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Case History B: l’area manager (II parte)

Capitolo 4 – Tra saper essere e saper essere in relazione

4.3 Case History B: l’area manager (II parte)

In questo paragrafo riprenderemo l’esperienza dell’area manager per affrontare un passaggio fondamentale che in precedenza è stato intenzionalmente tralasciato. Nella prima parte del racconto, infatti, è emerso come nel caso specifico vi fossero tutti i buoni presupposti per l’engagement. Il professionista aveva colto l’opportunità di avanzamento di carriera offerta dall’azienda, giungendo a ricoprire un ruolo di piena autonomia e responsabilità. Attraverso la formazione aveva ampliato la sua sfera di competenza nelle tre dimensioni del sapere, saper fare e saper essere; era quindi entrato nel ruolo e contribuiva attivamente alla crescita della giovane azienda, ossia ad un progetto comune che lo vedeva incluso. A maggior ragione svolgeva un lavoro intrinsecamente motivante, non solo perché gli consentiva di esprimere ed affinare il suo talento nella gestione delle persone, ma anche perché gli permetteva di attualizzare i suoi valori, ciò che per lui era importante, ovvero continuare a crescere ed innescare lo stesso processo in coloro che lavoravano al suo fianco. Nel giro di cinque anni il fatturato dell’area che gestiva, l’Area Sud, era più che raddoppiato; aveva inserito persone che continuavano a portare risultati ed era diventato lui stesso un riferimento importante sia per il top management sia per i suoi colleghi. Non a caso il professionista dice chiaramente che all’epoca era molto soddisfatto del suo lavoro e di come le cose stavano andando in azienda. Aveva creato un solido rapporto con i suoi collaboratori, li sentiva parte di sé e della squadra; e lui stesso si sentiva parte integrante dell’azienda, la quale dal canto suo aveva investito sul potenziale del professionista e continuava a dargli l’opportunità di contribuire alla causa con le sue qualità. Ecco quindi la fotografia di un professionista engaged: appassionato, soddisfatto, motivato, coinvolto.

Nonostante ciò questo professionista arriva a decidere di abbandonare la propria azienda, ed è questo il passaggio mancante. Ma cosa determina una scelta così drastica? Il fatto che ad un certo punto il direttore commerciale, quello che fino ad allora era stato suo diretto superiore e responsabile, entra in contrasto con la proprietà e l’amministratore delegato, per cui decide di lasciare l’azienda. L’area manager ammette, con tutta onestà, che questo risvolto gli provocò

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dispiacere, poiché, nei suoi termini, quel responsabile era stato un riferimento prezioso per tanti anni; senza contare che fu lui a credere nelle potenzialità del professionista, fu lui a coinvolgerlo nei progetti aziendali e a dargli la possibilità di crescere professionalmente e personalmente. Tuttavia, anche se la cosa lo toccava dal punto di vista personale, il protagonista riconosce che sul piano lavorativo non era affatto preoccupato; anzi era pronto a dare piena fiducia e disponibilità al nuovo direttore commerciale, consapevole del fatto che una nuova fase li attendeva. Il nuovo entrato però, si dimostra fin da subito molto critico nei confronti della precedente gestione e, stranamente, che tipo di relazione instaura con il nostro protagonista? Lui lo descrive come un rapporto in cui si sentiva costantemente messo in discussione come responsabile e professionista; in cui non percepiva la minima fiducia nei suoi confronti, tant’è che tutto (le sue decisioni, la sua modalità operativa, il suo approccio al lavoro) era sistematicamente oggetto di critica, non di miglioramento, solo di critica. Ancora, un rapporto in cui non era più richiesto il contributo del professionista ma, nei suoi termini, la mera accondiscendenza, poiché doveva semplicemente garantire l’esecuzione di ordini impartiti a monte, senza il minimo coinvolgimento nella pianificazione strategica e operativa. Infine un rapporto rigidamente ed esclusivamente professionale, in cui non era ammesso il confronto personale, né la condivisione, e questo stesso approccio veniva imposto al professionista: doveva limitarsi alla gestione tecnica del ruolo, mantenendo rapporti professionali con i collaboratori, ovvero con quelli che fino al giorno prima il protagonista chiamava “i suoi uomini”.

Come si evince, è questo un passaggio fondamentale perché dimostra concretamente l’impatto della relazionalità sull’engagement. Il protagonista di questa storia è infatti passato da una relazione estremamente positiva basata sulla fiducia, sull’autonomia, sull’inclusione, sulla partecipazione, sull’accettazione e la valorizzazione; ad una relazione estremamente negativa basata invece sul rifiuto, la critica distruttiva, la mancanza di fiducia, la prevaricazione, l’oppressione e l’esclusione. A nostro avviso, è questo che intendono i teorici e gli studiosi dell’engagement quando riconoscono che i diretti responsabili possono arricchire o distruggere l’esperienza soggettiva dei lavoratori: possono farlo attraverso la relazione che decidono di instaurare con loro. Nella prima parte di questo case history la relazionalità positiva ha generato un professionista engaged; nella seconda parte, la relazionalità negativa ha generato in quello stesso professionista insoddisfazione, demotivazione e malessere, ad un livello tale che il protagonista ha scelto di allontanarsi dall’azienda.

