso universalistico.

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Il contesto generale europeo, nonostante una notevole espansione delle politiche sociali, fu caratterizzato da una fragilità di fondo dovuta principalmente all’instabilità politica ed economica del dopoguerra. Il contesto italiano ne fu un esempio ma non fu certamente un caso isolato.

A metà degli anni venti il quadro europeo era pressoché delineato: tutti i principali paesi si erano dotati di un sistema di protezione sociale incentrato su assicurazioni che coprivano le quattro principali tipologie di rischio ossia gli infortuni sul lavoro, malattia o maternità, invalidità/ vecchiaia e disoccupazione. Tali assicurazioni potevano essere a carattere facoltativo o obbligatorio; a copertura occupazionale finanziate attraverso il versamento di contributi e volte a tutelare in

primis i lavoratori, o a copertura nazionale/statale finanziate dallo Stato di ispirazione

universalistica che puntavano a garantire un reddito minimo a tutti i cittadini.


TABELLA 1.3 6

Percentuale degli assicurati contro gli infortuni, le malattie, la vecchiaia e la disoccupazione in alcuni paesi europei (1930-1940)

Il crollo della borsa di Wall Street nel 1929 e le sue conseguenze finanziarie ed economiche ebbero un effetto dirompente anche sui sistemi di protezione sociale dei paesi europei e innescarono un processo di revisione che portò all’approvazione di nuove politiche e nuovi strumenti di tutela.

1930 1940

Inf. Mal. Vecch. Disocc. Inf. Mal. Vecch. Disocc.

Austria 49% 59% 43% 34% - - - -Germania 75% 57% 69% 44% 88% 56% 72% 43% Francia 52% 32% 36% 1% 53% 48% 48% 1% Italia 53% 7% 38% 26% 53% 47% 39% 37% Norvegia 29% 56% - 4% 35% 86% 100% 38% Svizzera 39% 69% - 17% 34% 86% - 27% Gran Bretagna 68% 82% 82% 58% 71% 90% 90% 65%

Conti, Silei, op. cit., p.81.

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Dopo la Grande Crisi gli Stati Uniti del presidente Roosevelt sperimentarono, nell’ambito del New

Deal, un nuovo approccio conosciuto come Social Security, questo portò all’approvazione del Social Security Act del 1935, ossia una legge che proponeva uno schema di copertura assicurativa

obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia, per i superstiti e una indennità per i disoccupati.

Anche se la portata innovativa del Social Security fu sbalorditiva, il sistema di protezione sociale degli Stati Uniti mantenne comunque una connotazione residuale; inoltre, malgrado gli sforzi compiuti dall’amministrazione Roosevelt, il concetto di sicurezza sociale non riuscì a radicarsi completamente all’interno del paese e venne avvertito come un approccio quasi esclusivamente valido nelle situazioni di emergenza.

La crisi del 1929 mise in evidenza i limiti degli schemi di copertura presenti fino a quel momento: la disoccupazione di massa, la stagnazione e l’inadeguatezza dei tradizionali strumenti di lotta alla crisi richiamarono nuovamente l’attenzione sul ruolo dello Stato nell’economia e nelle politiche sociali.

Riprese vigore in questi anni un tipo di Stato sociale di tipo bismarckiano che in alcuni casi assunse un carattere corporativo-autoritario come accadde in Austria e in Italia fino a metà degli anni trenta, in altri invece un carattere ancora più totalitario come nella Germania nazionalsocialista, dell’URSS staliniana e nell’Italia fascista dopo la seconda metà degli anni trenta.

In Italia il fascismo non rappresentò una mera parentesi nella storia dello Stato sociale italiano nel campo delle politiche sociali, ma introdusse, nel quadro totalitario di cui si diceva, elementi di forte innovazione. In questi anni infatti venne prodotta un’opera di modernizzazione, che, sebbene imparziale e incompleta, modificò le istituzioni previdenziali, assistenziali e sanitarie che si erano debolmente formate nel periodo liberale. Si pensi infatti alla creazione dell’Opera nazionale per la protezione della maternità e dell’infanzia (ONMI) nel 1925; dell’Associazione nazionale per la prevenzione degli infortuni sul lavoro (ANPI) nel 1926; dell’Istituto nazionale fascista per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INFAIL) nel 1933, dell’Istituto nazionale fascista della previdenza sociale (INFPS).

Al contrario sul fronte dell’assistenza sanitaria, in mancanza di una riforma generale, le strategie adottate portarono a una moltiplicazione della frammentarietà delle Casse mutue categoriali e la

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creazione dell’Istituto nazionale per l’assistenza di malattia dei lavoratori (INAM), che aveva il compito di gestire l’assistenza medica, ospedaliera e farmaceutica su scala provinciale.

La Germania con l’ascesa del nazionalsocialismo vide il ritorno di un modello di protezione sociale alla Bismarck con una forte connotazione occupazionale.

Il nazismo cercò di trarre vantaggio dagli effetti devastanti della crisi economica che incisero inevitabilmente sui livelli delle prestazioni previdenziali e assistenziali e riorganizzò la struttura dello Stato sociale senza eccessivi vincoli di bilancio.

