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Il Work Engagement: tra saper essere e saper essere in relazione

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Academic year: 2021

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DIPARTIMENTO DI SCIENZE POLITICHE

Corso di laurea magistrale in

Comunicazione d’impresa e politica delle risorse umane

TESI DI LAUREA

IL WORK ENGAGEMENT:

TRA SAPER ESSERE E SAPER ESSERE IN RELAZIONE

CANDIDATA

RELATORE

ILARIA TAMMONE

Prof. GIANCAMILLO PALMERINI

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Riassunto analitico

“Lavorare con passione – poiché di questo si sta parlando – si dice Work Engagement.” Così Schaufeli, noto teorico dell’engagement, sintetizza il significato ultimo del costrutto in esame. Esso ha attirato l’attenzione di accademici e operatori HR; di grandi aziende, società di consulenza e istituti di ricerca. Come mai tanto clamore? Cos’è il work engagement? Quali benefici arreca all’individuo e all’organizzazione? E soprattutto, quali fattori lo alimentano? Alla luce dell’ampia letteratura disponibile, l’engagement può essere concepito come il prodotto di sistemi HRM definiti “commitment-based”, e di stili di gestione orientati all’empowerment. Abbiamo quindi approfondito l’entità e l’apporto dei primi, ma soprattutto il significato dei secondi, entrando nel merito della metodologia conosciuta come coaching che persegue non solo l’empowerment, ma anche la riuscita e la realizzazione della persona in ogni ambito di vita. E dunque, quale contributo offre il coaching all’engagement? Perché uno stile di gestione basato sui suoi principi può fare realmente la differenza? A tali questioni abbiamo risposto sia con la teoria che con il riscontro pratico. E il percorso intrapreso ci ha portato al cuore del costrutto: un saper essere e un saper essere in relazione forse ancora appannaggio di pochi, ma che il presente lavoro vuole contribuire a diffondere.

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Prefazione e Ringraziamenti

“Chi ha la pazienza di ricercare la radice etimologica del termine felicità, rimane spesso disorientato. L’aspettativa che l’origine della felicità sia da ricondurre ad uno stato di particolare benessere o di estasi è disattesa. Felicità deriva del verbo feo: produco o fecondo. Ciò implica che la felicità non sia solo il precipitato emozionale di quello che di bello o di piacevole ci accade, ma qualcosa di molto più grande: il risultato delle nostre azioni migliori, quelle tramite le quali noi generiamo, produciamo, creiamo e sviluppiamo. Adottare questa prospettiva implica che essere felici non è il risultato degli effetti positivi dell’ambiente (o del conteso) su di noi, ma il risultato delle nostre migliori azioni e delle nostre migliori energie sul nostro contesto e sul nostro ambiente”.

(Laudadio, Mancuso in Manuale di Psicologia Positiva)

Queste righe, brevi ma incisive, aiutano a comprendere il motivo per cui il lavoro può caratterizzarsi come autentica fonte di felicità per l’individuo: nel contesto lavorativo l’uomo può riversare ed esprimere le sue infinite potenzialità creatrici innescando un processo che genera valore per se stesso, in termini di felicità, e per le collettività di cui fa parte, dall’azienda, alla famiglia, fino all’intera polis. Tale processo virtuoso è alla base di ciò che attualmente definiamo work engagement: le persone engaged esprimono nel lavoro il meglio di sé, dunque le migliori azioni ed energie, traendone beneficio in prima persona, in termini di benessere e realizzazione personale, ma anche arrecando beneficio alle proprie organizzazioni, attraverso le performance di elevato livello, la disponibilità allo sforzo supplementare, l’orientamento all’innovatività, alla qualità, al miglioramento continuo. Esse, insomma, non sono mere “macchine produttive”, ma persone che producono, producendosi al contempo. Il work engagement, quindi, deve essere inteso primariamente come un’opportunità: esso offre l’occasione di ricomporre le antiche fratture tra individuo e organizzazione a vantaggio di entrambi e della più ampia collettività a cui gli stessi appartengono; ed è proprio questa visione che ha ispirato ed orientato il presente studio.

Prima di procedere, però, desidero ringraziare con tutto il cuore coloro che hanno camminato al mio fianco in questo percorso di scoperta. A cominciare dai miei relatori, il Prof. Palmerini e la Prof.ssa Quagliarella, coach professionista e riferimento prezioso per la stesura di questo lavoro. Loro mi hanno accolta, mi hanno dimostrato fiducia e hanno atteso pazienti che io generassi le mie

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verità. Come dimenticare, poi, i professionisti che hanno aderito alla mia causa, l’amministratore delegato e l’area manager; loro, letteralmente, mi hanno aperto la porta, mi hanno regalato il proprio tempo e la propria esperienza, hanno condiviso lo spirito della mia impresa, ed è stato per me un privilegio poter ascoltare e raccontare le loro storie. Infine, ma mai per ultima, la mia famiglia: la mia forza, il mio cuore; grazie a tutti voi.

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“Cavaliere di San Valentino è colui che sa già di esserlo perché partecipa ad una visione attiva, solidaristica e ottimista del mondo e della realtà. Perché vive la tenerezza e la sensibilità, perché è innamorato della vita, dell’amore, di una donna, di un uomo, di un ideale, di un tramonto, di un sentimento.”

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Sommario

Introduzione ... 1

Capitolo 1 – Panoramica di un costrutto ... 3

1.1 Definire il work engagement ... 3

1.2 L’engagement e i costrutti limitrofi ... 6

1.3 I benefici del work engagement ... 9

1.4 Dove risiede il work engagement? ... 15

1.5 Misurare il work engagement ... 21

Capitolo 2 – I drivers del work engagement ... 24

2.1 Introduzione ... 24

2.2 Corrispondenza persona-lavoro-organizzazione ... 25

2.3 Ricompense e Riconoscimenti... 26

2.4 Formazione e Sviluppo ... 28

2.5 Rapporto tra lavoro e vita privata ... 31

2.6 Caratteristiche dell’attività lavorativa ... 33

2.7 Ambiente e atmosfera lavorativa ... 38

2.8 Organizzazione del lavoro ... 44

2.9 Riflessioni conclusive ... 49

Capitolo 3 – Il contributo del Coaching all’Engagement ... 52

3.1 Introduzione ... 52

3.2 L’origine e i principi del coaching ... 54

3.3 Il metodo G.R.O.W... 58

3.4 Case History A: l’amministratore delegato ... 68

3.5 Il manager come coach ... 72

3.6 Case History B: l’area manager (I parte) ... 78

3.7 Le coaching skills per l’engagement ... 83

Capitolo 4 – Tra saper essere e saper essere in relazione ... 88

4.1 Introduzione ... 88

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4.3 Case History B: l’area manager (II parte) ... 91

4.4 La relazione di coaching ... 94

Conclusioni ... 100

APPENDICE ... 106

Case History A – Intervista all’amministratore delegato ... 106

Case History B – Intervista all’area manager ... 110

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Introduzione

Negli ultimi anni, anche in Italia, il tema del work engagement (o employee engagement) ha assunto crescente rilevanza, sia nell’ambito accademico che in quello manageriale (aziendale e consulenziale). Le indagini riferite al costrutto sono aumentate anno dopo anno, dando luogo a nuovi modelli interpretativi e strumenti di analisi. Certamente, l’intensificarsi degli studi ha permesso un accumulo di evidenze e business case in grado di dimostrarne l’importanza, aldilà di ogni dubbio, ma in questo quadro, bisogna innanzitutto cercare di comprendere per quali ragioni il work engagement sia ritenuto così importante.

La nostra ipotesi è che il costrutto si inserisca perfettamente in un contesto lavorativo e organizzativo profondamente mutato rispetto al passato. Tali cambiamenti riguardano non solo la complessità dello scenario competitivo, ma anche l’insieme dei significati attribuiti al lavoro. Infatti, tradizionalmente, il lavoro è stato inteso come pena e fatica, come onere e sacrificio necessari alla sopravvivenza. Nonostante i vari tentativi di rivalutare il significato del lavoro1, nella

storia umana questa concezione negativa e puramente strumentale è stata senza dubbio predominante: l’uomo ha precisi bisogni di ordine vitale, per soddisfare i quali agisce, cioè lavora. Oggi, al contrario, le aspettative nei confronti del lavoro risultano arricchite e rinnovate, principalmente perché nuova enfasi è stata posta sulle sue funzioni espressive e identitarie. In altri termini, il lavoro non è più concepito solo come strumento per ottenere altro (retribuzione, sicurezza economica, status, prestigio, ecc.), bensì come elemento centrale nella costruzione ed espressione dell’identità individuale2. Ciò significa che oggi attraverso il lavoro, le persone

vogliono esprimere se stesse e le proprie potenzialità creatrici; vogliono crescere, aiutare gli altri, dare una forma alle proprie passioni. L’attività lavorativa, quindi, si configura sempre più come aspetto che riguarda l’integralità della persona e il suo percorso di autorealizzazione.

