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La politica mediterranea dell'Italia dalla meta degli anni Cinquanta agli anni Settanta

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Academic year: 2021

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INTRODUZIONE………..2

1. LA FINE DEGLI ANNI CINQUANTA………..5

1.1 Il neoatlantismo………...5

1.2 Il breve governo Fanfani………...18

1.3 La diplomazia parallela di Mattei………..24

2. GLI ANNI SESSANTA……….37

2.1 Gli “anni della transizione”………...37

2.2 Il centro-sinistra……….39

2.3 Guerra dei sei giorni………..43

2.4 L’azione del governo italiano all’indomani del conflitto………..49

2.5 Il colpo di stato in Grecia………..57

3. I RAPPORTI CON LA LIBIA………..61

3.1 Il colpo di Stato……… 61

3.2 I rapporti con la Libia di Gheddafi………65

3.3 La richiesta di rifornimenti militari da parte di Gheddafi……….72

3.4 Crisi nei rapporti tra Malta e l’Occidente………..77

3.5 La politica di collaborazione italo-libica………...79

4. I RAPPORTI CON IL MEDIO ORIENTE NEGLI ANNI SETTANTA………..84

4.1 La diplomazia italiana e gli sviluppi della situazione mediorientale………...……..84

4.2 La politica italiana alla vigilia di una nuova guerra in Medio Oriente………..96

4.3 Guerra dello Yom Kippur………101

4.4 Versi gli accordi di Camp David……….115

CONCLUSIONI……….121

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INTRODUZIONE

La storia e la posizione geografica dell’Italia fanno del Mediterraneo, e delle aree ad esso adiacenti, una delle aree principali per lo sviluppo di relazioni commerciali e diplomatiche del nostro Paese. Il Mediterraneo non è da considerarsi un mare chiuso, bensì una via di comunicazione, e in particolare il passaggio delle navi dal Canale di Suez rappresentava, e rappresenta, un elemento estremamente importante, se non indispensabile, per il commercio con l’Oriente, essendo una via più breve e sicura rispetto alla circumnavigazione dell’Africa, da sempre soggetta ad avverse condizioni meteo marine e ad episodi di pirateria.

Oggi più che mai il Mediterraneo rappresenta una delle aree di maggior tensione al mondo. Le “primavere arabe”, la caduta di regimi dittatoriali, la guerra civile in Siria, la forte instabilità che ancora caratterizza il Medio Oriente e gli inarrestabili flussi migratori proveniente dal continente africano impongono all’Italia lo sviluppo di una politica estera mediterranea consapevole e ponderata. Solo attraverso lo studio della storia è possibile affrontare le complesse sfide e opportunità che il nostro Paese ha di fronte. Con questo lavoro si intende proprio studiare l’evolversi della politica mediterranea e mediorientale dell’Italia attraverso l’analisi dell’azione della diplomazia italiana durante gli eventi più

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significativi verificatisi nell’area tra la metà degli anni Cinquanta e gli anni Settanta.

La dipendenza energetica dell’Italia rende le relazioni con i paesi arabi, esportatori di petrolio e non, di estrema importanza per lo sviluppo tecnologico e industriale. In questo lavoro vedremo se, ed eventualmente come, l’Italia abbia affrontato il problema negli anni presi in considerazione. L’analisi volgerà altresì sulla valutazione dell’operato del nostro Paese sulla ricerca di fonti di approvvigionamento alternative e su come abbia affrontato l’embargo petrolifero imposto dai paesi arabi in seguito alla guerra dello Yom Kippur. In conclusione si cercherà di definire al meglio se il governo italiano abbia realmente cercato di sviluppare una politica di comune accordo con gli altri Paesi europei o se invece sia prevalsa la logica degli accordi bilaterali.

Il periodo storico preso in considerazione va dalla metà degli anni Cinquanta, anni in cui l’Italia rientrò a tutti gli effetti nella Comunità Internazionale, agli anni Settanta, caratterizzati da una forte instabilità interna, politica, sociale ed economica. Sul finire degli anni Settanta con l’insorgere di problemi di natura interna di estrema gravità, quali il terrorismo e la stessa tenuta delle istituzioni democratiche, il peso della politica estera, da sempre considerata meno importante dai politici italiani, fu ulteriormente ridimensionato.

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Il Mediterraneo alla fine della Seconda Guerra mondiale, con il mondo ormai diviso in due blocchi, rappresentava uno “spazio strategico di primissimo ordine”1 e fu proprio la posizione strategica

italiana uno dei motivi che spinse gli Stati che negoziavano il Trattato dell’Atlantico del Nord a includere l’Italia tra i partecipanti. La Guerra Fredda imponeva agli appartenenti ai due blocchi una libertà di manovra molto limitata, se non inesistente. Erano le due superpotenze a decidere le direttive principali della politica estera e il Mediterraneo, confine naturale del fronte sud della Nato, non sfuggiva a questa logica. Uno degli obiettivi della presente tesi è capire se l’Italia riuscì, tra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Settanta, a ricavarsi uno spazio autonomo rispetto agli Stati Uniti.

Per quanto concerne invece la politica estera e le relazioni internazionali che il nostro Paese intraprese sul versante nordafricano, l’analisi partirà dalla considerazione che l’Italia, avendo abbandonato definitivamente le sue colonie nel 1949, aspirava a presentarsi quale alternativa alla Francia e Gran Bretagna che ancora mantenevano i loro imperi coloniali. Nella presente tesi vedremo se la diplomazia italiana vi riuscì, o se l’immagine di Paese colonizzatore rimase una macchia indelebile della storia italiana. Si analizzerà in dettaglio il colpo Stato in Libia, durante il quale il governo italiano si trovò ad affrontare direttamente, con una sua ex colonia, un evento potenzialmente

1 R. Luraghi, L’Italia nel fronte sud della NATO, in M. de Leonardis (a cura di), Il Mediterraneo nella politica estera italiana del secondo dopoguerra, Il Mulino,Bologna 2003, p. 245

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molto destabilizzante per l’area mediterranea, e non solo. Si arriverà in fine a valutare se in quell’occasione il governo e la diplomazia seppero individuare per tempo i reali interessi dell’Italia e tutelarli adeguatamente.

L’Italia, nel periodo preso in considerazione, è stata caratterizzata da una forte instabilità governativa, con evidenti ripercussioni sulla politica estera. Basti pensare che dal 1955 al 1979 si susseguirono ben 26 diversi governi. Attraverso l’analisi dell’azione dei diversi esecutivi si cercherà di capire se, riguardo alla politica mediterranea, vi sia stata una visione comune accettata da tutti, almeno all’interno della maggioranza, o se questa sia stata invece rimodulata di volta in volta, a seconda della forza e del peso delle varie correnti che componevano la maggioranza di turno. L’obiettivo finale sarà dunque di comprendere e valutare se le varie forze politiche abbiano preso decisioni ponderate dai reali interessi italiani o se si siano lasciati maggiormente guidare da motivazioni contingenti. Durante il regime fascista la politica estera era stata portata avanti in modo spesso velleitario, e i pochi risultati raggiunti furono frutto dell’intensa e raffinata azione svolta dai diplomatici di professione2.

Con la presente tesi cercheremo di capire se, ed eventualmente come, la gestione della politica estera nell’Italia repubblicana sia cambiata e che ruolo ebbero i diplomatici. In ogni aspetto trattato

2

Al riguardo si veda: M. Luciolli, Mussolini e l’Europa. La politica estera fascista, LeLettere, Firenze 2009

(6)

nel corso di questa tesi l’analisi ha come obiettivo la valutazione degli obiettivi perseguiti cercando di determinare se questi fossero di massima realistici e alla portata di una media potenza o se invece prevalesse ancora una visione velleitaria.

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1. LA FINE DEGLI ANNI CINQUANTA

1.1 Il neoatlantismo

L’Italia nella seconda metà degli anni Cinquanta era, dal punto di vista diplomatico, molto diversa rispetto agli anni del dopoguerra, quando era percepita come “teatro strategico”, e non come “attore in ambito strategico”3. Con la firma del Patto

Atlantico4 nel 1949 “cessava il dopoguerra della politica estera

italiana”5. Inoltre, la rinuncia completa alle colonie, scelta obbligata

dopo il fallimento del compromesso Bevin-Sforza6, poneva l’Italia in

3 L. Sebesta, Politica di sicurezza italiana e innovazioni strategiche nell’Europa degli anni

Cinquanta, in E. Di Nolfo-R. H. Rainero-B. Vigezzi (a cura di), L’Italia e la politica di potenza in Europa (1950-60), Marzorati Editore, Settimo Milanese 1992, p. 674

4

L’Italia fu invitata a far parte dell’organizzazione, soprattutto su pressione del governo francese, come “membro originario” insieme a Norvegia, Danimarca, Islanda e Portogallo. Questi paesi si aggiunsero ai sette membri fondatori: Stati Uniti, Canada, Regno Unito,

Francia, Belgio, Olanda e Lussembrugo. G. Mammarella, P. Cacace, La politica estera dell’Italia.