Il modello di riferimento che prese forma vedeva nella famiglia l’organismo dei base dello Stato al cui interno i ruoli erano nettamente definiti con il capofamiglia come breadwinner e la donna dedita alla cura dei figli e del focolare.

Nonostante il suo carattere totalitario, antifemminista e razzista il nazismo introdusse anche importanti novità come ad esempio gli assegni familiari o le agevolazioni fiscali per le famiglie.

È importante tenere presente che nel periodo fra le due guerre oltre allo Stato sociale di tipo autoritario emersero anche modelli differenti. Ad esempio lo Stato socialdemocratico si sviluppò principalmente nell’Europa del Nord, in particolare in Svezia, dove la la socialdemocrazia si fece promotrice di un sistema di protezione sociale volto a garantire tutela a tutti i cittadini.

In Gran Bretagna invece ebbero una forte risonanza le riforme degli Stati Uniti e in particolare modo la filosofia della Social Security.

Nel 1942 William Beveridge pubblicò il report sul Social insurance and Allied Services che rivoluzionò il principio di sicurezza sociale nel Regno Unito.

La social security del rapporto Beveridge infatti presentava due fondamentali differenze rispetto alla sua accezione classica: per prima cosa forniva protezione a tutti i cittadini in un’ottica di universalità della copertura e inoltre le prestazioni previste corrispondevano ad un minimo nazionale ritenuto indispensabile per condurre una vita dignitosa ed erano perciò indipendenti dai contributi assicurativi versati.

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Per fare una sintesi credo che sia necessario dire che il decennio 1929-39 rappresentò un intervallo decisivo per l’evoluzione delle politiche sociali in Europa.

Infatti tra il 1883 e il 1914 furono introdotti, ad opera dei vari governi nazionali, dei principali schemi di assicurazione sociale che, a partire dall’inizio del Novecento, si erano ormai consolidati: accanto al modello autoritario-conservatore di stampo bismarckiano ne apparvero di nuovi come quello liberale o liberal-democratico.

La grande depressione che mise definitivamente in crisi il modello liberale portò in alcuni casi ad un ritorno della formula assicurativa della Germania del 1833, anche se con le dovute correzioni e revisioni, e quindi a un modello di Stato Sociale corporativo/autoritario o propriamente totalitario. In altri casi invece emerse uno stato sociale socialdemocratico che si riproponeva, attraverso lunghe e tortuose riforme, di raggiungere i propri obbiettivi ideologici.

La nascita del principio della social security fornì un approccio alle politiche sociali che permise di fondere lo Stato liberal-democratico con quello socialdemocratico creando così il welfare state del secondo dopoguerra.

1.4 LA COSTRUZIONE DEL WELFARE STATE

Un deciso sviluppo delle politiche sociali si registrò a mio avviso nel secondo dopoguerra quando si cercò di unire la forte impronta universalistica degli schemi di protezione sociale con una concezione del ruolo attivo dello Stato in tale campo. Alla situazione di difficoltà economica e sociale che pervase l’Europa dopo il 1945 e che evidenziò l’inadeguatezza degli schemi di tutela vigenti si reagì con un nuovo approccio influenzato da una parte dai principi di sicurezza sociale e dall’altra caratterizzato da assicurazioni nazionali a connotazione universalistica e da una rete di servizi pubblici: il welfare state o “Stato del benessere”.

Le origini del welfare state vanno allora ricercate in quel processo di ridefinizione ideologica e programmatica che caratterizzò molte realtà europee dopo la grande crisi del 1929.

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Venne considerata superata la concezione bismarckiana di stato sociale che aveva caratterizzato la fase formativa di gran parte dei modelli nazionali perché ritenuta troppo particolaristica e frammentaria e inadatta a fronteggiare le problematiche sociali in tempi turbolenti di crisi e di ricostruzione.

La crisi finanziaria non fu però l’unico fattore a determinare la nascita di un nuovo tipo di Stato sociale. Su un piano più propriamente micro-economico l’avvento dei consumi di massa e la diffusione del sistema di produzione industriale di tipo “fordista” aiutarono a plasmare i contorni delle principali società occidentali;

i numerosi accordi che vennero stipulati in questi anni tra sindacati e organizzazioni degli imprenditori che introdussero elementi di concertazione nelle relazioni industriali sottolinearono la necessità del ruolo attivo dello Stato con la funzione di garante e promotore del confronto tra le diverse istituzioni di rappresentanza.

Si deve inoltre ricordare che nello sviluppo delle economie occidentali un ruolo fondamentale fu svolto da alcuni accordi internazionali come quelli di Bretton Woods e il Piano Marshall.

Fu così che tra il 1945 e gli anni cinquanta si andò costituendo e consolidando il welfare state, una barriera contro il passato, contro la depressione economica e il suo nefasto esito della politica estrema del fascismo e del comunismo.