1Pensiamo ai movimenti monastici in epoca medievale che enfatizzarono la necessità del lavoro non solo per la sussistenza, ma anche per la carità e per contrastare il vizio dell’ozio e i piaceri della carne. Oppure all’influsso dell’etica protestante nel capovolgere il primato della vita contemplativa su quella attiva e nel rivalutare il lavoro in termini di vocazione sia spirituale che professionale (Bellini, 2015).

2 I dati pubblicati da alcuni ricercatori belgi nel 2008 (prima quindi della grande crisi economica) documentano un allontanamento dei giovani dal concetto di lavoro come dovere, che viene sostituito da quello di lavoro «con amore» o lavoro come percorso di autorealizzazione. Ciò significa che ormai la relazione «lavoro = mangiare» è psicologicamente e culturalmente improponibile (Bellini, 2015)

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D’altra parte, come anticipato, lo stesso scenario competitivo è fortemente mutato rispetto al passato: attualmente è in corso una vera e propria guerra economica tra le aziende, sia a livello locale che a livello internazionale; siamo, quindi, ben oltre la tradizionale competitività! In questo quadro, il progresso tecnico-scientifico procede ad un ritmo senza precedenti, per cui tutto invecchia rapidamente (strategie, prodotti, servizi, competenze, equilibri organizzativi, ecc.), risultando ben presto inefficiente e/o inefficace. Ancora, le variabili in gioco nella competizione sono tantissime e molto spesso imprevedibili, dal momento che l’interconnessione ha soppiantato la linearità diretta3(causa-effetto). Senza contare che i consumatori, non solo si trovano in una

condizione di iper-scelta, ma dispongono oggi di una mole di informazioni che ha rafforzato ulteriormente il loro potere contrattuale. In sostanza, sperare di far fronte a simili sfide facendo leva solo sulle capacità dei leader, non è più pensabile: le attuali condizioni necessitano del contributo attivo di tutti gli attori organizzativi, leader e collaboratori di ogni livello (Muzzarelli, 2010).

Tuttavia, proprio alla luce delle trasformazioni che hanno investito i significati del lavoro, così come lo scenario competitivo, emerge la centralità del work engagement, inteso (per il momento) come motivazione, impegno, coinvolgimento del personale. Il costrutto, infatti, sembra rispondere perfettamente ad esigenze storicamente in contrasto: da un lato il desiderio dei nuovi lavoratori di appassionarsi al proprio lavoro, di trovare in esso uno scopo e una meta, ovvero di sperimentarlo come autentica fonte di realizzazione; dall’altro lato l’esigenza delle nuove organizzazioni di creare un ambiente lavorativo ad alto coinvolgimento che induca i collaboratori a dare quotidianamente il meglio di sé per poter affrontare con successo le sfide poste da un mercato in costante evoluzione.

Comprendere cosa debba intendersi esattamente per engagement e, soprattutto, come sia possibile incentivarlo, è l’ambizione del presente elaborato.

3 Bellandi parla a tal proposito di era della complessità, sostenendo che, in passato, ci siamo affidati ad una percezione newtoniana della realtà, in cui il cambiamento appariva lineare, continuo e per questo prevedibile. Al contrario “nel

futuro (che è già cominciato) la linearità diretta semplicemente non esisterà” (Bellandi, 2006, p.58); ogni evento

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Capitolo 1 – Panoramica di un costrutto

1.1 Definire il work engagement

“Lavorare con passione – poiché di questo si sta parlando – si dice Work Engagement”. Questa semplice enunciazione, che apre l’opera divulgativa di Schaufeli et al. intitolata non a caso

“Engagement: la passione nel lavoro”, racchiude a nostro avviso il senso ultimo del costrutto in

esame. Eppure rintracciare, nella letteratura, una definizione univoca di work engagement appare un’impresa tutt’altro che facile, vista la molteplicità dei soggetti dediti all’analisi del costrutto. Non solo gli accademici, ma le stesse aziende, come pure le società di consulenza ed i vari Istituti di ricerca, hanno investito tempo ed energie nell’elaborazione di definizioni sempre più puntuali. Chiaramente a ciascuna tipologia di fonte corrisponde un particolare approccio, e di conseguenza una certa enfasi nel focalizzare determinati aspetti, piuttosto che altri. Tra l’altro simili differenze emergono già a livello terminologico, dal momento che in ambito accademico si preferisce parlare di work engagement (traducibile come “impegno, coinvolgimento lavorativo”), mentre nel mondo aziendale e consulenziale si adotta più spesso l’espressione employee engagement (che sta per “impegno, coinvolgimento dei dipendenti”).

Nella loro indagine sulle molteplici concezioni del costrutto, Gemma Robertson-Smith e Carl Markwick (2009) hanno riscontrato che le varie definizioni differiscono, in particolare, per due ordini di ragioni: da un lato il focus sulle dimensioni interiori o esteriori dell’engagement (quindi sullo stato psicologico e/o gli atteggiamenti individuali oppure sui risultati in termini di comportamento e/o di performance); dall’altro lato l’enfasi posta sulla persona, piuttosto che sul rapporto bi-direzionale tra persona e organizzazione. Ad esempio, evidenziano i due autori, le definizioni elaborate in ambito aziendale tendono a focalizzarsi sull’engagement come risultato, facendo riferimento alla maggiore entità dello sforzo lavorativo o alla notevole quantità di tempo speso nel cercare di aggiungere valore ai processi organizzativi, come pure al costante tentativo di utilizzare al massimo i propri talenti (Robertson-Smith, Markwick, 2009). L’enfasi, in questo caso, è tutta sulla persona, tant’è che i dipendenti engaged appaiono perlopiù come sostenitori entusiasti dei valori e degli obiettivi organizzativi. Così, ad esempio: Vodafone intende l’engagement come profondo impegno delle persone nei confronti dell’organizzazione, che conduce a sforzi lavorativi,

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non solo qualitativamente migliori, ma apportati volentieri (Suff, 2008, cit. in Robertson-Smith, Markwick, 2009). Oppure, Johnson & Johnson definisce l’engagement come il grado in cui le persone sono soddisfatte del proprio lavoro, si sentono valorizzate, sperimentano collaborazione e fiducia, risultando così meno inclini a lasciare il proprio posto di lavoro e molto più propense a cercare modi intelligenti ed efficaci per aggiungere valore all’organizzazione (Catteeuw et al., 2007, cit. in Robertson-Smith, Markwick, 2009). E ancora, Nokia Siemens Networks definisce l’engagement come attaccamento emotivo della persona all’azienda, da cui derivano l’orgoglio e la volontà di sostenere l’organizzazione, la razionale comprensione degli obiettivi strategici e dei valori organizzativi, e la disponibilità ad investire sforzi discrezionali per andare ben oltre quanto richiesto (Nokia Siemens Networks, 2008, cit. in Robertson-Smith, Markwick, 2009).

Le definizioni sviluppate in ambito accademico, invece, da un lato prendono in considerazione i risultati dell’engagement, seppur in uno spettro più ampio rispetto all’approccio aziendale; spettro che include ad esempio il comportamento proattivo, la disponibilità ad andare incontro ai bisogni dell’organizzazione (Macey, 2006), lo svolgimento di performance innovative o la voglia di sfidare lo status quo e generare cambiamento (Macey e Schneider, 2008). Dall’altro lato però le definizioni accademiche prestano evidentemente maggiore attenzione alle dimensioni psicologiche e attitudinali caratteristiche dei lavoratori engaged, descrivendo gli stessi come pienamente coinvolti nel proprio lavoro, concentrati, assorti, carichi di energia e di entusiasmo (Robertson-Smith, Markwick, 2009). Ad esempio William Kahn, autore che per primo ha teorizzato il costrutto4, lo ha descritto come il grado di identificazione e/o attaccamento dei membri

dell’organizzazione al proprio ruolo lavorativo, sottolineando in particolare la dimensione della presenza psicologica: in sostanza i lavoratori engaged si impegnano ed esprimono se stessi sul lavoro, fisicamente, cognitivamente ed emotivamente. Su questa scia, Maslach e Leiter (1997) hanno concepito l’engagement come il polo opposto del burnout, essendo quest’ultimo caratterizzato da sfinimento/esaurimento, cinismo/distacco e inefficacia, mentre il primo dalle dimensioni opposte, ovvero energia, coinvolgimento ed efficacia. Rothbard (2001), dal canto suo, ha ribadito l’importanza della dimensione cognitiva suggerendo che l’engagement rifletta in particolare due componenti critiche, ossia l’attenzione e la concentrazione (cit. in Aiello, Tesi, 2016; a cura di Giannini, Bellandi, 2016)

Tuttavia, la definizione più completa, e ad oggi accreditata nel panorama accademico, resta quella proposta da Schaufeli et al. (2002) che descrive l’engagement come stato mentale associato al lavoro, positivo e soddisfacente, caratterizzato da vigore, dedizione e assorbimento. Il vigore fa

4 Nell’articolo intitolato Psychological conditions of personal engagement and disengagement at work, pubblicato nel 1990 sull’Academy of Management Journal.