Dallo Stato unitario ai giorni nostri, Edizioni Laterza, Roma-Bari 2006, p. 172-183

5

S. Romano, Guida alla politica estera italiana, Rizzoli editore, Milano 1993, p.49

6 La questione delle colonie era stata lasciata in sospeso dal Trattato di pace. Un mese dopo

l’entrata in vigore del Trattato, nell’ottobre del 1947, venne istituita una commissione d’inchiesta, formata dalle quattro potenze vincitrici, incaricata di verificare in loco i problemi delle colonie italiane. Non venne però raggiunto nessun accordo. L’azione diplomatica italiana puntava, pur conscia delle difficoltà, ad ottenere l’amministrazione fiduciaria di tutte e tre le ex colonie, sperando anche che le contemporanee trattative per la firma del Patto Atlantico

avessero una ripercussione positiva sulla questione. Il ministro degli Esteri Sforza, consapevole della necessità di un accordo bilaterale con la Gran Bretagna per risolvere lo stallo, raggiunse un compromesso con l’omologo britannico Bevin, in occasione della firma a Londra dell’atto costitutivo del Consiglio d’Europa. L’accordo ottenne la reazione fredda della diplomazia e del governo italiano: De Gasperi, messo davanti al fatto compiuto, non poté far altro che

accettarlo. Il “compromesso Bevin-Sforza” viene trasmesso all’ONU per essere approvato, e, dopo aver passato l’esame in sede di Comitato politico,il 18 maggio del 1949 fu bocciato per un solo voto durante la votazione all’Assemblea Generale e la questione venne rinviata di un anno. Decisivo fu il “no” espresso all’ultimo momento dal delegato di Haiti, che dal resoconto di alcuni protagonisti era visibilmente ubriaco. Il 31 maggio dello stesso anno, durante una

riunione ristretta presso il Viminale alla quale parteciparono De Gasperi, Sforza, il vice Presidente del Consiglio Saragat, il ministro Giovannini e il segretario generale del Ministero degli Esteri Zoppi, fu deciso il cambio di strategia: concedere la piena e completa indipendenza a tutte le colonie. Il progetto italiano viene poi approvato il 21 novembre in sede ONU. Cfr. P. Cacace, Venti anni di politica estera italiana (1943-1963), Bonacci editore, Roma 1986, p.334-345

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una posizione ben distinta e meno compromessa rispetto alle due potenze coloniali per eccezione, la Francia e la Gran Bretagna, anticipando il tramonto degli imperi coloniali.7 La soluzione della

questione delle ex colonie rappresentava una delle prime decisioni politiche prese nel dopoguerra relativamente al rapporto con i paesi arabi8. Ad ostacolare una politica estera libera da condizionamenti

concorreva il problema della situazione di Trieste, che fu risolto, sia pur in modo provvisorio9, con il compromesso di Londra del 195410.

Il passo finale verso la normalizzazione post-bellica fu compiuto il 14 dicembre 1955 quando l’Italia entrò a far parte dell’Organizzazione delle Nazioni Unite con voto unanime del Consiglio di Sicurezza e dell’Assemblea Generale11, dopo una lunga

battaglia diplomatica iniziata nel 1947 con l’Unione Sovietica che bloccava l’ammissione con il suo diritto di veto. E’ stato osservato che lo stato di inferiorità dell’Italia era dimostrato proprio dal fatto

Sulle conseguenze della scelta anticoloniale si veda: B. Bagnato, Alcune considerazioni

sull’anticolonialismo italiano, in E. Di Nolfo-R. H. Rainero-B. Vigezzi (a cura di), L’Italia e la politica di potenza in Europa (1950-60), cit., p. 289-317

7

Secondo alcuni fu una decisione più emotiva che strategica. P. Cacace, Venti anni di politica

estera.. , cit. , p. 345

8 R. Gaja, L’Italia nel mondo bipolare, il Mulino, Bologna 1995, p. 129

9

La soluzione definitiva fu trovata nel 1975 con la firma del Trattato di Osimo che conferma la soluzione trovata nel 1954.

10

L’ambasciatore italiano a Washington Brosio osservò: “Risolta la questione di Trieste è venuto meno l’unico grave ostacolo di carattere internazionale all’assunzione da parte dell’Italia di una funzione più attiva, di maggiore responsabilità e anche di maggior prestigio nel mondo occidentale e in particolare in seno all’Alleanza nordatlantica” L. Sebesta, Politica di

sicurezza italiana e innovazioni strategiche nell’Europa degli anni ‘50, in E. Di Nolfo-R. H.

Rainero-B. Vigezzi (a cura di), L’Italia e la politica di potenza in Europa (1950-60), cit., p. 685; Cfr. anche M. De Leonardis, L’Italia, la diplomazia anglo-americana e la soluzione del problema

di Trieste (1952-1954), ivi, p. 737-753

11

Sugli eventi che portarono all’ammissione dell’Italia all’Onu si veda: E. Ortona, Anni

(9)

che si dovette “arrivare ad ammettere altri quindici Stati all’Onu per ottenere che vi entrasse anche l’Italia”12.

In questi anni13 si diffuse una visione della politica estera

denominata “neoatlantismo”14, che puntava a raggiungere un

maggior grado di indipendenza sullo scacchiere internazionale. Fino a questo momento i problemi internazionali erano “considerati rilevanti solo per i riflessi che potevano avere sulla politica interna”15. La fedeltà italiana allo schieramento atlantico e

occidentale non veniva messa in discussione, ma si intendeva sviluppare rapporti con i paesi dell’area mediterranea e mediorientale, al fine di favorire le relazioni economiche e commerciali. I punti di riferimento di questa politica erano il Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi e l’ala dossettiana della Democrazia Cristiana, rappresentata in parte dal segretario politico Amintore Fanfani. Un contributo determinante, spesso dietro le quinte della scena politica, fu quello apportato dal presidente dell’ENI Enrico Mattei, tanto che alcuni sostengono che

12

F. D’Amoja, La “sindrome da claustrofobia atlantica” e la politica estera dell’Italia alla metà

degli anni ’50: un’analisi sull’ammissione dell’Italia all’Onu nel dicembre 1955, in E. Di Nolfo-R.

H. Rainero-B. Vigezzi (a cura di), L’Italia e la politica di potenza in Europa (1950-60), cit., p. 782

13

Cfr. B. Vigezzi, L’Italia e i problemi della politica di potenza. Dalla crisi della CED alla crisi di Suez, in E. Di Nolfo-R. H. Rainero-B. Vigezzi (a cura di), L’Italia e la politica di potenza in Europa (1950-60), cit., p.18-19. Vigezzi fa risalire l’origine del neoatlantismo alle fine del

1954. Se è vero che in quel periodo ci furono le prime manifestazioni teoriche, immaginare un’applicazione pratica del neoatlantismo, senza essere ancora stati ammessi all’Onu, era impensabile.

14

Il termine fu coniato da Giuseppe Pella, ministro degli affari Esteri del governo Zoli, per esporre il suo programma di politica estera al Congresso nazionale della Dc nel luglio 1957. A. Brogi, L’Italia e l’egemonia americana nel mediterraneo, La Nuova Italia Editrice, Scandicci 1996, p. 273

15

A. Canavero, La politica estera di un ministro degli interni: Scelba, Piccioni, Martino e la

politica estera italiana (1954-1955), in E. Di Nolfo-R. H. Rainero-B. Vigezzi (a cura di), L’Italia e la politica di potenza in Europa (1950-60), cit., p.31

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fosse “quasi impossibile per i governi in carica assumere iniziative di politica estera senza il suo consenso”16. Il neutralismo veniva

percepito da Washington come un “elemento latente che rischiava di venire fuori”17 qualora gli Stati Uniti non avessero concesso

l’aiuto diplomatico e finanziario che l’Italia si aspettava.

Il Presidente della Repubblica Gronchi subito dopo la sua elezione, avvenuta l’11 maggio 195518, cercò di estendere il suo

potere d’azione alla politica estera, suscitando in più di un caso le irritazioni del Parlamento e del governo19, che in alcuni casi non

esiterà ad intervenire direttamente.

Per sviluppare una politica mediterranea coerente la diplomazia italiana era al lavoro per estendere la cooperazione in ambito NATO, oltre al settore militare, a quello economico e sociale, attraverso l’applicazione dell’articolo 2 del Patto Atlantico20.