Questa storia, fortunatamente, ha un lieto fine: a distanza di due anni, infatti, l’azienda torna a cercare l’area manager, su esplicita istanza dei suoi ex-colleghi ed ex-collaboratori. Il direttore commerciale era stato nuovamente sostituito ma l’azienda risentiva ancora gli effetti del

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precedente periodo di turbolenza gestionale. Si era tentato, infatti, un processo di ottimizzazione delle aree, per cui la vecchia Area Sud era stata suddivisa e affidata alla gestione degli area manager limitrofi. Si trattava comunque di una soluzione tampone, tant’è che l’azienda era già alla ricerca di un candidato che coprisse la posizione vacante. Ma proprio in quella fase di transizione la forza vendita dell’Area Sud, come gli altri area manager, continuava a sollecitare il rientro del nostro professionista, per cui il direttore commerciale nuovo entrato si sentì in dovere di contattarlo per esporgli la sua proposta. Che cosa convinse il nostro area manager a tornare? Ce lo racconta lui stesso: innanzitutto il fatto di avvertire un’ottima intesa tra il nuovo responsabile e l’amministratore delegato; i due gli parvero molto affiatati nel presentargli una serie di progetti aziendali che lo vedevano incluso. La situazione, a quel punto, non era certo delle migliori, in quanto l’azienda, complessivamente, risultava ancora in crescita, ma la vecchia Area Sud registrava una perdita che non poteva più essere sottovalutata. Quindi, l’obiettivo che i nostri si apprestavano a concordare era parecchio ambizioso: bisognava produrre un incremento di fatturato del 15% e ciò rappresentava sicuramente una sfida per il nostro professionista. Ma ciò che davvero lo convinse a tornare fu la fiducia che la nuova gestione era pronta a dargli fiducia nel momento stesso in cui gli garantiva nuovamente piena discrezionalità sul proprio territorio. Come ammette il protagonista, per la seconda volta quell’azienda non gli offriva solo un lavoro, ma la possibilità di aderire ad una causa, contribuendo con le sue qualità alla rinascita dell’Area Sud. Ecco quindi la potenza della relazionalità positiva, di quelle relazioni basate su fiducia, accettazione, inclusione, partecipazione, valorizzazione. Non è assolutamente un caso che il professionista si sia sentito, nei suoi termini, di nuovo accolto, di nuovo a casa, di nuovo nelle condizioni di poter fare la differenza. E non è assolutamente un caso che la differenza l’abbia fatta per davvero: alla fine di quell’anno l’Area Sud aveva registrato un incremento di fatturato del 17%, superando l’obiettivo fissato. In questo quadro si colloca anche l’episodio specifico raccontato in precedenza, il successo della filiale di Bari, la quale ha registrato una crescita del 55% rispetto all’anno precedente: il più alto incremento percentuale tra tutte le filiali italiane, presentato come case history alla Riunione Nazionale Agenti tenuta all’inizio dell’anno successivo. Quest’ultimo aspetto, chiaramente, è ribadito per evidenziare un ulteriore sintomo di relazionalità positiva: il riconoscimento e l’apprezzamento del proprio collaboratore da parte dell’azienda.

Nell’analizzare la letteratura sull’engagement abbiamo riscontrato una serie di concetti chiave che, alla luce del case history riportato nella sua interezza, immediatamente balzano agli occhi. Alcuni autori, infatti hanno osservato come l’engagement sia qualcosa che il lavoratore ha da offrire; esso non può essere richiesto nell’ambito del contratto di lavoro o della definizione degli obiettivi (CIPD, 2007, cit in Robertson-Smith, Markwick, 2009 e Bridger, 2016). E non a caso tutti gli autori sono concordi nel sostenere che l’engagement richieda un rapporto bi-direzionale tra

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l’azienda, quindi i suoi leader, e ogni singolo collaboratore. Eppure l’esperienza dell’area manager, suggerisce qualcosa di più: l’engagement necessita di relazioni, non solo bi-direzionali, ma autentiche e positivamente connotate. Perché quando la persona si sente accettata, coinvolta e valorizzata sperimenta quella condizione di funzionamento ottimale che le consente di fare e dare il meglio di sé; ed è questo l’engagement, la passione nel lavoro.