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riferimento ad elevati livelli di energia e recupero mentale, alla volontà di sforzarsi nello svolgimento dei propri compiti e di persistere di fronte alle difficoltà. Per dedizione s’intende l’essere fortemente coinvolti nel proprio lavoro, sperimentando pienezza di significato, entusiasmo, ispirazione, orgoglio e senso di sfida. Infine l’assorbimento consiste nell’essere completamente concentrati e piacevolmente immersi nel proprio lavoro, al punto da non accorgersi del passare del tempo. E’ interessante osservare che per gli autori, lo stato di engagement non è riferito a condizioni particolari o momentanee; si tratta piuttosto di uno stato affettivo-cognitivo pervasivo e persistente nel tempo (Demerouti et al. 2001).

Al contrario delle precedenti definizioni di engagement, che restano focalizzate principalmente sulla persona, enfatizzando a seconda dei casi gli outcome comportamentali e di performance oppure le disposizioni e gli stati interiori, le descrizioni fornite dagli istituti di consulenza e di ricerca tendono ad inquadrare il costrutto entro il più ampio sistema “persona-organizzazione”. Così, a seconda dei casi, esse fanno riferimento alla necessità di allineare le prestazioni (individuali e di gruppo) agli obiettivi organizzativi e al successo aziendale, o alla possibilità di creare culture di valore in cui i lavoratori si sentano rispettati, valorizzati e compresi nelle proprie istanze (Robertson-Smith, Markwick, 2009). Ad esempio Mercer (società newyorkese leader nella consulenza, con sedi anche a Roma e Milano) definisce l’engagement come condizione mentale in cui i dipendenti sono interessati al successo aziendale, quindi disposti e motivati a svolgere performance di livello superiore a quello richiesto; tutto ciò, per Mercer, è il risultato di come i lavoratori percepiscono l’esperienza lavorativa, ossia l’organizzazione, i suoi leader, il lavoro e l’ambiente di lavoro (Mercer, 2007, cit. in Robertson-Smith, Markwick, 2009). Oppure, il londinese Chartered Institute of Personnel and Development (CIPD) considera l’engagement come una combinazione di impegno nei confronti dell’organizzazione e i suoi valori, unito alla disponibilità ad aiutare e sostenere i propri colleghi; e aggiunge che l’engagement è un qualcosa che il dipendente ha da offrire e non può essere richiesto nell’ambito del contratto di lavoro o del processo di definizione degli obiettivi (CIPD, 2007, cit in Robertson-Smith, Markwick, 2009 e Bridger, 2016). Ancora, sul sito web di Engage for Success5 l’employee engagement è definito

come approccio al lavoro progettato per garantire che i dipendenti s’impegnino verso gli obiettivi e i valori della propria azienda, siano motivati a contribuire al successo organizzativo e siano in grado, al tempo stesso, di migliorare il proprio senso di benessere (Bridger, 2016). Analogamente l’Institute of Employment Studies6 (IES), in seguito ad uno studio condotto nel 2004, ha inquadrato

5 Movimento britannico, attivo a livello nazionale con l’obiettivo di migliorare l’employee engagement nel Regno Unito. Il movimento nasce in seguito alla pubblicazione dell’indagine Engaging for Success: Enhancing performance

through employee engagement (2009), condotta da David MacLeaod e Nita Clarke su incarico del governo britannico.

6 Centro di ricerca e consulenza (nell’ambito delle politiche del lavoro e della gestione risorse umane), internazionale, indipendente e apolitico, con sede a Brighton.

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l’engagement nei termini di atteggiamento positivo tenuto dal dipendente verso l’organizzazione e i suoi valori, aggiungendo però, che il lavoratore engaged è a conoscenza del contesto di business e lavora con i colleghi per migliorare le prestazioni a beneficio dell’organizzazione, e allo stesso tempo quest’ultima lavora per sviluppare e coltivare l’engagement, che richiede sempre un rapporto bi-direzionale tra lavoratore e datore (Robinson et al. 2004).

Dunque, scorrendo le definizioni riportate emergono una serie di concetti chiave riferiti:

• all’engagement come stato, o condizione mentale, di soddisfazione, motivazione, impegno, valorizzazione, attaccamento, identificazione, coinvolgimento;

• all’engagement come atteggiamento positivo che include entusiasmo, orgoglio, lealtà, dedizione, ispirazione, passione, senso di sfida;

• all’engagement come outcome in termini comportamento e/o di performance, quindi alla volontà di investire extra-sforzo nello svolgimento dei propri compiti, alla disponibilità a sostenere ed aiutare i colleghi o ad andare incontro alle esigenze organizzative, all’iniziativa, alla superiore qualità delle performance, alla capacità di creare valore e generare cambiamento, all’innovatività.

D’altra parte, emerge con chiarezza anche il ruolo giocato dall’organizzazione, ad esempio nel costruire una cultura inclusiva e partecipativa, nel diffondere valori autentici, nel creare un ambiente di lavoro collaborativo e supportivo, nel valorizzare i dipendenti come persone, oltre che come risorsa strategica, nel preoccuparsi costantemente del benessere e dello sviluppo di ciascun collaboratore.

Tutti questi aspetti sono collegati e parimenti importanti per l’engagement. Parliamo quindi, di un costrutto complesso e multi-sfaccettato, proprio perché irriducibile ad una dimensione o definizione univoca. Anzi, ciò che si osserva, “è che tutte le componenti si rafforzano a vicenda

contribuendo al livello generale dell’employee engagement” (Bridger, 2016, p. 6).

1.2 L’engagement e i costrutti limitrofi

Guardando ai molteplici significati attribuiti al work engagement, si possono riscontrare chiare sovrapposizioni con una serie di costrutti precedentemente teorizzati. Ciò ha portato molti studiosi a chiedersi se, realmente, non avessero a che fare con una miscela di vecchi vini, opportunamente

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travasata in nuove bottiglie (Macey, Schneider, 2008; MacLeod, Clarke, 2009). Ad esempio, la somiglianza che per prima balza all’occhio, è quella tra l’engagement e la soddisfazione lavorativa. Quest’ultima è definita come atteggiamento verso il proprio lavoro, ovvero come ciò che si prova nei confronti dello stesso o di alcuni suoi aspetti (Cortese, 2001, cit. in Aiello et al. 2012, p. 89). Entrambi i costrutti sottintendono, evidentemente, la dimensione affettiva, ma non per questo ci si può illudere di misurare l’engagement semplicemente valutando la soddisfazione individuale rispetto all’azienda, ai suoi manager, alle caratteristiche del lavoro o dell’ambiente di lavoro (Macey, Schneider, 2008). L’engagement va oltre la soddisfazione per le generali condizioni di impiego, implicando anche la passione, l’impegno, la volontà di investire se stessi e i propri sforzi per aiutare l’organizzazione a riuscire (Erickson, 2005, in Macey, Schneider, 2008). In altri termini, l’engagement implica forte attivazione, mentre la soddisfazione può anche configurarsi come condizione più statica di sazietà e/o appagamento. Di conseguenza: “quando la

soddisfazione è valutata come sazietà non rientra nello spazio concettuale dell’engagement. Quando la soddisfazione è valutata come sensazioni di energia, entusiasmo o analoghi stati affettivi, diventa uno degli aspetti dell’engagement” (Macey, Schneider, 2008, p. 6 – Proposition 1). Simili conclusioni le ritroviamo anche nel report Engaging for Success, laddove gli autori

giungono a sostenere che “soddisfazione ed engagement differiscono nel loro potere predittivo

sugli outcome” (MacLeod, Clarke, 2009, p. 9), questo per ribadire l’influenza del secondo sui

comportamenti in termini di produttività.