16

P. Cacace, Venti anni di politica estera.., op. cit., p. 481 17

A. Brogi, L’Italia e l’egemonia americana..., cit., p.274

18 L’elezione di Gronchi fu accolta in modo freddo dagli Stati Uniti. In particolar modo

l’ambasciatrice a Roma Clare Boothe Luce, con toni allarmistici, raccomandò al Dipartimento di Stato e a quello dell’Agricoltura di sospendere gli accordi per l’invio di derrate alimentari, fino a che non fosse chiaro quale politica il Presidente avrebbe seguito. A. Brogi, L’Italia e

l’egemonia.., op. cit., p. 158; Per un illustrazione della reazione americana all’elezione di

Gronchi si veda: E. Ortona, Anni d’America. La diplomazia: 1953-1961, cit., p. 128-131; Cfr. A. Bedeschi Magrini, Spunti revisionistici nella politica estera di Giovanni Gronchi Presidente

della Repubblica, in E. Di Nolfo-R. H. Rainero-B. Vigezzi (a cura di), L’Italia e la politica di potenza in Europa (1950-60), op. cit., p. 59-74

19

Il primo di una lunga e svariata serie di incidenti si verificò nel novembre 1955 quando il Presidente Gronchi, dopo una riunione informale tra membri del governo e gli ambasciatori accreditati presso le principali capitali straniere, si trattenne per tre ore con gli stessi

ambasciatori. Seguirono interrogazioni parlamentari su le interferenze del Capo dello Stato in materie non riconosciutegli dalla Costituzione. Gronchi alle critiche rispose: “Non è ammissibile che la Costituzione preveda un Presidente impagliato. Ma io non mi faccio imbalsamare in una gabbia! Io son chi sono!” P. Cacace, op. cit., p. 482-483; Ortona riporta le impressioni avute dall’ambasciatore a Washington Borsio a proposito dell’incontro: “In pratica gli ambasciatori hanno svolto il compito di avvocati difensori della politica di governo in contrapposizione al presidente della Repubblica.” E. Ortona, Anni d’America. La diplomazia.., op. cit., p. 149-150

20

Articolo 2 Trattato Nord Atlantico: “Le parti contribuiranno allo sviluppo di relazioni internazionali pacifiche e amichevoli, rafforzando le loro libere istituzioni, favorendo una migliore comprensione dei principi su cui queste istituzioni sono fondate, e promuovendo

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L’Italia, infatti, non era in grado di svolgere un ruolo primario in Medio Oriente a causa della mancanza di strumenti di potenza e della stabilità politica necessaria21, quindi l’unica via praticabile era

una politica di penetrazione commerciale nei paesi arabi22. La

posizione del Presidente della Repubblica, esposta personalmente da Gronchi al Presidente statunitense Eisenhower durante il viaggio negli Stati Uniti e in Canada nei primi mesi del 195623, coincideva

con quella del governo Segni. Nelle intenzioni del Quirinale rappresentava una mossa per accorciare i tempi dell’apertura a sinistra, venendo incontro alle istanze socialiste, senza, però, venir

condizioni di stabilità e di benessere. Esse si sforzeranno di eliminare ogni contrasto tra le loro politiche economiche internazionali e incoraggeranno la cooperazione economica tra ciascuna di loro o tra tutte. Le parti contribuiranno allo sviluppo di relazioni internazionali pacifiche e amichevoli, rafforzando le loro libere istituzioni, favorendo una migliore comprensione dei principi su cui queste istituzioni sono fondate, e promuovendo condizioni di stabilità e di benessere. Esse si sforzeranno di eliminare ogni contrasto nelle loro politiche economiche internazionali e incoraggeranno la cooperazione economica tra ciascuna di loro o tra tutte.” L’applicazione dell’articolo 2 del Patto atlantico era stata sollecitata già da De Gasperi nel corso del viaggio negli Stati Uniti e Canada nel settembre 1951.

21 L’ambasciatore a Parigi Quaroni, nell’aprile del 1956, scriveva a Martino che l’applicazione dell’articolo 2 rappresentava un “importanza vitale” per l’Italia, al fine di realizzare un potenziamento economico e sociale con ricadute in politica estera, in quanto poteva

“permettere all’Italia di avere nel mondo una posiziona appoggiata a basi solide e non a delle velleità”. A. Brogi, , L’Italia e l’egemonia.., op. cit., p. 191

22Ivi, p. 135-136

23

La visita, la prima all’estero di un Capo di Stato repubblicano, fu preceduta da un’intervista a un corrispondente del “Christian Science Monitor”, pubblicata anche sul “TIME”, che irritò molto il segretario di Stato americano Dulles. In quell’intervento Gronchi si diceva favorevole al riconoscimento della Cina popolare e alla sua ammissione all’Onu, inoltre criticava

l’intransigenza dei partner occidentali sulla questione tedesca. P. Cacace, Venti anni di politica

estera.., op. cit., p. 483; A. Brogi, L’Italia e l’egemonia.., cit., p. 162; Per un analisi dettagliata

dei preparativi e dello svolgimento della visita negli Stati Uniti si veda: E. Ortona, Anni d’America, La diplomazia.., op. cit., p. 149-167 “Una delle ragioni favorevoli alla visita era quella di evitare che Gronchi compisse in URSS il suo primo viaggio all’estero”; Un altro episodio critico, di cui però non esistono tracce ufficiali, di cui si rese protagonista Gronchi riguarda due incontri, uno dei quali senza il consigliere diplomatico Luciolli, che egli, pare, abbia avuto con l’ambasciatore sovietico Bogomolov, al quale avrebbe prospettato una soluzione del problema tedesco diversa rispetto a quella ufficiale del governo italiano. A. Bedeschi Magrini, Spunti revisionistici nella politica estera di Giovanni Gronchi Presidente della

Repubblica, in E. Di Nolfo-R. H. Rainero-B. Vigezzi (a cura di), L’Italia e la politica di potenza in Europa (1950-60), op. cit., p. 68

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meno alla fedeltà atlantica24. Gli Stati Uniti non vedevano di buon

occhio un’apertura ai socialisti, soprattutto temevano l’opportunismo di Nenni, descritto da un rapporto dell’Office of Intelligence Research del Dipartimento di Stato come un “uomo che andrà ovunque la sua classe lavoratrice vuole andare”25. A

Washington si continuava a ritenere di poter influenzare la politica interna italiana come nel 1948, anche se la situazione era più complessa rispetto a prima26.

Il 1956 fu un anno determinante per la politica mediterranea italiana, che fino a quell’anno era stata caratterizzata da una serie di politiche settoriali, anche contraddittorie27. La crisi di Suez28, che

determinò la chiusura del Canale, via d’acqua cruciale per i rifornimenti italiani29, offrì all’Italia la possibilità di presentarsi ai

paesi arabi sotto una veste molto diversa rispetto a quella delle due potenze coloniali europee uscite sconfitte. Sin dall’inizio della crisi l’Italia mantenne un atteggiamento prudente e, in qualche misura,

24

P. Cacace, Venti anni.., op. cit., p. 483 25 A. Brogi, L’Italia e l’egemonia.., cit., p. 166

26 Una voce dissonate al riguardo, soprattutto all’interno dell’ambasciata statunitense a Roma, era rappresentata dal nuovo Consigliere d’ambasciata John D. Jernegan, già vice-direttore della sezione Medio Oriente e Africa settentrionale del Dipartimento di Stato. Egli in una sua analisi del 1956 sconsigliava un intervento diretto da parte di Washington, suggerendo che la crescente collaborazione tra i due paesi e la riammissione dell’Italia nella comunità

internazionale sarebbero bastati a tenere l’Italia ancorata alla politica occidentale. A. Brogi,

L’Italia e l’egemonia.., op. cit., p. 169

27 R. Gaja, L’Italia nel mondo bipolare, op. cit., p. 131 28 Cfr. A. Brogi, L’Italia e l’egemonia.., op. cit., p. 209-236

29 Secondo una relazione del Ministero dell’Industria e del Commercio del settembre 1956 la

chiusura del Canale di Suez avrebbe comportato per l’Italia una riduzione del 41% delle importazioni di petrolio. L’assenza di fonti di approvvigionamento alternative avrebbe comportato una riduzione anche dei consumi e della produzione interni. A ciò si sarebbe aggiunta una crisi drastica dei porti italiani e di tutti quei settori dipendenti dal passaggio di merci dal Canale. Queste motivazioni economiche aiutano a capire l’atteggiamento dell’Italia nei confronti di Nasser. L. Cremonesi, Dal rispetto del boicottaggio arabo alle ambizioni di

mediazione. Italia e Israele verso la crisi di Suez, , in E. Di Nolfo-R. H. Rainero-B. Vigezzi (a

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equidistante30. Già prima dell’intervento militare di Francia e Gran

