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Organizzazione del lavoro

Capitolo 2 – I drivers del work engagement

2.8 Organizzazione del lavoro

Anche per quanto riguarda l’organizzazione del lavoro, si possono rintracciare una serie di dimensioni critiche, in grado di influenzare significativamente il work engagement. Facciamo riferimento a temi di grande interesse come la definizione dei ruoli e degli obiettivi individuali, la

partecipazione ai processi decisionali e la formulazione di riscontri personalizzati. Come si

comprenderà nel prosieguo, si tratta di elementi indispensabili non solo da un punto di vista logistico-organizzativo, ma anche e soprattutto nella prospettiva di uno sviluppo professionale e personale dei lavoratori. In sostanza è qui che si osserva la reale portata di uno stile di gestione e conduzione orientato all’empowerment; è confrontandosi con questi temi che i manager possono fare davvero la differenza in termini di miglioramento dell’engagement.

Consideriamo ad esempio il concetto di ruolo. Esso è ovviamente connesso alla posizione che l’individuo occupa all’interno dell’organigramma aziendale, la quale è definita a sua volta da un insieme omogeneo di compiti (mansioni), da un certo livello di discrezionalità e da specifiche relazioni di interdipendenza. Tuttavia nel concetto di ruolo, rispetto a quello di posizione, rientra un ulteriore componente, ovvero l’insieme di aspettative che convergono sull’individuo. Tali aspettative, a differenza dei compiti e delle responsabilità che fanno capo ad una posizione, non possono essere esplicitate nell’ambito dei mansionari perché afferiscono alla dimensione soggettiva del lavoro. Per questo è necessario che i ruoli siano chiaramente definiti, e a maggior ragione, che siano concordati e non imposti (Varney, 1991). Infatti da un lato, la mancanza di definizione può condurre al fenomeno dell’ambiguità di ruolo, causato proprio da una carenza di informazioni rispetto ai propri compiti, responsabilità o alle aspettative di colleghi e superiori. La conseguenza è una condizione di incertezza che genera frustrazione e inibisce l’azione. Dall’altro lato, anche la possibilità di discutere apertamente ed accordarsi sui ruoli di ciascun membro del gruppo risulta cruciale, dal momento che gli stessi individui, non solo tendono spontaneamente verso determinati ruoli e non altri (in virtù delle caratteristiche personali e delle esperienze lavorative precedentemente maturate), ma costruiscono precise aspettative rispetto ai ruoli, propri e altrui (ibidem). Dunque, se la chiara definizione dei ruoli aiuta a far emergere le aspettative di colleghi e supervisori nei confronti del singolo lavoratore, la possibilità di discutere comunemente e negoziarli permette di identificare ed assecondare le aspettative dei singoli nei confronti del proprio ruolo, così da valorizzare il loro contributo, ma anche di chiarire i rapporti che ciascun

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ruolo dovrà intrattenere con gli altri, in modo da garantire una reale ed efficace interdipendenza. E’ chiaro quindi che le dinamiche di ruolo hanno un impatto notevole sia sulla soddisfazione, il benessere e la motivazione dei lavoratori, sia sullo svolgimento della performance individuale e di gruppo. Non è un caso che nell’ambito della letteratura sull’engagement, le problematiche attinenti ai ruoli (mancanza di definizione, ambiguità, incapacità di riorganizzazione, ecc.) siano considerate alla stregua di barriere strutturali che limitano le capacità di engagement dell’azienda (Corporate Leadership Council, 2004); né che la role clarity, la chiarezza di ruolo, sia inserita a pieno titolo tra quelle risorse lavorative in grado di moderare i livelli di tensione e stress sul lavoro (Bakker, Demerouti, 2006) e di abilitare performance qualitativamente migliori (CIPD, 2011). Un discorso analogo, può essere fatto per gli obiettivi, il cui potenziale motivazionale è ampiamente riconosciuto nell’ambito della letteratura psicologica e manageriale. Ad esempio, la

teoria del goal setting, elaborata da Locke e Latham tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ‘90,