Il welfare state nacque nel Regno Unito come una serie di provvedimenti sociali in risposta ai difficili momenti della guerra al nazifascismo quando, nel dicembre del 1942, William Beveridge propose un importante riassetto del sistema di protezione sociale ispirandosi alla legislazione sociale statunitense del 1935 e del 1939 e alle riforme approvate alla fine degli anni trenta dal governo neozelandese.

Nel rapporto Beveridge si teorizzava un deciso intervento dello Stato per garantire a ciascun cittadino la pienezza dei suoi diritti sociali attraverso la nascita di un sistema che lo seguisse “from cradle to grave”, provvedendo ad assicurare reddito, alimentazione, alloggio, istruzione e cure mediche.

Spinte rivoluzionarie simili a quella del Regno Unito interessarono anche l’Europa del Nord dopo la fine della seconda guerra mondiale. I sistemi di welfare elaborati in questi anni dai paesi scandinavi risentirono molto delle idee di Beveridge e presentarono numerose analogie con quanto stava facendo il governo laburista in Inghilterra.

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Nel 1946 infatti venne approvato il National insurance Act con il quale si mirò ad un importante riassetto del sistema previdenziale e assistenziale nazionalizzando il sistema pensionistico e fornendo una copertura di base universalistica contro i rischi di vecchiaia, morte, disoccupazione, malattia e maternità oltre che degli assegni familiari.

Altro fiore all’occhiello del welfare state fu la riforma dell’assistenza varata nel 1948.

Il fine ambizioso che questi paesi si prefiggevano con la creazione del welfare state era quello di garantire il benessere di tutti i cittadini.

Sulla scia dell’esperienza inglese un pò in tutta Europa si cercò di attuare delle revisioni dei principali schemi previdenziali e assistenziali.

Un esempio particolare delle conseguenze delle idee di Beveridge sui sistemi a connotazione occupazionale fu rappresentato dall’Italia dove, al momento della caduta del fascismo, il sistema previdenziale prevedeva schemi di copertura per pensioni, malattia e maternità, infortuni e malattie professionali, disoccupazione, tubercolosi e assegni familiari i quali però erano gestiti da una moltitudine di enti che facevano capo alle varie istituzioni INPS, INAIL, INAM.

La volontà di modificare lo Stato sociale si manifestò subito dopo la fine della guerra, la riforma della previdenza sociale presentata nei lavori della commissione d’Aragona, nonostante venne redatta in appena sei mesi, delineava un progetto fortemente innovativo rispetto al modello degli anni del fascismo, più in linea con la filosofia della Social Security anche se non raggiunse l’universalismo puro.

In Italia infatti l’opzione universalistica e il concetto di Social Security non si affermarono, si andò piuttosto consolidando quel fronte mutualistico che all’universalismo preferiva il particolarismo. Lo Stato sociale italiano continuò ad essere quindi caratterizzato da un’elevata frammentazione istituzionale e organizzativa, una diffusa presenza dell’iniziativa privata e un’estrema diversificazione delle prestazioni.

Le cause della mancata affermazione dell’universalismo in Italia sono molteplici:

Un primo elemento non affatto banale va individuato nella mancanza di tempo e di mezzi in cui si trovò a lavorare la commissione d’Aragona;

Sul piano socio-economico invece si deve tenere presente che in quegli anni l’Italia era ancora un paese con forte carattere agricolo, con un sistema di relazioni industriali arretrato e una limitata

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diffusione del sistema di produzione taylorista. Questi fattori rendevano complesso sia il finanziamento di sistemi di sicurezza di tipo universalistico sia la loro stessa accettazione da parte di molti ceti sociali;

Sotto il profilo economico d’altra parte le condizioni finanziarie in cui versavano gli enti previdenziali non consentivano il finanziamento di un sistema di protezione sociale come quello britannico;

Da ultimo sul versante politico l’accentuazione dello scontro tra lo schieramento centrista (la Democrazia cristiana alleata con partiti laici minori) e quello frontista (comunisti e socialisti) impedì qualunque dialogo sul un tema, come quello delle politiche sociali, che richiedeva un accordo più ampio tra le varie forze politiche.

Pur con differenze tra paese e paese l’inizio degli anni cinquanta rappresentò in tutta l’Europa occidentale la nascita del “periodo d’oro”.

Questa fase di crescita che durò per più di un ventennio fu influenzata fortemente dalla progressiva affermazione del welfare state, e portò a una trasformazione profonda dei sistemi previdenziali che estesero la loro copertura alla totalità della popolazione anche se rimase la differenza fra sistemi universalistici e misti. Altro elemento innovativo fu la tendenza di entrambe le tipologie di sistemi a preferire al criterio di finanziamento a capitalizzazione in cui i contributi versati per un determinato rischio venivano accantonati in un fondo e poi utilizzati per finanziare le prestazioni previdenziali in un secondo momento, quello a ripartizione che invece comportava che i contributi versati in un determinato momento venissero utilizzati immediatamente per finanziare le prestazioni di quello stesso periodo creando una sorta di patto generazionale tra la popolazione attiva.