Bretagna cercò di assumere un ruolo di mediatore31 tra le parti in

causa, tanto da essere accusata dalle due potenze coloniali di scarsa fedeltà atlantica e di neutralismo o filonasserismo, accuse a cui l’Italia rispose facendo presente di difendere principi universali e non, come inglesi e francesi, interessi particolari32. “Il

comportamento deviante, rispetto al sistema delle alleanze, non era quello italiano, bensì quello anglo-francese”33, il cui intervento

finì per essere controproducente. In sede Onu la delegazione italiana appoggiò le mozioni statunitensi che chiedevano il ritiro delle truppe anglo-francesi dal Canale, ma nell’ultima votazione, con il ministro degli affari Esteri Martino presente a New York, si astenne34. Di fronte alle critiche provenute dalla Democrazia

Cristiana, il ministro si difese dicendo che la risoluzione non aggiungeva niente alle precedenti già approvate, ma assumeva un

30 Da una parte concesse alla Francia il permesso di transito ai suoi aerei diretti a Corfù in preparazione dell’intervento armato in Egitto, anche se nelle intenzioni italiane doveva servire solo come strumento di pressione sul Cairo, mentre dall’altra assunse un atteggiamento di comprensione verso il nazionalismo arabo di Nasser, cercando di assumere un ruolo di mediatore. R. Gaja, L’Italia nel mondo bipolare.., op. cit., p. 131

31 Il desiderio italiano si scontrava però con la realtà: Nasser, in un’intervista all’ANSA del 20

novembre 1955, aveva escluso che l’Italia potesse svolgere una mediazione tra il Cairo e l’Occidente, o, ancora più categoricamente, tra Egitto e Israele. La politica estera israeliana, d’altronde, si basava sul rifiuto di qualsiasi intervento di Stati terzi nella sua controversia con gli Stati arabi, ritenendo indispensabile un negoziato diretto. L. Cremonesi, Dal rispetto del

boicottaggio arabo alle ambizioni di mediazione…, in E. Di Nolfo-R. H. Rainero-B. Vigezzi (a

cura di), L’Italia e la politica di potenza in Europa (1950-60), op. cit., p. 128-129 32

A. Brogi, L’Italia e l’egemonia.., op. cit., p. 222

33

E. Di Nolfo, La “politica di potenza” e la formule della politica di potenza. Il caso italiano

(1952-1956) , in E. Di Nolfo-R. H. Rainero-B. Vigezzi (a cura di), L’Italia e la politica di potenza in Europa (1950-60), op. cit., p. 721

34

Martino affermò: “L’Italia […] si rende conto che il problema del medio oriente deve essere

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significato polemico con la Francia e la Gran Bretagna35. Suscita

particolare interesse l’atteggiamento assunto dalla diplomazia italiana nei confronti di Israele, la cui responsabilità nell’operazione “Musketeer” fu minimizzata rispetto a quella di Francia e Gran Bretagna. Per tutta la durata della crisi gli scambi tra Roma e Gerusalemme furono incentrati sui danni provocati dalle truppe israeliane agli impianti petroliferi dell’ENI nella regione, stimati in poco più di un milione di dollari americani36. Da parte israeliana si

cercò fin da subito di trovare un accordo proponendo di acquistare il petrolio requisito, ma l’offerta trovò la netta opposizione di Mattei, il quale temeva che sembrasse un’infrazione dell’embargo posto contro Israele e voleva evitare di inimicarsi i paesi arabi, preoccupato per le possibili conseguenze sui rifornimenti energetici. Fu il vice-direttore dell’ENI, Eugenio Cefis, a sbloccare lo stallo senza infrangere il boicottaggio arabo: Israele si impegnò a pagare mezzo milione di dollari e restituire la sonda dell’ENI requisita dai militari.

All’indomani della crisi l’Italia voleva evitare un indebolimento dell’Alleanza Atlantica, ma al tempo stesso cercò di

35

A differenza del Dipartimento di Stato, che condannò l’attacco senza mezzi termini, la

diplomazia italiana insistette sul fatto che l’intervento armato aveva reso impossibile

condannare moralmente la repressione sovietica della crisi ungherese, che raggiungeva il suo apice proprio in quei giorni. La decisione di mettere da parte i toni anticolonialisti era

improntata a non compromettere il processo di integrazione europea e non rafforzare il

rapporto tra Francia e Gran Bretagna. Inoltre l’Italia voleva apparire agli occhi degli Stati Uniti come potenza moderatrice all’interno dell’Alleanza Atlantica, al fine di ottenere un

riconoscimento futuro di maggior influenza. A. Brogi, L’Italia e l’egemonia.., op. cit., p. 232

36

L. Cremonesi, Dal rispetto del boicottaggio arabo alle ambizioni di mediazione…, in E. Di Nolfo-R. H. Rainero-B. Vigezzi (a cura di), L’Italia e la politica di potenza in Europa (1950-60), op. cit., p. 103-116

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istaurare un rapporto privilegiato con Washington tale da garantirle campo libero per la sua espansione economica nel Mediterraneo: si inizia a delineare lo scontro tra la linea di Palazzo Chigi, rappresentata dall’atlantismo e dall’europeismo, e la linea seguita da Gronchi, appoggiata da Fanfani, e coincidente con gli interessi petroliferi di Mattei. Il Capo dello Stato cercò di assumere in qualche modo la guida della politica estera: il 17 marzo 1957, il giorno dopo il colloquio al Quirinale con il vice-presidente americano Nixon avvenuto alla presenza di Segni e dell’ambasciatore statunitense a Roma Zellerbach, scrisse una lettera a Eisenhower nella quale, tra i vari argomenti toccati, rivendicava una maggior considerazione dell’Italia e proponeva un asse privilegiato italo-americano per il Medio Oriente. Gronchi, ben conscio dei limiti posti ai suoi poteri, specificava che erano solo considerazioni personali, aggiungendo che “la responsabilità per la condotta della politica estera del mio paese spetta al governo”37. La

lettera fu bloccata sul tavolo di Palazzo Chigi dal Segretario Generale Alberto Rossi Longhi, dopo aver ricevuto l’approvazione di Segni e Martino. I motivi che portarono il ministero degli Esteri a non inoltrare la missiva38 erano il tono antieuropeo, proprio nel

momento in cui erano in corso gli ultimi negoziati per la firma dei Trattati di Roma, e il carattere incostituzionale dell’interferenza. Il

37 P. Cacace, Venti anni.., op. cit., p. 495 38

L’ambasciatore a Roma Zellerbach informò comunque la Casa Bianca sul contenuto della lettera, ma scoraggiò l’invio da parte di Eisenhower di un messaggio al Quirinale, nel quale veniva apprezzato il contributo italiano, per non danneggiare il fragile meccanismo

(16)

Presidente Gronchi non poté far altro che rassegnarsi. La sua iniziativa, inoltre, era in contrasto con politica petrolifera portata avanti da Mattei, che in quel momento si trovava in uno scontro diretto con le “sette sorelle”39. Era infatti di soli tre giorni prima la

firma dell’accordo tra l’ENI e l’Iran40.

Nel giugno 1957 fu varato il governo Zoli, monocolore DC, dopo la decisione di Saragat (Psdi) di porre fine all’alleanza centrista. Si riprodusse il meccanismo della duplice politica estera: quella di Palazzo Chigi, incarnata dal ministro Pella, impegnata a raggiungere una maggior integrazione atlantica ed europea, e quella neoatlantica, che invece era indirizzata verso un maggior grado di autonomia. Pella cercò di conciliare i 2 orientamenti, attirandosi le critiche dei partiti laici per la politica altalenante ed ambigua portata avanti dal governo Zoli.

La prima applicazione pratica del neoatlantismo si verificò nel settembre del 1957 con la visita di Stato in Iran di Gronchi e Pella per celebrare la formazione della SIRIP41. In questo episodio

risulta chiara la complicità del governo italiano nell’azione di Mattei,

39

Il termine fu coniato da Enrico Mattei negli anni Quaranta per indicare le maggiori compagnie petrolifere internazionali. Fanno parte delle “sette sorelle” la Standard Oil Company of New Jersey (poi Exxon Corporation), la Royal Anglo-Deutsch Shell (poi SHELL), la Anglo-Iranian Oil Company (poi British Petroleum), la Socony Vacum Oil (poi Mobil Corporation), la Standard Oil company of California (poi Chevron Corporation), la Texas Oil Company e la Gul Oil

Corporation. Cfr. L. Maugeri, L’arma del petrolio. Questione petrolifera globale, guerra fredda e

politica italiana nella vicenda di Enrico Mattei, Loggia de’ Lanzi, Firenze 1994, p. 315.