definisce l’obiettivo come ciò che l’individuo tenta di realizzare; esso rappresenta l’oggetto o lo scopo dell’azione individuale (Locke, Latham, 1990), ovvero la meta verso cui orientare le proprie risorse. I due autori evidenziano, inoltre, come il processo di definizione degli obiettivi sottenda una serie di meccanismi motivazionali (Kreitner, Kinicki, 2013): innanzitutto il fatto stesso di porsi un obiettivo focalizza l’attenzione della persona sulle attività rilevanti al raggiungimento dello stesso; in secondo luogo l’obiettivo agisce come un potente regolatore dello sforzo, nel senso che in base alla complessità percepita dell’obiettivo, aumenta o diminuisce il livello di sforzo impiegato dall’individuo; altro aspetto fondamentale è che la visione di una meta da raggiungere, non solo aumenta la tenacia e la perseveranza della persona, ma la stimola all’ideazione e all’applicazione di strategie e piani di azione che le consentano di avvicinarsi al traguardo prefissato. Tuttavia, per realizzare il potenziale motivazionale insito nel processo di definizione degli obiettivi, è necessario che questi ultimi possiedano precise caratteristiche sintetizzate dall’acronimo SMART: devono essere specifici, cioè definiti dettagliatamente e non in modo generico; misurabili e quindi monitorabili nel corso del tempo; ambiziosi ma al tempo stesso

accessibili cioè coerenti con le capacità o le potenzialità dell’individuo; realistici, ovvero

concretamente raggiungibili anche alla luce delle condizioni di contesto; temporizzati, cioè inseriti all’interno di un arco temporale ben preciso. Simili considerazioni, le ritroviamo ovviamente anche nell’ambito dei contributi riguardanti l’engagement, i quali però mettono in evidenza ulteriori dimensioni parimenti importanti. Ad esempio, la possibilità di definire e perseguire obiettivi che siano in linea con i propri valori incide direttamente sul livello di engagement. Non a caso Schaufeli e Salanova (2008) introducono la necessità di stipulare “accordi formali per lo sviluppo del dipendente” in cui risultino chiaramente definiti non solo gli obiettivi di performance previsti per il singolo lavoratore (inerenti ad esempio, la produttività, la qualità, l’efficienza, ecc.), ma

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anche gli obiettivi personali che l’individuo desidera raggiungere attraverso il suo lavoro. Chiaramente, a seconda della persona, questi ultimi potranno riguardare il miglioramento della condizione economica, l’avanzamento di carriera, l’acquisizione di maggiore prestigio sociale, lo sviluppo di conoscenze e competenze. E’ quindi fondamentale che l’azienda, attraverso i suoi manager e responsabili del personale, sappia riconoscere le diverse ambizioni dei dipendenti e ricomprenderle nel quadro degli obiettivi individuali da raggiungere. Tuttavia, si possono individuare almeno due fattori in grado di ostacolare questo processo: da un lato quella che in Engaging for Success viene definita “ossessione per gli obiettivi di risultato” (MacLeod, Clarke, 2009); dall’altro la scarsa consapevolezza degli individui rispetto ai propri valori e i propri obiettivi. Difatti nel report citato emerge chiaramente come l’attuale paradigma di gestione, basato su pilastri come il Management by Objectives (che prevede la definizione e il raggiungimento di obiettivi incrementali) e i Key Performance Indicators (gli indicatori di performance che decretano il successo o il fallimento del lavoratore in termini di raggiungimento degli obiettivi previsti), focalizzi l’attenzione dei manager esclusivamente sull’ottenimento di risultati, distogliendola dalle persone. Tale questione è affrontata anche dal Bellandi, nei termini di “eccesso di management e carenza di leadership” (Bellandi, 2006, p.156). Il management, dice l’autore, è un processo razionale, volto alla predisposizione di specifiche attività che puntano all’ottenimento di risultati tangibili; il manager è dunque colui che pianifica, organizza (persone e attività) e controlla. Il leader, invece, è parimenti interessato ad orientare le persone, a motivarle ed ispirarle, a perseguire attivamente il loro empowerment. D’altra parte, come osserva Schaufeli, fissare degli obiettivi professionali che siano in linea con i propri valori non è cosa comune in quanto “le persone hanno spesso un’idea molto vaga del fatto che vogliono realizzare qualcosa” (Schaufeli et al., 2012, p.66); dunque i loro obiettivi sono spesso sfocati proprio perché tralasciano di partire da se stesse, dai propri valori, da ciò che per loro è importante. In tal senso non è un caso che la grande maggioranza dei contributi riguardanti l’engagement faccia riferimento al coaching: nei suoi principi si trovano risposte esaustive a simili questioni, evidentemente cruciali nella prospettiva di un miglioramento dell’engagement; ma questo è un argomento che tratteremo in dettaglio nel capitolo successivo. Per il momento, restano da analizzare almeno altre due dimensioni fondamentali, strettamente connesse alla definizione e al raggiungimento degli obiettivi, e più in generale all’organizzazione del lavoro. Innanzitutto la dimensione della partecipazione ai processi decisionali, soprattutto quelli che riguardano il lavoratore in prima persona. Anche qui, entriamo nel merito di una questione ampiamente indagata fin dai tempi dello Scientific Management: agli occhi dei contemporanei, il male più oscuro insito nell’organizzazione scientifica del lavoro, stava proprio nella rottura, nella rigida separazione tra progettazione ed esecuzione del lavoro. Tale presupposto, fondamentale nella prospettiva di una più efficiente divisione del lavoro, comportava negli operai