Proprio tra i primi anni cinquanta e la fine del decennio successivo i vari schemi previdenziali in tutta l’Europa occidentale furono estesi sul piano della copertura e aumentarono sotto il profilo delle prestazioni erogate.

Mentre i paesi anglo-scandinavi avevano optato per un modello universalistico, i paesi continentali, in particolare la Francia e la Germania, ma anche l’Italia, mantennero uno schema previdenziale di impronta decisamente occupazionale.

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In particolare nel caso italiano le strutture portanti della previdenza sociale subirono una lenta evoluzione senza però sfociare in una riforma vera e propria.

Dalla stagione politica del centrismo fino alla così detta apertura a sinistra dopo le elezioni del 1953 si assisté al graduale ampliamento della copertura degli schemi vigenti anche se in modo frammentario questo comportò la nascita della “mutualità fra le categorie”, ovvero il trasferimento di fondi da una gestione all’altra con lo scopo di ripianare eventuali disavanzi e garantire la necessaria disponibilità finanziaria.

La spinta verso lo sviluppo e la modernizzazione degli schemi pensionistici e assistenziali continuò anche negli anni sessanta in cui si verificò la vera e propria estensione del welfare state, ciò si tradusse sul piano previdenziale in un ulteriore ampliamento della copertura e in un aumento dell’ammontare delle pensioni.

Sul finire degli anni sessanta i sistemi previdenziali dei paesi più avanzati si trovarono in una situazione particolare: da una parte, nonostante la persistente differenziazione tra modelli universalistici e modelli occupazionali, erano strutturati per garantire le proprie prestazioni alla totalità della popolazione; dall’altra proprio per questo motivo e a causa dell’innalzamento della vita media e altri fattori crescenti, essi iniziarono a presentare problemi di sostenibilità.

Nonostante ciò il welfare state continuò a estendere le proprie prestazioni anche in quei paesi che avevano accumulato i maggiori ritardi sulla via delle riforme. In Italia per esempio solo nel gennaio del 1969 si attuò una svolta in senso welfarista dello Stato sociale segno di un significativo passo in avanti verso la trasformazione del sistema previdenziale italiano in senso universalistico.

L’esito di tale riforma fu un allargamento dei beneficiari, un aumento dei meccanismi di tutela e un progressivo incremento del livello delle prestazioni.

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1.5 L'APOGEO DEL WELFARE

Nei piani di sviluppo del welfare ideati da Beveridge i cambiamenti del sistema previdenziale e assistenziale andavano di pari passo con la creazione di un sistema di assistenza sanitaria erogato dallo Stato. Nel 1946 il governo britannico istituì il servizio sanitario nazionale affidato alle istituzioni pubbliche, finanziato attraverso il prelievo fiscale e caratterizzato dalla gratuità dei servizi per tutti i cittadini senza distinzioni.

Anche se la legge del 1946 fu aspramente criticata dal partito conservatore e dalle organizzazioni di rappresentanza dei medici poichè affidava in via esclusiva la gestione del servizio sanitario allo Stato il sistema nazionale britannico fu per tutti gli anni Sessanta uno dei pilastri del sistema di

welfare.

Le idee rivoluzionarie inglesi furono adottare soprattutto dalla Norvegia in cui ci si adoperò con tempestive e profonde riforme per un sistema sanitario pubblico che erogasse i propri servizi a tutti i cittadini.

Ma non solo la Norvegia si mosse in questa direzione, anche la Danimarca nel 1973 abbandonò il precedente sistema sanitario e l’Olanda si adoperò per una progressiva universalizzazione di alcuni settori dello Stato sociale.

Alcuni paesi come la Francia e la Germania invece seguirono percorsi diversi.

La Repubblica federale tedesca, ad esempio, similmente a quanto avvenne per il settore pensionistico, ricostruì il proprio sistema di assistenza sanitaria secondo un modello di impronta bismarkiana che lasciava allo Stato una funzione di mera supervisione.

L’assistenza sanitaria continuò ad essere strettamente connessa al sistema di assicurazioni occupazionali obbligatorie e continuò ad essere una prerogativa di enti non statali a carattere volontaristico o privato.

Ancora diverso il caso statunitense in cui nel 1946 venne varata la legge che riorganizzò il sistema delle prestazioni ospedaliere medico-sanitarie: l’assistenza sanitaria non prevedeva alcuna forma obbligatoria di assicurazione e veniva erogata prevalentemente da soggetti privati.

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Una profonda rivoluzione si ebbe negli Stati Uniti solo nel 1965 con l’amministrazione democratica di Johnson che approvò due differenti schemi pubblici di protezione contro il rischio malattie: il

Medicare riservato agli ultrasessantacinquenni e ad alcune categorie di portatori di handicap che

forniva loro un’assicurazione finanziata con fondi federali; il Medicaid che invece era finanziato in parte tramite fondi federali e in parte con fondi del singolo Stato di appartenenza ed era riservato agli indigenti. Nonostante l’impronta fortemente innovativa portata da tali provvedimenti il carattere prettamente privato del sistema di protezione sociale statunitense non venne modificato, ma al contrario venne confermato il ruolo residuale dello Stato in tutte quelle politiche di welfare rivolte a categorie marginali della popolazione.