Attualmente le compagnie che controllano il mercato petrolifero sono sempre sette, ma sono per lo più imprese nazionalizzate e appartenenti a Paesi che stanno fuori dall’area OCSE: Saudi Aramco (Arabia Saudita), Gazprom (Russia), China National Petroleum Corporation (Cina), National Iranian Oil Company (Iran), Petróleos de Venezuela (Venezuela), Petrobras (Brasile) e Petronas (Malaysia). Cfr. Financial Times: http://www.ft.com/cms/s/2/471ae1b8-d001-11db-94cb-000b5df10621.html#axzz2TC6YELKv

40

Vedi par. 1.3

41

(17)

al punto che l’ambasciatore Zellerbach arrivò a prospettare la possibilità che il presidente dell’ENI agisse “come se fosse l’effettivo ministro degli Esteri italiano”42. Il segretario di Stato

Dulles, dopo aver ascoltato le precisazioni del ministro Pella riguardo all’episodio dell’accordo petrolifero, fece notare che l’Italia aveva agito secondo le stesse modalità criticate dalla nostra diplomazia riguardo alle grandi potenze, avendo tenuto all’oscuro gli Stati Uniti dell’imminente accordo. Per dimostrare la fedeltà all’Alleanza Atlantica Gronchi e Pella si recarono in novembre in visita in Turchia, che in quel momento si trovava ad essere l’avamposto della Nato contro la penetrazione sovietica in Siria. Anche in questo caso, dietro le dichiarazioni ufficiali, si nascondeva la tentazione di proporsi come mediatore e ridimensionare il ruolo di Ankara nella Nato per le questioni mediorientali, a proprio vantaggio43.

Il ministro degli Esteri Pella, sfruttando la fallimentare applicazione della “Dottrina Eisenhower” in Siria, propose un piano triangolare per assistere finanziariamente i paesi arabi attraverso una deviazione dei prestiti destinati dal Piano Marshall44. Il “Piano

Pella”45 rappresentava la volontà di confrontarsi con l’Unione

Sovietica sul piano economico e psicologico, senza ricorrere all’uso

42

A. Brogi, L’Italia e l’egemonia.., op. cit., p. 275

43

A dimostrazione di questo è rilevante il fatto che in un primo momento Gronchi intendesse recarsi anche in Siria, ma vi rinunciò per la netta opposizione di Palazzo Chigi. Ivi, op. cit., p. 276

44

Ivi, op. cit., 281

45

Il testo del Piano Pella è riportato interamente in E. Ortona, Anni d’America. La diplomazia:

(18)

della forza. Al fine di farlo accettare dagli Stati Uniti, fu presentato come uno strumento in grado di contribuire ad un’equa ripartizione degli impegni, come richiesto più volte da parte di Washington. La gestione sarebbe stata affidata all’OECE, in modo da includere anche paesi neutrali ed evitare che l’intera iniziativa fosse accusata di imperialismo. Nelle intenzioni italiane c’era l’obiettivo di ottenere un vantaggio economico attraverso una triangolazione finanziaria: infatti il Piano avrebbe incrementato le relazioni commerciali tra Europa e Medio Oriente. Per Pella la politica di presenza assumeva un carattere imprescindibile e arrivò a stringere un’intesa con il Presidente del Consiglio francese Gaillard, anche al fine di scongiurare un direttorio anglo-americano nel Mediterraneo. Questo tipo di politica, però, portava ad assumere scelte poco coerenti con gli obiettivi della nostra diplomazia, in primis la vocazione mediterranea, che con l’associazione alla Francia si ridimensionava46. Se da una parte gli americani capirono le

implicazioni interne dell’iniziativa italiana e la necessità di non perdere un prezioso alleato, dall’altra si opporranno al Piano Pella: negli Stati Uniti erano già stati redatti vari piani e si sottolineò l’esigenza di non creare fondi e agenzie in competizione tra di loro. Inoltre c’era una grande squilibrio tra l’impegno finanziario richiesto

46

(19)

e il reale potere di decisione, dato che non erano neanche ufficialmente rappresentati all’interno dell’OECE47.

La decisione, presa dal governo Zoli, di ospitare sul territorio italiano i missili a medio raggio statunitensi portò alcuni, come il leader socialista Nenni, a pensare che il neoatlantismo fosse finito con il completo riallineamento all’ortodossia atlantica48. In realtà, il

neoatlantismo non aveva mai messo in discussione la fedeltà allo schieramento atlantico, anzi si basava proprio sull’allineamento alla politica statunitense per raggiungere un altro obiettivo: una maggior libertà di azione negli affari mediterranei.

1.2 Il breve governo Fanfani

Le elezioni del 25 maggio 1958 non produssero un grande cambiamento nello schieramento politico e i partiti di sinistra, in particolar modo il partito comunista, non subirono ripercussioni dai fatti ungheresi. L’incarico di formare il governo fu affidato, il 25 giugno, a Fanfani che costituì un governo bipartitico DC-PSDI, con l’appoggio esterno del partito repubblicano. Il politico aretino cumulò nella sua persona la carica di Presidente del Consiglio e

47 Gli Stati Uniti, in verità, non bocciarono apertamente il Piano, ma vi fecero mancare il loro

appoggio. Gli alleati europei, rinviando continuamente la questione, determinarono il declino del Piano. D’altronde alla fine del 1957 la priorità di Washington era colmare il “missile gap” con Mosca attraverso l’istallazione di missili a medio raggio (IRBM) in Europa. Il governo Zoli accettò di ospitare sul territorio italiano alcuni di questi missili. Dietro questa decisione si nascondeva l’intento di aumentare il proprio status all’interno dell’Alleanza Atlantica: stesso obiettivo del Piano Pella, ma mezzi diversi per raggiungerlo. A. Brogi, L’Italia e l’egemonia.., op. cit., p. 289-292

48

(20)

Ministro degli affari Esteri, a cui si aggiungeva quella di segretario politico della Democrazia Cristiana49, tanto che alcuni parlarono di

vera e propria “Monarchia”50. Gli Stati Uniti, che vedevano in lui il

nuovo De Gasperi, non si opposero a questa concentrazione, infatti la stima nei confronti di Fanfani era molto cresciuta, rispetto a quando l’ambasciata a Roma era guidata Claire Boothe Luce51 e il

leader della DC era definito “uomo della sinistra”52. Nel suo

discorso di investitura parlò di “allargare l’area delle prosperità nel bacino mediterraneo”, suscitando le reazioni preoccupate di Francia e Stati Uniti, per il rischio di fomentare il nazionalismo arabo53.

La situazione internazionale, con il colpo di Stato in Iraq nel luglio del 1958 e il conseguente intervento anglo-britannico in Libano e Giordania in applicazione delle misure più radicali previste dalla dottrina Eisenhower per il Medio Oriente, spinse Fanfani ad assumere un ruolo più attivo nel Mediterraneo, schierandosi apertamente con gli Stati Uniti, concedendogli di utilizzare l’aeroporto di Capodichino54 per il trasporto dei Marines in Libano.

49

L’unico ad aver concentrato su di sé queste tre cariche fu Alcide De Gasperi nell’ultimo governo del C.L.N. (1945-1946)

50

P. Cacace, Venti anni.., op. cit., p. 503

51

L’ambasciatrice Luce era molto ascoltata negli Stati Uniti. I suoi allarmi, spesso esagerati, sull’avanzata del comunismo in Italia trovavano ampio eco sulla stampa statunitense, grazie anche all’impero editoriale del marito. Cfr. E. Ortona, Anni d’America. La diplomazia.., op. cit., p. 55-60

52

L’unico aspetto osteggiato dagli Stati Uniti riguardava le nazionalizzazioni delle imprese operate dal governo, in sintonia con Mattei. Inoltre vedevano nel politico toscano l’uomo in grado di garantire stabilità e frenare gli eccessi del Presidente della Repubblica. Cfr. A. Brogi,

L’Italia e l’egemonia.., op. cit., p. 297-298

53

Ivi, p. 301

54

L’offerta dell’aeroporto aveva l’obiettivo indiretto di ridimensionare il contributo delle basi concesse dalla Turchia. Inoltre permise di essere costantemente informati sulle operazioni in corso. Ivi, p. 315

(21)

Inoltre svolse un intensa attività diplomatica55 e in occasione della

visita a Washington56 presentò un piano per aiutare i paesi del

Medio Oriente: si trattava di una rielaborazione del Piano Pella, ma questa volta fu accolto in maniera positiva da parte degli Stati Uniti. Secondo Fanfani non esisteva una polarizzazione del Mediterraneo tra filo-occidentali e filo-sovietici e, quindi, il piano finanziario poteva essere il modo per dimostrare l’incompatibilità tra panarabismo e comunismo sovietico57. Anche oltreoceano

videro nel piano lo strumento per frenare la penetrazione sovietica nell’area, ma l’Italia si illuse di poter istaurare un rapporto privilegiato con Washington e trattare con i paesi arabi in nome degli Stati Uniti58. Un importante risultato fu il riconoscimento, nel

comunicato finale dei colloqui con Eisenhower, della posizione e degli interessi dell’Italia in Medio Oriente, e in base a questo la

decisione di prendere in considerazione il punto di vista italiano “su base permanente”59.