La dimensione dell’attivazione, presente nel costrutto, apre ad un’altra sovrapposizione, quella tra l’engagement e la motivazione. Da questo punto di vista possiamo innanzitutto anticipare che il ruolo dell’engagement come mediatore dei processi motivazionali è stato ampiamente dimostrato entro il framework del modello Job Demands-Resources (Demerouti, Bakker, Nachreiner, Schaufeli, 2001), ad oggi, tra i più accreditati nel panorama accademico. Per quanto riguarda le possibilità di sovrapposizione dei due costrutti, si rende necessaria, anche in questo caso, una distinzione: quella tra la motivazione intrinseca ed estrinseca. Quest’ultima si attiva in relazione all’ottenimento di risultati utilitaristici (ricompense economiche, avanzamento di carriera, conservazione del posto di lavoro, ecc.) esterni all’attività lavorativa in sé; al contrario le persone motivate intrinsecamente lavorano per il gusto di farlo, perché trovano la loro attività piacevole, significativa e stimolante, dunque per loro la ricompensa è il lavoro stesso. In tal senso possiamo tranquillamente ammettere, come fa lo stesso Schaufeli in una delle sue opere divulgative, che “parlare di work engagement vuol dire parlare di motivazione intrinseca” (Schaufeli et al., 2012, p. 49).

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Tuttavia vi è un’ulteriore implicazione nell’engagement, che consente di disambiguare definitivamente il costrutto, anche rispetto ai concetti limitrofi di job involvement e di commitment

organizzativo. Questi ultimi, infatti, come l’engagement, si riferiscono a forme di attaccamento

positivo al lavoro; da qui le sovrapposizioni. In particolare l’involvement (tradotto generalmente in “coinvolgimento”) può essere definito come uno stato cognitivo di identificazione psicologica della persona col suo lavoro, legato al grado di importanza che il lavoro stesso riveste per la persona, soprattutto in termini di autostima (Kanungo, 1982, cit. in Hllberg, Schaufeli, 2006). Il commitment, invece, fa riferimento al legame psicologico che il lavoratore sviluppa nei confronti della propria organizzazione: ad un estremo del continuum troviamo l’assenza di impegno, l’alienazione ed il totale disinteresse per il proprio lavoro, mentre sul versante opposto abbiamo il massimo coinvolgimento del lavoratore, espresso in termini di appartenenza, orgoglio, interesse ed impegno (Macey, Schneider, 2008).

Tali sovrapposizioni, ovviamente, non sono sfuggite agli studiosi. Hallberg e Schaufeli (2006), ad esempio, hanno sottolineato che la concettualizzazione di work engagement implica uno stato di benessere caratterizzato da elevati livelli di energia investiti nel lavoro (in ciò l’attivazione, caratteristica della dimensione motivazionale di cui sopra); tuttavia il costrutto fa anche riferimento all’involvement (es. l’essere dediti, entusiasti o ispirati dal proprio lavoro) e al commitment (es. l’essere assorbiti e attaccati al lavoro). Si può dunque ammettere che tali costrutti (engagement, involvement, commitment, e per estensione la motivazione intrinseca) condividono alcuni aspetti e contengono reciproci riferimenti teorici (Hallberg, Schaufeli, 2006). Eppure non si sovrappongono del tutto per almeno due ragioni. La prima riguarda il fatto che l’engagement, soprattutto in ambito accademico, rappresenta una progressione degli studi sul benessere individuale e organizzativo; esso quindi, a differenza degli altri costrutti, è associato primariamente all’assenza di disturbi della salute mentale e fisica (es. sintomi depressivi, disturbi somatici o del sonno, ecc.). In altri termini l’engagement è innanzitutto una concettualizzazione del funzionamento ottimale dell’individuo da un punto di vista salutogenico (Hallberg, Schaufeli, 2006). La seconda ragione riguarda il fatto che l’engagement, a differenza dei citati concetti limitrofi, è un costrutto bi-direzionale7, ovvero: “le organizzazioni devono lavorare per favorire

l’impegno del lavoratore, il quale a sua volta ha una scelta sul livello di impegno da offrire”

(MacLeod, Clarke, 2009, p. 9).

7 Non a caso il termine, nella lingua inglese, oltre ad essere sinonimo di involvement (coinvolgimento) e commitment (impegno), significa anche “fidanzamento, impegno di matrimonio”, a confermare la sfumatura di una promessa reciproca.

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In questa prospettiva, l’engagement risulta differenziato non solo dai costrutti già introdotti, ma anche dalla più ampia concettualizzazione dei “comportamenti di cittadinanza organizzativa”, intesi come manifestazioni discrezionali e prosociali finalizzate a fornire un sostegno sociale e psicologico per lo svolgimento dei compiti legati al ruolo (Organ, 1990, cit. in Aiello et al. 2012). Come si evince, nessun “vecchio costrutto” risulta strettamente associato al benessere individuale e al rapporto bi-direzionale tra persona e organizzazione; l’engagement sì.

Un’ultima osservazione va fatta in merito alla vicinanza concettuale tra engagement e stato di flow. Quest’ultimo è definito nei termini di “esperienza olistica, caratterizzata da un’improvvisa

espansione dei confini del sé, da una destrutturazione dell’esperienza temporale e da un significativo incremento della percezione di controllo nei confronti dell’attività svolta”

(Csikszentmihalyi, 1975/2000, cit. in Muzio et al. 2012, p. 23). Questa dimensione di totale assorbimento e concentrazione è presente anche nell’engagement, con la differenza che il flow tende a caratterizzarsi come esperienza di picco, mentre l’engagement è una condizione di gran lunga più stabile e duratura (Hallberg, Schaufeli, 2006). Dunque, una volta operate le necessarie disambiguazioni, l’engagement appare per quello che è: un concetto assai più ampio della somma delle sue singole parti (Robinson et al, 2004). In tal senso risulta quantomeno condivisibile la posizione di MacLeod e Clarke, i quali affermano che, nonostante il dibattito sul significato preciso dell’engagement, ci sono tre cose che sappiamo: è misurabile, è correlato alle prestazioni e può variare da un livello minimo ad un livello massimo. Ma soprattutto, le organizzazioni possono fare molto per influenzarlo ed è qui che risiede la sua importanza come strumento per il successo aziendale (MacLeod, Clarke, 2009).

1.3 I benefici del work engagement

In questo paragrafo andremo ad analizzare i benefici tangibili del work engagement con riferimento sia al singolo che all’organizzazione nel suo complesso. Si è scelto di trattare congiuntamente i due piani del discorso per il semplice fatto che, nella maggior parte dei casi, gli effetti positivi riscontrabili a livello individuale si ripercuotono sistemicamente sul versante organizzativo. Dunque, partendo dall’individuo, uno dei principali benefici dell’engagement, e forse il più importante in una prospettiva sistemica, è rappresentato dalle emozioni positive. Essere

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(Schaufeli et al. 2012). Per comprendere il rapporto tra l’engagement e la felicità/soddisfazione personale bisogna aprire un'importante parentesi sulla Psicologia Positiva e presentare brevemente la sua storia.

Questa branca della psicologia si è sviluppata nell’ultimo ventennio circa, soprattutto grazie al lavoro di Martin Seligman, sia come ricercatore (il suo nome è legato alla Teoria dell’impotenza appresa che vede alla base dei comportamenti depressivi, la convinzione umana di essere impotenti di fronte agli eventi della vita; ciò ha successivamente stimolato le ricerche dell’autore sull’ottimismo appreso e sulla natura della felicità/benessere), sia come presidente della American Psychological Association (APA, 1998). Il grande merito di questo autore è quello di aver insistito sulla necessità di ampliare gli orizzonti degli studi psicologici. Questi, infatti, dai loro esordi all’inizio del 900 fino a pochi anni fa, si sono concentrati principalmente sulla patologia, sullo studio di cosa è “sbagliato” nelle persone e sull’analisi dei fattori (stati emotivi, processi cognitivi, fattori ambientali) in grado di compromettere il buon funzionamento psicologico. Al contrario secondo Seligman il trattamento psicologico non doveva riguardare unicamente ciò che è sbagliato ma concorrere alla formazione di ciò che è giusto e buono per le persone (Laudadio, Mancuso, 2015). Urgeva, dunque, un ampliamento di prospettiva tramite lo “spostamento del focus dalla

malattia alle risorse degli individui, dal dolore alla felicità, dai limiti alle opportunità” (ibidem p.

27).