In Italia l’inizio degli anni cinquanta fu caratterizzato dal progressivo abbandono del progetto di creazione di un Sistema sanitario nazionale; le prestazioni sanitarie restavano imperniate quasi esclusivamente sul sistema delle Casse mutue anche se tutto il decennio fu caratterizzato da un allargamento degli schemi di copertura alle categorie ancora prive di assistenza sanitaria.

L’idea di un Sistema sanitario nazionale si presentò nuovamente nel dibattito politico precedente la costituzione dei governi di centro-sinistra ma almeno fino alla fine degli anni sessanta si continuò lungo le consuete linee di azione.

Solo nel 1966 con il progetto del socialista Luigi Mariotti, Ministro della sanità dal 1964 al 1968, si superò definitivamente il concetto di Opera Pia e l’ospedale venne posto al centro dell’assistenza pubblica rivolta a tutti i cittadini.

La legge Mariotti fissò alcuni principi importanti primo tra questi la trasformazione degli ospedali da enti con finalità di diagnosi e cura a istituzioni con scopo anche di prevenzione e riabilitazione attribuendo alla programmazione ospedaliera di ogni regione il compito di evidenziare e pianificare i bisogni del proprio territorio.

In conclusione possiamo dire che alla vigilia degli anni settanta il sistema sanitario italiano restava ancora sospeso tra il vecchio modello imperniato sulle casse mutue e il nuovo, di impronta universalistica, che ancora doveva realizzarsi.

Il così detto “trentennio glorioso”, ossia l’arco temporale che va dalla fine della seconda Guerra Mondiale alla prima crisi petrolifera del 1973, portò con sé, oltre alla impetuosa e ininterrotta

(29)

crescita economica, anche altri fenomeni come la crescita demografica e l’aumento delle aspettative di vita media. L’effetto di questi fattori demografici combinati ebbe gravi ripercussioni sulla struttura economica e sociale di numerosi paesi avanzati, ma soprattutto sulle strutture del welfare

state.

Gli anni della ricostruzione furono caratterizzati da un ulteriore sviluppo delle politiche sociali. I principali governi infatti furono impegnati non soltanto sulla questione lavoro che rappresentava la principale emergenza, ma anche, secondo una concezione più ampia di welfare, sul versante delle politiche abitative e su quelle per l’istruzione che ovunque furono caratterizzate dalla scelta di estendere l’obbligo scolastico fino all’educazione secondaria inferiore.

Anche gli Stati Uniti, nonostante non avessero deciso di seguire la strada del welfare state, furono caratterizzati da profondi cambiamenti.

Con il ritorno al potere del presidente John Fitzgerald Kennedy si cercò attraverso la politica della

New Frontier di rilanciare l’economia statunitense e di provvedere all’affettivo riconoscimento dei

principali diritti civili e sociali del popolo americano.

Un ruolo fondamentale per questo fu giocato dal successore di Kennedy, Lyndon Johnson il quale, da profondo ammiratore del New Deal di Roosevelt, promosse alcuni importanti provvedimenti come il Civil Rights Act che disciplinava la “questione razziale” ponendo fine le discriminazioni tra bianchi e neri; l’Economic Opportunity Act che, tra le altre cose, destinava ingenti fondi federali per qualificare i disoccupati e reinserirli nel mondo del lavoro; l’Elementary and Secondary Education

Act e lo Higher Education Act con i quali lo Stato federale si impegnava a destinare risorse alle

scuole.

Questa stagione di riforme coincise in Italia con la nascita dei governi di centro-sinistra. Fra gli obiettivi della nuova alleanza vi era un decisivo riassetto del sistema di protezione sociale con un allargamento e un miglioramento dei servizi offerti ai cittadini.

I campi di intervento prioritari furono: l’adeguamento dell’istruzione di base e superiore agli standard degli altri paesi europei; la creazione di un sistema di assistenza sanitaria valida e efficiente per tutti i cittadini; l’adozione di una previdenza sociale in grado di garantire a tutti un minimo di sicurezza di vita.

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Se proseguiamo con il nostro racconto sull’evoluzione del welfare e guardiamo poi gli anni turbolenti del “sessantotto” ci rendiamo conto che questi rappresentarono più un momento di passaggio che un evento inatteso. Si assisté infatti a un’ulteriore accelerazione di quel processo di ampliamento del sistema di protezione sociale costruito a partire dal secondo dopoguerra nonostante in alcuni paesi si registrassero già i primi segnali della crisi di sostenibilità che avrebbe poi caratterizzato i primi anni settanta.

Per fare un bilancio di questi “anni gloriosi” possiamo dire che i principi di Beveridge e lo sviluppo del welfare state mutarono profondamente i sistemi di protezione sociale dei paesi dell’Europa occidentale.

Nonostante permanesse la distinzione tra i sistemi di derivazione bismarkiana nei paesi dell’Europa continentale (Germania, Francia e Italia), e sistemi di impronta universalistica (Regno Unito e paesi scandinavi), la tendenza comune fu un progressivo aumento della copertura.