Per scongiurare possibili accuse di opportunismo o di eccessiva vicinanza alla causa araba come era avvenuto altre volte in passato, Fanfani, durante il Congresso Nazionale della DC del 6 agosto 1958, chiarì ancora una volta la cornice in cui si collocava il neoatlantismo: fedeltà atlantica come “stella polare della politica

55

Incontrò Eisenhower, MacMillan, Adenauer, De Gaulle, il comandante delle forze Nato in Europa Norstad, il segretario generale della Nato Spaak e il ministro degli Esteri israeliano Golda Meir.

56 Per un resoconto dettagliato della visita di Fanfani a Washington del luglio 1958 si veda: E.

Ortona, Anni d’America. La diplomazia.. , op. cit., p. 306-315

57

A. Brogi, L’Italia e l’egemonia.., op. cit., p. 316

58

P. Cacace, Venti anni.., op. cit., p. 506

59

(22)

estera italiana”60. Ciò non bastò a tranquillizzare gli alleati e le

aperture verso Nasser provocarono l’irritazione della Francia, soprattutto perché al Cairo era nato il “Governo provvisorio della Repubblica algerina” guidato da Ferhat Abbas. Durante i “colloqui mediterranei”, organizzati dal sindaco di Firenze Giorgio La Pira e inaugurati dal Presidente della Repubblica Gronchi e da Fanfani, si verificò un incidente diplomatico tra Roma e Parigi. Il pretesto fu la presenza a Palazzo Vecchio di due delegati dal Fronte di Liberazione Algerino, fatto che portò De Gaulle a ritirare i delegati francesi. Questo episodio assume più importanza se si tiene di conto che La Pira era il braccio destro di Fanfani e faceva parte del comitato per gli affari Esteri costituito in seno alla DC per coadiuvare l’azione del segretario politico.

Il Presidente del Consiglio, e ministro degli Esteri, riteneva possibile influenzare Nasser attraverso aiuti economici. L’obiettivo non era però un allineamento del paese africano all’Occidente, ma una maggior collaborazione con questo. L’impostazione suggerita dall’Italia venne fatta propria dal Presidente Eisenhower, il quale, nonostante lo scetticismo di Dulles riguardo la capacità di fermare le mire espansionistiche del leader egiziano61, presentò

all’Assemblea Generale delle Nazioni Uniti un progetto per la

60

P. Cacace, Venti anni.., op. cit., p. 504

61

Durante un colloquio con Fanfani, riportato dal consigliere economico dell’ambasciata a Washington Egidio Ortona, il segretario di Stato parlò di Nasser nei seguenti termini: “[...] Non basta soddisfare l’Egitto economicamente per indurlo a ragione: chi pensa così sbaglia. L’Egitto accetterebbe l’aiuto economico, ma non rinuncerebbe alle sue ambizioni politiche. […] Ogni sua conquista non è mai l’ultima: non si ferma mai. […] non c’è formula economica che lo induca a fermarsi.” E. Ortona, Anni d’America. La diplomazia.., op. cit., p. 311

(23)

creazione di un “Agenzia di sviluppo per il medio oriente”62.

Fanfani, inoltre, cercò di svolgere un ruolo mediatore tra Washington e il Cairo, proponendo di adottare nei confronti dell’Egitto lo stesso trattamento concesso alla Jugoslavia di Tito, scontrandosi con la netta opposizione del Segretario di Stato americano, il quale, ricordando l’esito fallimentare del finanziamento della diga di Assuan, non era disposto a fare concessioni allo Stato africano. Il leader democristiano si propose come portavoce degli Stati Uniti presso Nasser, presentando, però, le idee come proprie. L’iniziativa italiana incontrò il favore dell’amministrazione Eisenhower63, che intendeva mantenere

l’intera operazione sotto la veste di un’indagine conoscitiva, e non farla diventare un negoziato.

Durante la sua permanenza a Palazzo Chigi, Fanfani attuò una sorta di rivoluzione all’interno dei vertici della diplomazia italiana, dove collocò suoi fedelissimi64. Tra quelli che subirono gli

effetti della così detta rivoluzione dei “Mau-Mau”65 ci fu Albero

62

Gli Stati Uniti, come segno di riconoscimento per il contributo italiano, concessero a Fanfani di leggere in anticipo il discorso che Eisenhower avrebbe tenuto al Palazzo di vetro. Questo elemento “lasciava sperare per l’acquisizione di un rango paritario con gli altri grandi partner europei”. A. Brogi, L’Italia e l’egemonia.., op. cit., p. 321-323

63

Dietro la posizione statunitense vi era la volontà di non turbare gli equilibri interni italiani e scoraggiare spinte autonomiste rispetto all’Alleanza Atlantica. Inoltre oltreoceano speravano, appoggiando Fanfani, nell’effetto indiretto di moderare le aspirazioni, potenzialmente più pericolose, del Presidente Gronchi, ma anche di Mattei. Ivi, p. 328-330

64

Fanfani preparò anche un piano di riforma strutturale per modificare tutta l’organizzazione ministeriale. Tra la varie ipotesi di riforma vi era una suddivisione dei settori d’attività secondo criteri geografici, l’ammissione delle donne alle carriere direttive e il trasferimento della sede ministeriale alla Farnesina, che si verificò solo il 12 settembre 1959. Cfr. P. Cacace, Venti

anni.., op. cit., p. 620

65

Il nome fu assegnato dal redattore della politica estera del New York Times, Cyrus

(24)

Rossi Longhi, colui che aveva bloccato personalmente la lettera di Gronchi ad Eisenhower nel 1957, il quale si vide licenziato dall’ambasciata di Parigi66, dove era stato assegnato neanche un

anno prima, e sostituito con il rappresentante italiano all’Onu, Leonardo Vitelli.

I tentativi del Presidente del Consiglio di assicurare all’Italia un ruolo di mediazione autonomo nel Mediterraneo apparivano sempre più irrealistici e velleitari, anche a causa delle profonde divisioni all’interno del suo stesso partito e della maggioranza di governo. La visita al Cairo, nel gennaio 1959, rivelò tutti i limiti della politica portata avanti da Fanfani, che non ottenne alcun risultato, anche perché gli Stati Uniti non gli affidarono nessun messaggio67. Inoltre, proprio negli stessi giorni, Nasser procedeva

al riconoscimento della Repubblica Democratica Tedesca, dimostrando che la presenza di Fanfani non aveva affatto contenuto il neutralismo sbilanciato del leader egiziano.

Fanfani, una volta tornato in Italia, fu costretto a dimettersi per motivi interni alla stessa Democrazia Cristiana: la guida del governo fu assunta da Segni e Pella fu nominato ministro degli Esteri.

che accomuna l’iniziale di molti cognomi di questi funzionari: Manzini, Malfatti, Marchiori,

Manfredi, Messeri, Aillaud e Conti. Cfr. P. Ottone, Fanfani, Longanesi, Milano 1966, p. 114-117

66

A. Brogi, L’Italia e l’egemonia.., op. cit., p. 300

67

Spiegarono il loro mancato appoggio ad un opera di mediazione elogiando l’autonomia del Presidente del Consiglio, un’autonomia che non aveva bisogno del sigillo ufficiale degli Stati Uniti. Ivi, p.337

(25)

1.3 La diplomazia parallela di Mattei

L’Ente Nazionali Idrocarburi fu istituito con legge numero 136 del 10 febbraio 1953, dopo una lunga discussione iniziata nel 1947, e alla sua guida fu nominato Enrico Mattei, il quale aveva risanato L’Agenzia Generale Italiana Petroli (AGIP) che gli era stata affidata nel dopoguerra con il compito di liquidarla. L’ENI vide la luce nonostante le forti resistenze dei grandi gruppi petroliferi e dei settori più conservatori della politica e dell’industria italiana68. La

legge, che istituiva un vero e proprio monopolio petrolifero, fu approvata grazie al sostegno di De Gasperi e del ministro delle finanze Vanoni e grazie all’astensione dei comunisti69. Mattei si

dimostrò un abile comunicatore e soprattutto seppe usare in maniera aggressiva lo strumento pubblicitario. L’Italia era dipendente dal petrolio estero e l’obiettivo che si impose il neo-presidente era quello di ricercare autonome fonti di petrolio. L’unico modo era sfruttare le crepe esistenti nel blocco delle “sette sorelle” create dal crescente movimento antimperialista70. La

spregiudicatezza di Mattei era tale che non esitò, in qualche occasione, a mandare direttamente disposizioni alle rappresentanze diplomatiche italiane all’estero71. Il giornalista del New York Times

68

M. Pizzigallo, Diplomazia parallela e politica petrolifera nell’Italia del secondo dopoguerra, in M. de Leonardis (a cura di), Il Mediterraneo nella politica estera italiana del secondo

dopoguerra, Il Mulino,Bologna 2003, p. 147

69

L. Maugeri, L’arma del petrolio.., op. cit., p. 77

70

M. Pizzigallo, Diplomazia parallela e politica petrolifera.., op. cit. p. 151

71

(26)

Sulzberger, molto vicino al Dipartimento di Stato, nel 1958 definì il Presidente dell’ENI “eminenza grigia del regime”72.