In tale urgenza si colloca la nascita della Psicologia Positiva (Seligman, Csiksentmihailyi, Fowler, 1998), ossia di una scienza psicologica rivolta allo studio delle emozioni positive, delle virtù personali e dei punti di forza – intesi come caratteristiche positive – e delle istituzioni positive (es. democrazia, famiglia, libera inchiesta ecc.). Come osservano molti autori (Linley et al. 2006 cit. in Laudadio, Mancuso, 2015; Bridger, 2016) la Psicologia Positiva non rappresenta una novità del tutto inedita, anzi: molti dei suoi contenuti erano già presenti nella filosofia classica, nella psicologia umanistica e sociale, come pure nel counseling psicologico. Tuttavia il merito di Seligman resta duplice in quanto da un lato, anche in virtù della sua posizione come presidente dell’APA, è riuscito a riunire i diversi spunti già ampiamente presenti in letteratura in una visione olistica e sistemica, incoraggiandone lo sviluppo; dall’altro lato ha dotato la nuova branca di un caratteristico approccio strengths-based (letteralmente, basato sui punti di forza) che punta ad individuare ciò che funziona e a coltivarlo, invece di continuare a concentrarsi su ciò che non funziona e su come risolvere i problemi.

Dunque, fin dalla sua nascita, la Psicologia Positiva si è posta come obiettivo la costruzione del benessere e del funzionamento ottimale dell’individuo, concetti inizialmente concepiti nei termini

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di felicità. Nel 2002, Seligman formula la nota Teoria della felicità autentica8 secondo cui la

felicità si compone sostanzialmente di tre elementi (Laudadio, Mancuso, 2015):

• le emozioni positive (Positive Emotions), come la gioia, il piacere, il calore e in generale tutte le gratificazioni derivanti dai sensi;

• il coinvolgimento (Engagement), che riguarda le attività in grado di suscitare nell'individuo delle esperienze ottimali, dallo sperimentare uno stato di massima concentrazione e assorbimento, all'essere un tutt'uno con ciò si sta facendo, al sentirsi pieni di energia; • il significato (Meaning), che invece riguarda la ricerca del senso della propria esistenza,

quindi il sentirsi parte di qualcosa di più grande rispetto alla sola individualità o il disporre i propri talenti e le proprie caratteristiche migliori al servizio di uno scopo sovraindividuale. In tal senso è facile rendersi conto come nel work engagement siano presenti, perlomeno in linea teorica, tutti e tre questi elementi: il coinvolgimento e l'impegno nell'attività professionale, il significato intrinseco ed estrinseco attribuito alla stessa, e di conseguenza l'emergenza di stati emotivi positivi. Pertanto si può concepire l'engagement lavorativo come “condizione di autentica felicità e soddisfazione personale”, in grado di comportare molteplici benefici, non solo per quanto riguarda il benessere individuale, ma anche in termini di prestazioni e risultati.

Difatti, in merito al primo aspetto, numerosi studi dimostrano che i lavoratori engaged godono di migliore salute, ovvero soffrono meno di malattie psicosomatiche e problemi fisici (emicranie, tensioni muscolari, dolori alla schiena o al collo), ma sono anche meno inclini a sperimentare ansia, depressione, stress, disturbi del sonno o della concentrazione. D'altra parte i dipendenti

engaged sono anche i più soddisfatti, stando agli studi già citati di Macey e Sneider che

individuano la soddisfazione lavorativa come uno degli aspetti dell'engagement (Macey e Schneider, 2008, p. 6 – Proposition 1). Chiaramente sul versante organizzativo tutto ciò si traduce in una minore incidenza dell’assenteismo per malattia e del turnover volontario.

Ad esempio, una ricerca condotta da Aon Hewitt nel 2012 ha dimostrato che nelle aziende ad alto tasso di engagement i dipendenti contano in media sette giorni di assenza all’anno, pari alla metà dei loro colleghi operanti in aziende a basso tasso di engagement (Aon Hewitt, 2012). O ancora, una ricerca della Aston University condotta sui dipendenti del servizio sanitario del Regno Unito (i quali nel 2009 hanno totalizzato 10,7 milioni di giornate di assenza per malattia, con un costo equivalente a 1,75 miliardi di sterline) ha dimostrato che un aumento della deviazione standard dell’engagement è associato ad una riduzione delle assenze sufficiente a generare un risparmio di

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150.000 sterline in costi salariali (Bridger, 2016).

Anche in merito al turnover volontario, i risultati di studi e ricerche sono unanimi: “i dipendenti

ad alto engagement sono significativamente più propensi a voler rimanere con la propria organizzazione rispetto a coloro che hanno un basso engagement” (Bridger, 2016, p.28). Basti

citare uno studio del 2004 condotto dal Corporate Leadership Council (CLC – è una membership di innovativi Responsabili delle risorse umane che puntano ad ottimizzare le prestazioni delle funzioni HR, anche attraverso studi, ricerche ed approfondimenti) coinvolgendo 50.000 dipendenti di 59 organizzazioni appartenenti a 27 diversi paesi. Tale studio dimostrò, tra le altre cose, che aumentando il livello di engagement, le aziende possono aspettarsi una riduzione dell'87% della probabilità di dimissioni volontarie da parte dei propri dipendenti (Corporate Leadership Council, Coporate Executive Board, 2004).

Per comprendere, invece, il collegamento tra engagement, emotività positiva e risultati, possiamo far riferimento al lavoro di un altro autore importante nell’ambito della Psicologia Positiva, Shawn Achor, il quale nella sua opera intitolata “The Happiness Advantage” (2011) ha dimostrato come le emozioni positive alimentino il successo e le prestazioni migliori. In sostanza i suoi studi hanno messo in discussione il paradigma corrente che vedeva la felicità come risultato del successo, affermando il contrario: la felicità è in realtà un precursore del successo. La Bridger, nel suo testo, sintetizza nel modo seguente le scoperte di Achor e la loro rilevanza rispetto al tema dell’engagement:

“Quando sperimentiamo emozioni positive, si osserva un aumento dei livelli di serotonina

e dopamina, che sono neurotrasmettitori (…) Queste particolari sostanze chimiche non solo ci fanno sentire bene, ma attivano e potenziano i centri di apprendimento all’interno del nostro cervello. Questi ci aiutano a organizzare nuove informazioni in modo più efficace, conservarle più a lungo e recuperarle in modo più rapido. Inoltre si creano e si consolidano connessioni neurali che ci permettono di pensare in modo più creativo, vedere le cose in modo diverso, migliorare la nostra capacità di problem-solving, analizzare più abilmente informazioni complesse. Per riassumere, quando abbiamo un elevato livello di engagement abbiamo più opportunità di sperimentare emozioni positive, e quando sperimentiamo queste emozioni positive il rilascio di sostanze chimiche ad esse associate ci permette di operare ad un livello più alto: l’engagement porta a migliori prestazioni” (Bridger, 2016, p.48).

A conclusioni simili in merito al rapporto tra emotività positiva e risultati, era giunta in precedenza anche Barbara Fredrickson, autrice della Broad-and-Build Theory (2001). Il nucleo concettuale di tale teoria è che le emozioni positive ampliano (broad) il repertorio di pensieri ed azioni portando a costruire (build) in modo duraturo risorse intellettuali, fisiche e sociali da cui attingere per

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aumentare le proprie probabilità di successo e di resistenza. Questo processo identificato dalla Fredrickson ha portato molti studiosi a parlare di spirale positiva innescata dall’engagement. Così Schaufeli, nella sua opera divulgativa, scrive: “quando i dipendenti sperimentano emozioni

positive, allargano il loro repertorio di azioni e accumulano risorse, sia personali che professionali (…) Le risorse accresciute portano a loro volta ad un maggiore engagement che stimola l’accumulo di ancor più risorse, che porterà ad un ulteriore engagement, eccetera”

(Schaufeli, 2012, p.104).

Dunque i lavoratori engaged, proprio per il fatto di sperimentare più frequentemente emozioni positive nello svolgimento delle proprie attività, da un alto riescono più facilmente ad attivare ed ampliare le proprie risorse dando luogo spontaneamente a quei processi di miglioramento continuo tanto invocati dalle aziende; dall’altro lato, dispongono evidentemente di una maggiore apertura mentale e di una maggiore apertura alle relazioni. Quali ripercussioni sul versante organizzativo? Senza dubbio molteplici.