La diretta conseguenza di politiche simili fu una crescita costante e progressiva dell’incidenza delle spese per la sicurezza sociale in rapporto al prodotto interno lordo.

All’inizio degli anni sessanta infatti la principale voce di spesa in tutti i paesi sviluppati era rappresentata dalle pensioni di vecchiaia.

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TABELLA 1.4 7

Spese per la sicurezza sociale in percentuale di PIL (1951-60).

L’espansione degli schemi di protezione sociale negli anni sessanta non interessò solamente l’Europa occidentale, ma anche gli Stati Uniti dove nel 1953 fu istituito un ministero della Salute, Istruzione e Welfare.

È importante ricordare però che, anche se si registrò un’estensione della copertura della sicurezza sociale ad altre categorie di lavoratori, il sistema americano continuò a poggiarsi sulle assicurazioni private o comunque su prestazioni erogate dalle organizzazioni previdenziali e mutualistico-assistenziali legate ai sindacati.

TABELLA 1.5 8

Principali voci di spesa per la sicurezza sociale in alcuni paesi europei nel 1959 (percentuale)

Anno Francia Germania Italia Svezia UK

1951 11,6 13,3 7,8 8,6 8,5 1953 12,4 14,4 10,0 9,7 8,9 1955 12,9 13,8 10,2 10,8 9,1 1957 13,3 15,6 10,8 11,5 9,3 1958 13,2 16,6 11,9 12,1 10,2 1959 13,3 16,1 12,3 12,2 10,4 1960 13,2 15,4 12,0 12,2 10,4 Paese Malattia

Maternità Infortuni Vecchiaia Pensioni Disoccupa- zione FamiliariAssegni Sanità

Francia 24,8 7,5 32,0 0,3 35,4

-Germania 28,8 5,3 59,2 3,3 2,8 0,6

Italia 21,8 4,2 41,7 4,1 26,7 1,5

Svezia 17,0 1,5 40,4 2,3 12,9 25,9

U.K 8,2 2,6 40,2 2,4 7,0 39,6

Fonte: Internazionale Labour Office, The cost of Social Security 1958-60, Geneva 1964.

7

Fonte: Internazionale Labour Office, The cost of Social Security 1958-60, Geneva 1964.

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Alla fine degli anni sessanta dopo un decennio di ulteriore espansione delle politiche di welfare in tutta Europa si manifestarono aspettative di ampliamento dei diritti di cittadinanza e delle politiche sociali. Alla base di tale fenomeno vi fu l’emergere di nuovi bisogni sociali derivati dal processo di crescita economica seguita agli anni della ricostruzione.

Il risultato fu un generale rilancio delle riforme sociali che caratterizzò i primi anni settanta e si interruppe soltanto quando i primi effetti della crisi internazionale si manifestarono in tutta la loro gravità.

Più in generale possiamo dire che la Golden Age dell’economia di mercato fu uno dei principali fattori che contribuì allo sviluppo dei sistemi di welfare, questi anni furono infatti caratterizzati da una costante crescita delle economie occidentali, che fu interrotta solo occasionalmente da brevi crisi e vide diffondersi il benessere fra ampi strati della popolazione.

Lo sviluppo delle politiche sociali in questi anni seguì due linee guida principali: 1) la generalizzata espansione degli schemi di protezione sociale e 2) la creazione di ulteriori schemi di protezione per i “nuovi” bisogni sociali sorti con la modernizzazione.

Per quanto riguarda il livello di copertura rimase la tradizionale differenza tra sistemi di welfare a carattere universalistico e sistemi a carattere occupazionale. Quest’ultimi inoltre si divisero in sistemi occupazionali puri che fornivano una copertura prevalentemente agli occupati che versavano i contributi, e sistemi occupazionali misti che combinavano caratteristiche occupazionali e universaliste.

Ciò che emerge all’indomani degli anni settanta è che l’impianto complessivo del welfare si reggeva su un equilibrio sempre più precario minato da una pluralità di fattori come l’emergere di problemi nuovi, la corsa agli armamenti provocata dalla Guerra Fredda, la burocratizzazione generalizzata, il mutamento dei costumi e dei consumi e la rivoluzione tecnologica ormai in atto. Tutto ciò rappresentò un acceleratore formidabile del cambiamento che si tradusse in altrettanti stimoli per l’incremento delle spese a carico del bilancio dello Stato.

(33)

Il processo di trasformazione delle società occidentali e una nuova grave crisi economica e finanziaria metteranno a dura prova le basi stesse dello Stato sociale, aprendo una stagione di profonda revisione ideologica e politica.