Nel secondo dopoguerra erano stati scoperti dei giacimenti in Val Padana, dove il monopolio dell’estrazione era nelle mani dell’ENI in virtù della legge petrolifera del 1953, ma i risultati dell’estrazione furono deludenti e si impose un cambio di strategia, soprattutto perché vi era il concreto rischio, non essendo ancora stata approvata la nuova legge petrolifera73, che le compagnie

straniere riuscissero ad avere accesso alla ricerca di petrolio sul territorio nazionale. Fu svolto un primo tentativo in Somalia, ma non fu trovato petrolio. Nel 1954 Mattei incontrò per la prima volta Nasser ed entrarono subito in buoni rapporti74, tanto che l’anno

seguente verrà raggiunto un accordo per permettere all’ENI di acquistare una quota azionaria dell’International Egyptian Oil Company (IEOC).75

Durante la crisi di Suez Enrico Mattei riuscì a raggiungere un importante risultato proprio in Egitto, dove l’ENI realizzò un oleodotto e una raffineria inaugurata a Mostorod alla presenza di

72

N. Perrone, Obiettivo Mattei,op. cit., p. 127

73

E’ infatti del 1957 la legge (n. 25) che regolamentava l’attività estrattiva nel resto d’Italia. La legge, anche se in teoria permetteva concorrenza tra settore pubblico e privato,

scoraggiava i privati a chiedere concessioni. Infatti la legge prevedeva alcune limitazioni importanti per quanto riguarda le aree concesse a scopo di ricerca e perforazione, a cui si aggiungevano limitazioni temporali. Inoltre lo Stato poteva revocare i permessi per il mancato rispetto di alcune norme, ad esempio quelle sull’inizio dei lavori. Tutto questo faceva si che l’AGIP operasse da una posizione privilegiata. Cfr. M. Troilo, Il problema degli idrocarburi

nell’Italia del dopoguerra. Gli anni di Enrico Mattei (1945-1962), in D. Guarnieri (a cura di), Enrico Mattei. Il comandante partigiano, l’uomo politico, il manager di stato, Biblioteca Franco

Serantini editore, Pisa 2007, p. 54-55

74

L. Maugeri, L’arma del petrolio.., op. cit., p. 92

75

Nel 1957 l’ENI divenne azionista di maggioranza, con il 51%, della Compagnie Orientale des Pétroles d’Egypte (COPE), e nel 1960 fu applicata il sistema di divisione paritaria delle quote, lo stesso realizzato per la prima volta in Iran. Ibidem

(27)

Nasser, che in quell’occasione esaltò la cooperazione italo-egiziana. Come è stato sottolineato precedentemente, quasi la metà dei rifornimenti energetici italiani passavano dal Canale di Suez: questa dipendenza economica imponeva il mantenimento di buoni rapporti con il paese nordafricano. Il sottosegretario agli Esteri, Alberto Folchi, all’indomani della nazionalizzazione del Canale di Suez, affermò: “Non è senza significato che sulle rive del Nilo, laddove tramonta il capitalismo internazionale, si affermi il lavoro italiano che appare impegnato attraverso l’ENI in una serie di importanti attività”76. Gli Stati Uniti, a differenza degli inglesi, non

capirono gli effetti che questi fatti avrebbero avuto sulla politica mediterranea italiana, sottovalutando l’acquisizione di sicurezza e determinazione da parte dell’Italia77. L’obiettivo di Mattei era

quello di destabilizzare a breve termine l’equilibrio petrolifero, sfruttando le opportunità derivanti dal nazionalismo antioccidentale.

Il primo grande risultato raggiunto dal petroliere italiano fu l’accordo firmato il 14 marzo 1957 tra l’AGIP e la National Iranian Oil Company (NIOC), in base al quale fu creata la Société Irano-Italienne des Pétroles (SIRIP). Prima di analizzare i dettagli dell’accordo è necessario esaminare gli eventi che portarono a questo importante traguardo. All’inizio degli anni Cinquanta in Iran

76

L. Maugeri, L’arma del petrolio.., op. cit., p. 132

77 A questa errata interpretazione degli eventi contribuì anche un rapporto dell’ambasciatrice

Luce, la quale era in procinto di lasciare l’Italia e quindi probabilmente intenzionata ad onorare il proprio operato. Infatti l’ambasciatrice, solitamente poco tenera nei confronti di Mattei, apprezzò il ruolo dell’Italia nel contesto internazionale e giudicò in maniera positiva il rapporto con gli Stati Uniti. Ivi, p. 135

(28)

operava in esclusiva una sola compagnia, la Anglo Iranian Oil Company (AIOC), il cui azionista di maggioranza era il governo britannico. Nel 1951 iniziò un contenzioso per la ripartizione degli utili tra l’Iran e l’AIOC, e, di fronte all’intransigenza di quest’ultima, il governo presieduto dal leader nazionalista Mossadeq il primo maggio nazionalizzò il petrolio del paese. Le compagnie petrolifere, temendo un effetto a catena sui paesi confinanti, imposero un embargo sul petrolio proveniente dalle concessioni sottratte all’AIOC, portando l’economia iraniana sull’orlo del collasso78.

Teheran, nel corso della crisi, chiese all’Italia l’invio di consulenti dell’AGIP per aiutarli nell’avvio della gestione della NIOC. Dopo la missione dell’AGIP l’Italia avviò un’intensa attività diplomatica, consistente da una parte nella partecipazione dell’ambasciatore italiano Cerulli alle trattative diplomatiche tra Iran e Gran Bretagna, e dall’altra con pressioni su Washington e Londra affinché l’Italia fosse ammessa al consorzio. La Gran Bretagna non gradiva questo attivismo, ma fu soprattutto l’acquisto da parte di alcuni imprenditori italiani del petrolio prodotto dalla NIOC, nonostante i divieti, a determinare l’irritazione dei britannici79. Le

autorità italiane decisero di collaborare con gli inglesi, nonostante dirigenti del ministero degli Esteri avessero chiaro che la solidarietà nei confronti dell’AIOC andasse contro gli interessi nazionali, in

78

L. Maugeri, op. cit., p. 33-34

79

I. Tremolada, La politica petrolifera italiana in Iran: 1951-1957, in D. Guarnieri (a cura di),

Enrico Mattei. Il comandante partigiano, l’uomo politico, il manager di stato, Biblioteca Franco

(29)

quanto l’acquisto di petrolio iraniano da parte di imprese italiane e il pagamento di questo con i prodotti dell’industria nazionale avrebbe rappresentato un’opportunità di sviluppo per l’economia nazionale80. Gli Stati Uniti, di fronte al pericolo concreto di una

penetrazione sovietica nell’area, organizzarono un colpo di Stato81

che mise fine all’esperienza di Mossadeq. Nel 1954 fu creato un consorzio tra le grandi compagnie americane e l’AIOC: il petrolio rimaneva di proprietà della NIOC creata da Mossadeq, mentre la lavorazione e la commercializzazione vennero affidate al consorzio82. Con l’esclusione dal consorzio l’Italia cambiò strategia

e nello stesso anno acquistò la SUPOR83, che andrà a costituire la

base per l’espansione dell’industria petrolifera italiana in Iran attraverso l’ENI. Alla fine del 1954 il Presidente della NIOC, Bayat, avanzò la proposta ai vertici della SUPOR di costituire una società mista a capitale diviso in parti uguali per la lavorazione, trasporto e vendita del petrolio84. Successivamente la richiesta fu inoltrata

dalla NIOC a Emanuele Floridia, imprenditore proprietario di una

80

I. Tremolada, La politica petrolifera italiana.., op. cit., p. 78

81

G. Calchi Novati, Mediterraneo e questione araba nella politica estera italiana, in AA. VV.

Storia dell’Italia repubblicana vol. II/1° La trasformazione dell’Italia: sviluppi e squilibri, Giulio

Einaudi editore, Torino 1995, p. 217-218

82

Per chiarire ulteriormente l’importanza del controllo dei pozzi di petrolio da parte

statunitense è significativo leggere il report (138/1) del National Security Counsil del 6 gennaio 1953. Il rapporto, approvato dal Presidente Truman prima e Eisenhower poi, definiva il petrolio “fattore di egemonia”, il cui controllo rappresentava una ragione di Stato. Venivano identificate nel Venezuela e nel Medio Oriente le uniche fonti per assicurare l’importazione di petrolio necessario al “mondo libero” e si sottolineava come “(…) a niente [poteva] essere permesso di interferire in modo sostanziale con la disponibilità di petrolio da queste fonti (…)”. L. Maugeri,

L’arma del petrolio.., op. cit., p.47

83

Società che si occupava di import-export di materie prime, prodotti e specialità chimiche e farmaceutiche. Nei primi anni Cinquanta aveva cercato di comprare il petrolio iraniano della NIOC scontrandosi con la netta opposizione di Stati Uniti e Gran Bretagna, che porteranno la società al fallimento boicottando la raffinazione del petrolio importato dall’Iran. Cfr. I.