L’apertura mentale comporta creatività, innovatività, capacità di problem-solving e, in ultima analisi, prestazioni migliori. Innumerevoli studi hanno dimostrato l’esistenza di una significativa correlazione tra l’engagement e il potenziale di innovazione. Alfes et al. (2013), ad esempio, hanno analizzato i dati provenienti da oltre 2000 dipendenti operanti in una società di riciclaggio, dimostrando, tra le altre cose, che l’engagement è fortemente legato ad un comportamento innovativo. Krueger e Killham nel 2007, analizzando i dati Gallup, riscontrarono che il 59% dei dipendenti ad alto engagement aveva dichiarato che il loro lavoro faceva emergere le loro idee più creative, mentre solo il 3% dei dipendenti a basso engagement aveva dichiarato lo stesso. Per quanto riguarda le prestazioni, a titolo di esempio, citiamo uno studio Towers Watson del 2012 che ha rilevato come i dipendenti ad alto engagement avessero più del doppio delle probabilità di essere top performer rispetto ai colleghi a basso engagement (cit. in Bridger, 2016). Studi specifici si sono condotti anche sulla produttività, il fatturato e l’incidenza di errori. In uno degli studi pioneristici dell’Institute of Employment Studies, Barber et al. (1999) dimostrarono che l’engagement influenza direttamente il potenziale di vendita: un aumento dell’1% del primo può portare ad un aumento mensile del 9% delle vendite. Schaufeli e colleghi in una ricerca su oltre 2000 medici olandesi hanno riscontrato che, nonostante il 56% avesse dichiarato di aver commesso errori in grado di compromettere la salute del paziente, i medici engaged avevano riportato un numero di errori minore.

D’altra parte l’apertura alle relazioni, sempre conseguente dall’emotività positiva, consente un maggiore orientamento al cliente in termini di soddisfazione e fidelizzazione, e allo stesso tempo un’atmosfera lavorativa positiva. In merito al primo punto la Bridger osserva come gli stessi

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dipendenti siano concordi nel ritenere che engagement e customer satisfaction vadano di pari passo e cita in particolare uno studio del 2007 condotto sui dipendenti pubblici del Regno Unito: il 78% di quelli ad alto engagement dichiarò di essere in grado di ottenere un impatto significativo sulla fornitura dei servizi e sull’assistenza ai clienti. Una ricerca più recente condotta da Harter et al. (2012) per la Gallup ha dimostrato che i dipendenti ad alto engagement trasferiscono emozioni e atteggiamenti positivi verso i clienti impegnandosi in sforzi discrezionali per offrire elevati livelli di servizio alla clientela.

Per quanto riguarda l’atmosfera lavorativa, molti studi hanno dimostrato, non solo l’influenza dell’engagement sui comportamenti di cittadinanza organizzativa, ma anche l’effetto contagio delle emozioni positive e dell’engagement. Il lavoro di Schaufeli e colleghi, ad esempio, ha confermato che lavorando a contatto con persone engaged è più facile sentirsi ottimisti, motivati e appassionati perché il nostro cervello è capace di riaggiustare la propria disposizione relazionale in una maniera compatibile con il linguaggio del corpo altrui. Chiaramente questo principio è valido anche al negativo ed ampiamente documentato nell’ambito degli studi riguardanti il burnout o la noia. Tuttavia gli autori hanno dimostrato che il “contagio positivo” è molto più comune di quello negativo, per cui c’è molta più probabilità che un dipendente engaged “infetti” un suo collega demotivato, che non viceversa (Schaufeli et al., 2012). Tra l’altro proprio in virtù di quest’aspetto molti studiosi concepiscono l’engagement come fenomeno collettivo piuttosto che individuale, differenziando ulteriormente il costrutto da quelli limitrofi analizzati in precedenza. E’ chiaro quindi come i benefici tratti dal singolo lavoratore engaged – stati emotivi positivi, buona salute, motivazione intrinseca legata al significato attribuito all’attività lavorativa, miglioramento continuo – si ripercuotano direttamente sul versante organizzativo in termini di: riduzione dell’assenteismo e del turnover volontario, incremento del potenziale innovativo e delle capacità di problem-solving, rinnovata volontà di compiere sforzi discrezionali diretti al miglioramento delle performance lavorative, maggiore orientamento alla soddisfazione e fidelizzazione del cliente, miglioramento spontaneo dell’atmosfera lavorativa.

L’insieme di questi benefici, naturalmente, spiega il collegamento tra l’engagement e la performance finanziaria complessiva delle aziende: nel 2012, il Global Workforce Study dell’agenzia internazionale Towers Watson, ha dimostrato che le aziende con livelli elevati e sostenibili di engagement hanno un margine medio annuo tre volte superiore rispetto alle aziende con bassi livelli di engagement (Towers Watson, 2012). A maggior ragione una ricerca di Aon Hewitt pubblicata nel 2011 ha confermato la correlazione tra engagement e performance finanziaria anche in periodi di forte crisi economica: esaminando oltre 5.700 aziende presenti nel loro database, è emerso infatti che nel 2010, le organizzazioni con livello di engagement pari o

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superiore al 65% hanno fruttato agli azionisti un rendimento totale superiore del 22% rispetto alla media di mercato (cit. in Bridger, 2016). Concludendo, benessere psico-fisico ma anche materiale: questi i benefici tangibili del work engagement.

1.4 Dove risiede il work engagement?

In un articolo pubblicato su L’impresa, la rivista manageriale del Gruppo 24 Ore, Laura Borgogni (2014), docente di Psicologia del lavoro e delle organizzazioni presso La Sapienza di Roma, affronta in modo sintetico ed efficace una delle questioni cruciali riguardanti il work engagement: esso dipende dall’ambiente o dalla persona? Sostanzialmente da entrambi, o meglio dal loro reciproco adattamento. La Borgogni, infatti, chiarisce che l’engagement risiede sostanzialmente: nell’equilibrio tra richieste lavorative e risorse (lavorative ma anche personali); nella soddisfazione delle inclinazioni motivazionali personali; nell’allineamento tra i valori individuali e quelli organizzativi. Di seguito vengono analizzati tutti e tre gli aspetti.

L’equilibrio tra richieste e risorse: il Modello JD-R

Per comprendere il primo punto dobbiamo far riferimento al Modello Job Demands-Resources, o più semplicemente JD-R (Demerouti, Bakker, Nachreiner e Schaufeli, 2001), elaborato nell’ambito della Psicologia sociale e del lavoro. Qui, gli studi sul work engagement rappresentano una progressione teorico-concettuale dei precedenti approcci focalizzati sulla nozione di “assenza di malessere” a livello organizzativo, e dunque sulla comprensione e prevenzione di fenomeni come il burnout, lo stress lavoro-correlato, il boreout, ecc.

Come s’intuisce, anche in questa branca della psicologia si è assistito di recente ad un radicale cambiamento di focus: da una prospettiva centrata sull’health-impairment (ovvero sui fattori in grado di compromettere la salute individuale ed organizzativa) ad una prospettiva basata sull’individuazione delle dimensioni “positivamente connotate”, ossia quelle strettamente legate al benessere organizzativo (Aiello, Tesi; a cura di Giannini, Bellandi, 2016). Tale cambiamento trova le sue radici nel pensiero di autori come Hollister (1965; ha introdotto il concetto di strens per indicare quelle esperienze negative che tuttavia migliorano e rafforzano le persone) e Antonovsky (1979; ha utilizzato il termine “salutogenesi” per descrivere i processi che favoriscono la salute psico-fisica dei lavoratori). E’ innegabile però, che nell’ultimo ventennio abbia subito una

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straordinaria accelerazione grazie all’influsso della Psicologia Positiva. Così, anche nell’ambito della Psicologia sociale e del lavoro, si è progressivamente sviluppato un filone di studi denominato Occupational Health Psychology, il cui scopo è proprio quello di rintracciare i predittori e i correlati della salute organizzativa (Aiello, Tesi; a cura di Giannini, Bellandi, 2016). Questo, dunque, è il quadro teorico di riferimento del Modello Job Demands-Resources, il quale, non a caso, integra l’analisi del burnout con quella dell’engagement. I due costrutti, infatti, sono considerati opposti: il burnout rappresenta la massima conseguenza dell’elevata esposizione a stress lavorativo ed è concepito come vera e propria sindrome caratterizzata da esaurimento emotivo, depersonalizzazione (cioè atteggiamento freddo, distaccato e cinico nei confronti del lavoro) e ridotto senso di realizzazione personale (Maslach, 1982; cit. in Aieello et al., 2012); al contrario l’engagement, abbiamo visto essere concepito come condizione positiva e soddisfacente associata al lavoro, caratterizzata da vigore, dedizione ed assorbimento (Demerouti et al. 2001). Ora, secondo gli autori del Modello JD-R entrambi gli esiti, positivo e negativo, dipendono rispettivamente dall’equilibrio o disequilibrio tra richieste e risorse lavorative (per l’appunto, Job

Demands e Job Resources). Essi definiscono le prime come “quegli aspetti fisici, sociali o organizzativi del lavoro che richiedono uno sforzo fisico o mentale, e che sono quindi associati ad alcuni costi fisiologici e psicologici” (Demerouti et al., 2001, p. 501); pensiamo ad esempio al

sovraccarico di lavoro, l’eccessiva pressione temporale, il conflitto o l’ambiguità di ruolo, ecc. Analogamente, le risorse lavorative sono descritte come “quegli aspetti fisici, sociali o

organizzativi del lavoro caratterizzati da uno o più dei seguenti aspetti: sono funzionali al raggiungimento degli obiettivi lavorativi; riducono le richieste lavorative e i costi fisiologici e psicologici associati; stimolano la crescita e lo sviluppo personale” (Demerouti et al., 2001, p.