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TABELLA 1.6 9

Il livello di copertura dei welfare state occidentali

TIPOLOGIA PAESE ASSICURAZIONE PENSIONISTICA ASSICURAZIONE SANITARIA Tendenzialmente

occupazionale Stati Uniti Occupazionale + Residuale Residuale

Occupazionali puri

Francia

Belgio Occup.+Residuale Occupazionale

Germania

Austria Occupazionale Occupazionale

Occupazionali misti

Svizzera Universale +integrazione occup. privata Occupazionale

Italia Occup.+Residuale (Dopo il 1978)Universale

Paesi Bassi Universale +integrazione occup. Privata Occup.+universale in casi speciali

Irlanda Occup.+Residuale Universale

Tendenzialmente

universalistico Australia Residuale Universale

Universalistico misto Nuova zelanda Universale +integrazione occup. Privata Universale Canada Gran Bretagna Universalistico puro Finlandia Danimarca Svezia Norvagia Universale+ integrazione

occupazionale pubblica Universale

Conti, Silei, op. cit., p.170

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1.6 GLI ANNI DELLA CRISI

A metà degli anni settanta si registrarono dei profondi cambiamenti nelle strutture del welfare state a causa di numerosi fattori economico-sociali: alla terziarizzazione delle economie più avanzate si andavano affiancando gli effetti di una crisi economica e finanziaria globale; inoltre l’aumento del prezzo del greggio dovuto al primo shock petrolifero del 1973 e la scelta dell’amministrazione Nixon di abbandonare il sistema di Bretton Woods che aveva stabilizzato il valore del dollaro 10 rendendolo la moneta di riferimento per gli scambi internazionali influenzarono molto le economie occidentali e soprattutto quelle europee; la crescita esponenziale del costo del carburante provocò un aumento dei prezzi che accese l’inflazione mentre la fluttuazione del dollaro sui mercati indebolì tutte le altre monete producendo una crisi finanziaria e un forte aumento della disoccupazione. Le politiche anticrisi fino a quel momento adottate si erano ispirate al modello keynesiano, ma il ricorso all’intervento dello Stato e l’espansione della spesa pubblica per rilanciare l’economia in crisi addirittura accentuò le distorsioni.

La mancata efficenza delle politiche di intervento dello Stato e la scoperta della crescita dei costi di gestione dello Stato sociale misero in crisi la già citata formula Keynes+Beveridge sulla quale si era edificato il welfare state dopo la seconda guerra mondiale.

Il tramonto delle politiche keynesiane permise l’affermarsi delle dottrine monetaristiche di Milton Friedman, un economista americano sostenitore della necessità della massima liberalizzazione e dell’equilibrio monetario dei bilanci statali. L’idea che il libero mercato fosse una sorta di inafferrabile nemico del benessere venne quindi sostituita dall’idea opposta.

gli accordi di Bretton Woods ebbero come perno centrale la cooperazione monetaria ed economica tra i

10

paesi e la creazione di specifiche istituzioni come il FMI che aveva il compito di garantire la stabilità dei cambi tra le diverse valute e la Banca Mondiale. Per approfondimenti consultare il manuale Benigno, Donzelli, Fumian, Lupo, Mineo, op. cit., p. 459

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TABELLA 1.7 11

Andamento della spesa pubblica in alcuni paesi OCSE in percentuale di PIL nel 1950,1965 e 1975.

I primi paesi ad applicare tale svolta concettuale e politica furono gli Stati Uniti del presidente Regan e la Gran Bretagna, con il capo del partito conservatore Margaret Thatcher. L’ideologia di entrambi consisteva nel rovesciare le priorità nei rapporti fra Stato e cittadini, restituire ai privati compiti, poteri e beni controllati dallo Stato, nella convinzione che il ritorno a un vasto liberismo riportasse il benessere.

Gli Stati Uniti reagirono alle difficoltà quindi cercando da una parte di contenere l’aumento della spesa pubblica e dall’altra di rilanciare l’economia. La riforma del presidente Regan non intaccò tanto il funzionamento di fondo del Social Security né l’impianto del sistema pensionistico, ma cercò di incoraggiare una forte riduzione fiscale, una serie di tagli alla spesa sociale e venne inoltre promossa una forte spinta verso le assicurazioni private che portò a un progressivo incremento del numero di cittadini i quali, non potendosi permettere di pagare le polizze assicurative individuali, vennero esclusi dalla tutela sanitaria. Questa esclusione riguardava nel 1992 trentasette milioni di persone 1950 1965 1975 Austria 25,0 33,8 40,3 Danimarca 19,3 30,1 47,6 Finlandia 25,8 31,5 37,2 Francia 28,3 36,2 42,4 Germania occidentale 30,2 35,0 45,6 Italia 23,0 33,4 43,1 Norvegia 24,2 36,4 46,5 Regno Unito 34,2 35,1 46,1 Stati uniti 22,3 28,8 36,2

Fonte: OECD, National Accounts of OECD Countries, 2015.

(37)

Anche il Regno Unito con l’avvento al potere della Thatcher dette il via a un deciso riassetto del settore della sicurezza sociale attraverso una riduzione del ruolo di governo e di manager dello Stato e tramite l’adozione di modelli di organizzazione e di gestione mutuati dal settore privato.

Si abbandonò quindi l’accordo di non belligeranza sui principi e sui meccanismi del welfare state e si avviò un periodo di riforme politiche verso un “ritorno al mercato”, che comportava tagli alla spesa pubblica e una profonda revisione del sistema di protezione sociale.