Tremolada, La politica petrolifera italiana in Iran.., op. cit., p. 75-82

84

(30)

raffineria, la STOI85. Floridia, nell’estate del 1956, avviò i primi

contatti per coinvolgere l’ENI e Mattei si dimostrò in linea di massima favorevole all’accordo. Il 14 marzo 1957 Mattei si recò a Teheran per firmare l’accordo, che diventerà effettivo qualche mese dopo con la ratifica da parte del parlamento iraniano. Il contratto ENI-NIOC conteneva importanti novità, tra cui il superamento della formula di divisione degli utili, fino a quel momento “fifty-fifty”, suscitando la forte reazione delle grandi compagnie petrolifere. La “formula Mattei”, o “75/25”, prevedeva che l’Iran percepisse “il 50% degli utili della SIRIP a titolo di prelievo fiscale, e il 50% degli utili al netto delle tasse”86. In realtà il vantaggio per l’Iran era più

apparente che reale, essendo l’ENI esentata dal pagamento di qualsiasi imposta o tassa, tanto che l’ambasciatore italiano a Gedda, Paolucci, alla fine del 1959 parlò, a proposito della “formula Mattei”, di “un’abile mimetizzazione della [formula] fifty-fifty”87. Un

altro elemento di novità contenuto nell’accordo riguardava la partecipazione degli Stati produttori alla fase di ricerca. E’ necessario però sottolineare che la determinazione di Mattei non sarebbe bastata88, senza la volontà dell’Iran di sottrarsi al potere

inglese. Subito dopo la firma la diplomazia statunitense si mise al lavoro per evitare la ratifica del trattato, temendo che analoghe rivendicazioni sulla ripartizione dei profitti fossero avanzate da altri

85 Nel novembre 1956 l’AGIP acquistò la maggioranza delle azioni. Il 30 dicembre 1960 la STOI

venne assorbita completamente dall’ENI.

86

L. Maugeri, L’arma del petrolio.., op. cit., p. 142

87

I. Tremolada, La politica petrolifera italiana in Iran.., op. cit., p. 88

88

(31)

paesi produttori. Inoltre, oltreoceano destava molta preoccupazione la partecipazione attiva all’interno del processo produttivo89, e in

particolare la possibilità di incidere in merito alla quantità di greggio da estrarre. Al di là dell’immagine simbolica dell’accordo, abilmente sfruttata da Mattei, dal punto di vista pratico i risultati furono deludenti, tanto che il Presidente dell’ENI disse: “In Iran ci hanno concesso due minuscole zone e tutti fanno un gran baccano”90.

L’accordo SIRIP apparve subito come il tassello di una più ampia strategia. Il 25 marzo Mattei incontrò il Primo Ministro libico Mustafà Ben Halim e concluse l’accordo per una concessione tra il Fezzan e il confine algerino, offrendo in cambio le stesse condizioni offerte al governo iraniano. Nel giro di pochi mesi il Primo Ministro libico fu licenziato da re Idriss e in settembre Mattei fu informato dall’ambasciatore libico che l’accordo precedentemente firmato non sarebbe stato ratificato. L’ENI accusò gli Stati Uniti di essere intervenuti pesantemente per far cancellare l’accordo91, tesi che

secondo alcuni non sarebbe credibile, e in ogni caso non

89

In realtà l’idea di far partecipare pariteticamente il paese produttore alla gestione del petrolio non era di per sé una garanzia per i paesi produttori, ma, al contrario, rappresentava un rischio. Nel sistema “fifty-fifty” i paesi produttori incassavano per ogni barile un prezzo fisso prestabilito, indipendentemente dal prezzo di mercato, mettendoli al riparo da situazioni di sovrapproduzione petrolifera. Inoltre i paesi produttori incassavano royalties sulla produzione. Il sistema ideato da Mattei andava incontro alle rivendicazioni nazionalistiche del paesi

produttori, ma al tempo stesso li metteva in balìa del mercato internazionale.

90

M. Pizzigallo, Diplomazia parallela e politica petrolifera nell’Italia del secondo dopoguerra, in M. de Leonardis (a cura di), Il mediterraneo nella politica estera italiana del secondo

dopoguerra, op. cit., p. 152

91

Secondo l’ENI la controffensiva americana fu coordinata dall’incaricato d’affari

dell’ambasciata degli Stati Uniti in Italia, John D. Jenergan, e condotta da un alto funzionario del Dipartimento di Stato, John P. Richards. L. Maugeri, L’arma del petrolio.., op. cit., p. 148

(32)

documentabile92. Sarà un caso, ma la stessa concessione che si era

aggiudicato Mattei fu trasferita ad una compagnia americana collegata alla TEXACO, la American Overseas Petroleum. Inoltre, visto l’atteggiamento molto preoccupato mostrato dagli americani dopo l’accordo SIRIP, sembra molto strano che siano rimasti con le mani in mano dopo il nuovo accordo concluso da Mattei, a distanza di soli undici giorni dalla firma dell’accordo iraniano.

L’azione di Mattei, autonoma e spregiudicata, oltre a suscitare la preoccupazione delle grandi compagnie petrolifere, non raccoglieva simpatie neanche in alcuni ambienti governativi italiani. Il Presidente del Consiglio Segni dichiarò all’ambasciatore statunitense Zellerbach di essere all’oscuro sia delle trattative che del contenuto, e il ministro delle partecipazioni statali, Giovanni Togni, sempre in un colloquio con l’ambasciatore, riferì, probabilmente spingendosi oltre il riservo richiesto ad un membro del governo, che Mattei “[aveva] ricevuto carta bianca da un comitato interministeriale presieduto da Segni per negoziare l’accordo ENI-NIOC senza che ciò fosse a conoscenza dell’intero governo”93. Il prendere le distanze e ammettere di non sapere

niente delle azioni intraprese dal presidente dell’ENI, con l’obiettivo di apparire meno compromessi, dimostrava però quanto il governo fosse debole e incapace di controllare quella che era una

92

L. Maugeri, L’arma del petrolio.., op. cit., p. 149

93 Inoltre il ministro fece presente all’ambasciatore che Mattei, grazie al controllo totale sui

fondi dell’ENI, aveva “erogato contributi finanziari a tutti i partiti importanti, alla maggior parte dei leader politici e a molti esponenti della stampa”, e, contestualmente, suggeriva metodi per limitare l’influenza del manager di stato. Rapporto dell’ambasciatore Zellerbach al Dipartimento di Stato del 10 aprile 1957, cit. in Ivi, p. 150-151

(33)

compagnia di Stato. In ogni caso gli Stati Uniti, e in particolare Eisenhower e il segretario di Stato Dulles, ritenevano l’azione svolta da Mattei perfettamente in linea con il principio della libera concorrenza, non prendendo in seria considerazione gli allarmi provenienti dalle agenzie di intelligence94. Nel settembre 1957 l’atteggiamento dell’amministrazione statunitense cambiò a causa di due eventi, che oltreoceano venivano visti come strettamente collegati. In quel mese infatti era prevista sia la visita del Presidente Gronchi in Iran, sia la ratifica da parte del parlamento iraniano dell’accordo SIRIP. A dare maggior sostanza ai sospetti statunitensi contribuì un rapporto dell’ambasciatore Zellerbach, il quale informò il Dipartimento di Stato di un contrasto tra il Presidente del Consiglio Zoli e il ministro degli Esteri Pella da una parte e il Presidente della Repubblica Gronchi dall’altra, il quale avrebbe voluto portare Mattei con sé in Iran95. Il Presidente dell’Eni

fu poi inserito in una delegazione non ufficiale.

Riemergeva nuovamente la volontà da parte del governo di prendere le distanze da Mattei e il ministro Pella valutò anche l’ipotesi di assicurare al Dipartimento di Stato che Mattei non avrebbe intrapreso nessuna attività “senza previa autorizzazione del governo stesso”96. La questione fu abbandonata quando

94

In particolare l’Office for Coordinating Board, che raccoglieva i direttori delle principali agenzie di intelligence, in un rapporto sulla situazione italiana del 3 settembre 1957, rimasto classificato fino al 1992, dedicava ampio spazio alla minaccia rappresentata da Enrico Mattei: minaccia sia per il funzionamento della democrazia italiana, sia per le politiche portate avanti dagli Stati Uniti e per le compagnie petrolifere statunitensi. L. Maugeri, op. cit., p. 152-153

95

Ivi, p. 169

96

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