501); esempi di risorse lavorative saranno quindi, il supporto sociale, l’autonomia lavorativa, i feedback costruttivi ecc.9

Dunque il nucleo centrale del Modello JD-R sta nel fatto che demands e resources danno vita a due processi indipendenti: uno di indebolimento della salute (health impairment process) che si innesca in presenza di eccessive richieste lavorative in grado di logorare le risorse fisiche e mentali dei lavoratori, aprendo la strada allo stress cronico e al burnout; l’altro motivazionale (motivational

process) che si innesca in presenza di elevate risorse lavorative in grado di ridurre l’effetto negativo

delle richieste, conducendo direttamente al work engagement. Difatti, come anticipato, le risorse lavorative svolgono un ruolo motivazionale intrinseco perché incoraggiano la crescita,

9 Evidenziamo a tal proposito che gli autori del Modello JD-R, in un certo senso, rinunciano alla pretesa di individuare a priori le variabili connesse al burnout o all’engagement; essi, più realisticamente, partono dall’assunto che ciascun tipo di occupazione possa presentare specifiche richieste e risorse da individuare contestualmente, ed è questo principio che rende lo strumento così flessibile ed adattabile alle varie tipologie di contesto organizzativo.

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l’apprendimento o lo sviluppo, ed un ruolo motivazionale estrinseco per il loro essere strumentali al raggiungimento degli obiettivi lavorativi (Bakker, Demerouti, 2006). A maggior ragione gli autori hanno dimostrato come l’impatto delle risorse sulla motivazione e l’impegno dei dipendenti risulti ancor più rilevante in presenza di elevate richieste lavorative. Questo da un lato conferma la necessità di un bilanciamento tra richieste e risorse lavorative ai fini dell’engagement; dall’altro lato (coerentemente con i presupposti della Psicologia Positiva) ribadisce il valore di un approccio volto ad amplificare gli aspetti positivi caratteristici del lavoro o dell’ambiente di lavoro, piuttosto che ad eliminare quelli negativi.

Le ricerche condotte dagli autori a partire dal 2004, hanno permesso di ampliare ulteriormente il Modello JD-R: innanzitutto si è analizzata in maniera più approfondita la relazione tra risorse lavorative e performance, dimostrando il ruolo di mediatore svolto dal work engagement; in secondo luogo si è introdotta nel modello una terza variabile rappresentata dalle risorse personali. Parliamo in questo caso di tutte “quelle autovalutazioni che influenzano positivamente la

percezione delle proprie abilità e capacità di controllare e agire con successo sul proprio ambiente” e che quindi, analogamente alle risorse lavorative, “impattano positivamente sulla motivazione e sulla soddisfazione degli individui, e portano a prestazioni di più alto livello”

(Cortese, Ariano, Bakker, 2016). In tal senso appare evidente come la versione rivisitata del Modello JD-R abbia in un certo senso incorporato i più recenti studi sul comportamento organizzativo positivo (POB – Positive Organizational Behavior), volti a comprendere ed applicare quei punti di forza delle risorse umane che possono essere misurati e sviluppati allo scopo di incrementare il benessere e la performance sul lavoro (Ruini et al., 2017). Chiaramente anche da questo punto di vista, si evince perfettamente l’influsso della Psicologia Positiva e del suo approccio strenght-based. Nella definizione del POB, infatti, il focus è tutto sulle risorse individuali, intese però in termini di stati psicologici suscettibili di potenziamento, non come tratti della personalità che, in quanto tali, risultano più stabili e difficilmente modificabili. In particolare, Luthans e Youssef (2004) hanno sviluppato il costrutto di Capitale Psicologico (PsyCap) inteso come stato psicologico positivo derivante dalla combinazione di quattro specifiche risorse, ovvero: la determinazione, intesa come risolutezza nel raggiungimento degli obiettivi e come capacità di elaborare strategie alternative in caso di avversità; l’auto-efficacia, intesa come fiducia nelle proprie capacità di portare a termine i vari compiti con successo; l’ottimismo, che implica una visione positiva della realtà e quindi una maggiore fiducia nella possibilità che si verifichino eventi positivi indipendentemente dall’azione personale; la resilienza, intesa come capacità di agire prontamente in situazioni di cambiamento, incertezza, conflitto, fallimento, insomma in tutte quelle circostanze avvertite come battute di arresto (Luthans, Youssef, 2004; Ruini et al. 2017). Dunque, risorse personali come quelle appena citate (ma lo stesso vale per la proattività,

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l’assertività, la flessibilità, il locus of control interno, ecc.), diventano parte integrante del Modello JD-R perché, proprio come le risorse lavorative, alimentano quel processo motivazionale che conduce al work engagement.

Prima di concludere questa parentesi, riteniamo doveroso introdurre un ulteriore fenomeno messo in luce nella versione rivisitata del Modello JD-R, il cosiddetto job crafting. Esso riguarda l’insieme di interventi che i singoli lavoratori operano nei confronti delle proprie attività, cercando di modificare proattivamente le richieste e le risorse (personali o lavorative), al fine di aumentare il loro benessere e la loro soddisfazione (Cortese, Ariano, Bakker, 2016). Dunque, non solo le risorse lavorative e personali influenzano positivamente i livelli di work engagement, ma gli stessi dipendenti con elevati livelli di engagement riescono ad intervenire proattivamente sul loro ambiente creando ulteriori risorse lavorative e personali.

La soddisfazione delle inclinazioni motivazionali

In tempi assai meno sospetti, la Borgogni già affermava che “La persona sperimenta lo stress sia

quando le richieste dell’organizzazione eccedono le sue capacità, sia quando i suoi bisogni eccedono le opportunità di soddisfazione offerte dall’organizzazione” (Caprara, Borgogni, 1988,

p.13). Questo significa che lo sviluppo dell’engagement (in quanto condizione opposta allo stress) passa anche, e primariamente, attraverso la soddisfazione dei bisogni individuali. Il tema dei bisogni, infatti, è strettamente connesso ai costrutti di motivazione e di soddisfazione che, a loro volta, rappresentano altrettanti aspetti chiave del work engagement. In tal senso, non possiamo fare a meno di riferirci alle teorie classiche sull’argomento, e quindi ad autori come Maslow, Alderfer o Herzberg.

Maslow, ad esempio, è stato il primo a concepire lo studio della motivazione, come studio degli ultimi fini, desideri o esigenze dell’uomo (Maslow, 1954). Intanto rammentiamo che il termine “motivazione” deriva dal latino movere che significa “muovere”, e fa riferimento a tutti quei processi psicologici che provocano la nascita e la persistenza di azioni volontarie dirette al raggiungimento di un obiettivo (Kreitner, Kinicki, 2013). Dunque, secondo Maslow questo impulso ad agire che è la motivazione, dipende sostanzialmente dalla necessità umana di soddisfare una serie di bisogni, ordinabili secondo un criterio gerarchico. Da qui l’ormai nota piramide, alla cui base troviamo i bisogni fisiologici, quindi l’alimentazione, il riparo, il vestiario, l’appagamento sessuale. Seguono i bisogni di sicurezza, tra cui la protezione, la stabilità, la struttura, l’ordine, i limiti. Ad un gradino ancora più elevato troviamo i bisogni di affetto e di

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sono i bisogni di stima – la reputazione, il prestigio, la dignità, il rispetto e l’apprezzamento da parte degli altri – e autostima – l’adeguatezza, la padronanza e la competenza per affrontare con fiducia il mondo. Al vertice della piramide vi è infine il bisogno di autorealizzazione, ovvero la necessità di affermazione, di autocompimento tramite le proprie capacità e conoscenze, coerentemente con la propria vocazione, la propria natura, il proprio potenziale. Dal punto di vista teorico, la piramide di Maslow è sorretta da due principi fondamentali: innanzitutto, per l’autore, solo un bisogno attivo (cioè non ancora soddisfatto) può innescare la motivazione; in secondo luogo, ciascuna tipologia di bisogno non possiede forza motivante finché non si sono appagate le esigenze di ordine inferiore. In altri termini la soddisfazione di un bisogno, attiva quello successivo nella gerarchia (come pure la motivazione a soddisfarlo) e il processo continua fino ad arrivare al bisogno vertice.