In alcune realtà d’Europa invece, nonostante la crisi avesse messo in luce le sempre maggiori difficoltà di finanziamento degli schemi pensionistici pubblici, le prestazioni sociali continuarono a crescere a causa sia dell’impeto del processo di ampliamento del sistema di welfare proprio della

Golden Age, sia della certezza della transitorietà della crisi che però si rivelò falsa.

Soltanto negli anni ottanta si iniziò a introdurre alcuni correttivi, ma solo in qui paesi dove le conseguenze della crisi erano maggiori o dove erano presenti delle formazioni politiche fautrici di un deciso ridimensionamento del welfare.

In Italia tutti gli anni settanta furono ancora caratterizzati dall’aumento delle risorse destinate degli schemi pensionistici, la spesa pubblica continuò a crescere in questo welfare costruito sulla base di esigenze e di calcoli particolaristici-clientelari. Solo alla fine degli anni settanta la gravità della situazione obbligò i primi interventi correttivi anche se di portata limitata.

Il deficit pubblico continuò però a crescere tanto che nel 1989 la spesa pensionistica e quella sanitaria superarono l’ammontare dell’intero PIL.

(38)

TABELLA 1.8 12

Ripartizione percentuale delle spese per settori della sicurezza sociale e ammontare complessivo delle spese (in moneta nazionale) in alcuni paesi occidentali nel 1975.

Come le politiche pensionistiche anche quelle sanitarie continuarono a seguire, fino alla prima metà degli anni ottanta, le linee di indirizzo degli ultimi dieci anni. Tuttavia le crescenti difficoltà di finanziamento di prestazioni e servizi portarono numerosi governi a scelte dolorose.

I sistemi di Svezia, Danimarca e Norvegia vennero decentrati per esigenze di contenimento dei costi e di razionalizzazione e miglioramento della qualità dei servizi erogati.

Le difficoltà finanziarie caratterizzarono alche il sistema sanitario francese e quello tedesco. In Italia invece, nonostante la crisi, si assisté a un deciso rilancio delle riforme sociali fino all’approvazione della legge n. 833 nel 1978 che determinò la nascita del servizio sanitario nazionale. Il provvedimento cancellava il vecchio sistema imperniato sulle Casse mutue e su, una logica tipicamente assicurativa, si caratterizzava per una connotazione universalistica.

Malattia Maternità

Infortuni malattie

professiona. Pensioni Disoccup.

Assegni familiari Danimarca 19,1 1,3 55,2 13,3 11,1 Finlandia 17,1 4,0 67,4 2,6 8,9 Francia 40,1 0,1 42,1 2,6 15,1 Germania occidentale 32,6 3,5 48,3 7,6 8,0 Italia 17,1 3,7 64,4 3,3 11,5 Norvegia 38,5 0,5 52,6 1,5 6,9 Regno Unito 7,2 3,0 78,5 4,9 6,4 Stati Uniti 15,1 6,3 65,9 12,7 -Svezia 33,7 1,0 52,9 1,8 10,6

Conti, Silei, op. cit., p.173

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Il SSN italiano, rivolgendosi alla totalità dei cittadini e ispirandosi ai principi di uguaglianza e di uniformità del trattamento, si proponeva di tutelare la salute fisica e psichica dell’individuo attraverso servizi di prevenzione, cura e riabilitazione.

Nonostante la portata rivoluzionaria della legge 833/1978 la riorganizzazione della sanità fu subito accompagnata da misure di rigore causate dagli effetti della crisi internazionale e dalle sue ripercussioni sul piano interno.

Nel 1985 si ebbe una prima riforma del Sistema sanitario nazionale con cui oltre a rivederne le strutture organizzative introdusse nella propria gestione criteri di tipo manageriale con l’obbiettivo di razionalizzare e contenere le spese, ma nonostante ciò la spesa sanitaria rimase invariata e senza controllo.

È importante ricordare che le conseguenze della crisi economica pesarono maggiormente sul sistema dell’assistenza sociale che su quello sanitario o previdenziale.

Anche la Francia rispose alle difficoltà economiche ricorrendo a politiche di impostazione keynesiana servendosi di piani sociali e progetti di rilancio dell’economia o nomina improntati sull’intervento pubblico.

Anche per l’Italia gli anni settanta furono un periodo di gravi difficoltà economiche. La fase dell’austerity comportò l’assunzione di misure di contenimento della spesa imperniate non tanto sui tagli alle politiche sociali, quanto sull’aumento della tassazione indiretta.

Questi anni quindi furono caratterizzati nella penisola italiana dalla ricerca di un equilibrio tra il mantenimento dei livelli di copertura raggiunti in precedenza e le sempre più necessarie esigenze di contenimento delle spese.

Nonostante gli sforzi effettuati durante tutto il decennio per comprimere le spese sociali questi non dettero i risultati sperati, anzi ai ritardi strutturali del passato si erano aggiunte pratiche e criteri di gestione che accentuavano i limiti strutturali.

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