Le ipotesi di Maslow furono successivamente rivisitate da Aldelfer (1970; cit. in Kreitner, Kinicki, 2013) nell’ambito della sua teoria denominata ERG. Questa, in sostanza, ricomprende i bisogni individuati dal pioniere in tre categorie fondamentali, esistenza (Existence – include i bisogni fisiologici e di sicurezza della piramide maslowniana), relazioni (Relatedness – include i bisogni di affetto e stima) e crescita (Growth – include i bisogni di autostima e autorealizzazione). Tuttavia Alderfer sostiene che tali bisogni possano manifestarsi anche simultaneamente; in altri termini un bisogno di ordine superiore può presentarsi anche se quelli di ordine inferiore risultano ancora insoddisfatti. Inoltre secondo l'autore, i bisogni di esistenza e di relazione producono motivazioni meno persistenti ma intense e ciclicamente ricorrenti, mentre i bisogni di crescita producono una motivazione persistente ed incrementale poiché essi si riattivano ogni volta che viene raggiunta una soddisfazione o un traguardo. D’altra parte Alderfer avverte che, qualora i bisogni di ordine superiore non siano soddisfatti, l'individuo tende a “regredire”, cioè ad orientarsi verso la soddisfazione dei bisogni di ordine inferiore, più facili da realizzare (principio di frustazione-regressione).

Lo stesso Herzberg, dal canto suo, si ricollegò direttamente a Maslow nel tentativo di individuare i legami esistenti tra lavoro e motivazione, sottolineando, come lui, l’importanza della dimensione dello sviluppo. Nello specifico, i suoi studi condotti alla fine degli anni ’50 lo portarono a distinguere due tipi di fattori: i cosiddetti igienici, che includono la retribuzione, lo status, la sicurezza del posto di lavoro, le condizioni di lavoro, la supervisione tecnica, le relazioni interpersonali con colleghi e superiori; e i fattori motivanti, tra cui le caratteristiche del lavoro (autonomia, flessibilità, discrezione), il riconoscimento, la responsabilità, il successo, le possibilità di carriera, di apprendimento e di crescita. Anche in questo caso notiamo come ai fattori igienici corrispondano i primi tre livelli della piramide di Maslow e parzialmente il quarto (bisogni

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fisiologici, di sicurezza, di affetto e di stima), come pure le dimensioni di esistenza e relazione individuate da Aldefer. Mentre ai fattori motivanti corrispondono i bisogni di autostima e autorealizzazione di Maslow e la dimensione di crescita di cui parla Aldelfer. Il punto però è che secondo l’autore, l’assenza dei primi genera insoddisfazione nonostante la loro presenza, di per sé, non produca motivazione. Al contrario l'assenza dei secondi non genera insoddisfazione, sebbene la loro presenza produca motivazione (Teoria dei fattori duali).

Dunque riesaminando brevemente queste teorie classiche sulla motivazione e soddisfazione, possiamo trarre una serie di implicazioni utili all’engagement. Innanzitutto è chiaro che l’organizzazione dovrebbe prestare attenzione ai bisogni emergenti e non ancora soddisfatti dei lavoratori, dal momento che questi rappresentano una delle leve fondamentali che impegnano all’azione. In secondo luogo appare altrettanto evidente che l’ordine e l’intensità con cui i bisogni si manifestano non sono uguali per tutti, per cui è importante dar voce ai singoli lavoratori in modo da riuscire a personalizzare gli interventi. Infine va da sé che l’engagement debba avvalersi di entrambi i fattori, igienici e motivanti, dal momento che, tralasciando quelli igienici, si produce insoddisfazione, e questa nella migliore delle ipotesi genera frustrazione ed immobilismo, ovvero l’esatto opposto dell’engagement; ma analogamente tralasciando quelli motivanti la spinta all’azione non potrebbe né nascere né persistere.

L’allineamento tra valori individuali e organizzativi

Nel prosieguo del suo articolo, la Borgogni afferma che l’ultima dimensione rilevante per comprendere ed anticipare l’engagement riguarda i valori, ovvero l’allineamento, la sintonia tra i valori individuali e quelli organizzativi (Borgogni, 2014). L’importanza di questa dimensione ai fini dell’engagement emerge chiaramente dagli studi condotti sul flow, che come anticipato rappresenta un ulteriore aspetto dell’engagement. Dunque il costrutto di flow fu introdotto negli anni ’70 dallo psicologo Mihaly Csikszentmihalyi per indicare l’esperienza ottimale, ovvero quello stato di completa gratificazione derivante dal sentirsi completamente presi da ciò che si sta facendo, tanto da non avvertire né la fatica né il trascorrere del tempo. L’analogia con l’engagement, ed in particolare con la dimensione di assorbimento individuata da Schaufeli et al. (2002) è evidente. Dunque, molti studiosi ritengono che simili esperienze derivino sostanzialmente dalla compresenza di tre fattori: gli interessi, i valori e le motivazioni. In altri termini, quando le persone s’impegnano in attività congruenti con i propri interessi, coerenti con i propri valori e che soddisfano le proprie motivazioni, vengono a crearsi le condizioni di base necessarie per esperire stati ottimali di flusso o di engagement (Laudadio, Mancuso, 2015).

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Gli interessi, come le motivazioni, affondano le loro radici nei bisogni. Il termine stesso deriva dalla combinazione dei termini latini inter, che significa “in mezzo”, ed esse che significa “essere”; quindi letteralmente l’interesse si trova in mezzo tra la persona e ciò che può soddisfare i suoi bisogni (ibidem). I valori, invece, hanno un diverso collegamento con i bisogni: il valore è ciò a cui il bisogno tende; tanto è vero che il bisogno si esaurisce nel momento in cui viene soddisfatto, il valore al contrario non si placa, anzi si rinforza con la soddisfazione del bisogno che ha scaturito (Rokeach, 1973). Dunque cosa sono i valori? Sono convincimenti profondi, duraturi e stabili riguardo a ciò che preferibile e desiderabile per ciascuna persona. Essi fungono da metro di riferimento nella scelta di ciò che è giusto o sbagliato, orientando l’azione umana. Quindi, si distinguono dai bisogni perché permangono anche dopo che questi siano stati soddisfatti, ma si distinguono anche dagli interessi per il loro aspetto “normativo” (Laudadio, Mancuso, 2015). L’approccio sociologico ricorda che all’interno di un gruppo, una comunità, una società, i valori tendono ad essere ampiamente condivisi dai membri, costituendo, assieme alle norme, ai riti e ai comportamenti, la cultura di quel gruppo. Stessa cosa deve accadere all’interno delle organizzazioni: i valori che sorreggono la cultura organizzativa devono essere condivisi in modo da orientare i comportamenti nella stessa direzione. In questo consiste l’allineamento; e si tratta di una dimensione fondamentale per l’engagement, dal momento che la massima soddisfazione professionale si ha con la completa rispondenza tra il nostro ambiente, i nostri interessi e la nostra configurazione valoriale (ibidem).

C’è però, un ulteriore aspetto da mettere in luce parlando di valori individuali ed organizzativi: l’integrità. Parliamo di un concetto chiave, considerando che nel report Engage for Success (MacLeod, Clarke, 2009) lo ritroviamo tra i fattori “abilitanti” il work engagement. C’è integrità organizzativa quando i valori dichiarati si riflettono nei comportamenti quotidiani, quando c’è coerenza tra il dire e il fare. La Bridger a questo proposito è molto schietta, sostenendo che “non

c’è modo più veloce per erodere la fiducia e l’engagement che parlare di valori e fare promesse e proclami circa la direzione in cui l’azienda sta andando, che abbiano poco o nessun riscontro nella vita lavorativa di tutti i giorni dei dipendenti” (Bridger, 2016, p.87). Dunque, in mancanza

di integrità, qualsiasi pretesa di allineamento non potrà essere che fittizia.

1.5 Misurare il work engagement

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