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una sorta di immobilismo mentale (perché deputati alla sola esecuzione) che contribuiva a svuotare di senso e significato l’attività lavorativa. Tuttavia Muzzarelli osserva a tal proposito che, nonostante la mole di autorevoli autori (es. Mayo, Maslow, McGregor, Hertzberg, Argyris) che nel corso del tempo hanno sostenuto l’avvento di un nuovo tipo di organizzazione del lavoro, basata sulla visione dell’uomo come individuo da motivare e far consapevolmente partecipare alle scelte aziendali, l’idea di fondo del comando gerarchico, nella prospettiva di una spasmodica ricerca dell’efficienza, è tutt’oggi vivissima (Muzzarelli, 2010). Il management, ribadisce Muzzarelli, è fin troppo specializzato “nell’indurre le persone a essere obbedienti e diligenti e nel conformarsi

a regole, ma non” – o non ancora – “nel renderle creative e coinvolte, che è ciò che serve alle imprese per navigare con successo nell’attuale mercato in tempesta” (ibidem, p.35). Queste

riflessioni sottolineano ancora una volta la necessità di un’evoluzione dell’approccio manageriale; e al tempo stesso evidenziano come i vecchi paradigmi siano del tutto inefficaci nella prospettiva dell’engagement. L’impegno, la motivazione, la dedizione, la passione, si ottengono innanzitutto rendendo partecipi i lavoratori; ed è questo un aspetto che emerge sistematicamente nella gran parte dei contributi riguardanti il costrutto in esame. Schaufeli, ad esempio, sostiene apertamente che “la partecipazione nelle decisioni accresce il work engagement e aumenta la possibilità che

le decisioni vengano messe in pratica in maniera adeguata ed efficace” (Schaufeli et al., 2012,

p.91). Analogamente Robinson, nei suoi studi, ha riscontrato che “il driver più forte di tutti” (the

strongest driver of all) è proprio il sentimento di valorizzazione e coinvolgimento. La

valorizzazione, come visto in precedenza, è legata primariamente alle possibilità di sviluppo e crescita; il coinvolgimento, invece, è legato alla partecipazione al processo decisionale, ovvero alla misura in cui i dipendenti si sentono in grado di apportare il proprio contributo, nella convinzione che questo verrà debitamente considerato (Robinson et al., 2004). La stessa Bridger parla di potenziamento dell’engagement attraverso la pianificazione partecipata e il problem- solving condiviso; ed esorta i manager a promuovere la partecipazione, invece che la mera esecuzione, e a far emergere le soluzioni dei dipendenti, invece che “pensare al posto loro” (Bridger, 2016). Chiaramente, come osserva Schaufeli, la partecipazione al processo decisionale di un’azienda non è una cosa facile da mettere in pratica, perché può costare denaro (bisogna dotarsi degli strumenti e delle tecnologie necessarie per instaurare una comunicazione two-way) e implicare rallentamenti. Tuttavia se le organizzazioni, e i suoi responsabili (in primis operatori HR e manager) tralasciassero questo aspetto, che è parte integrante di quella che è stata definita la voce

dei dipendenti, gli svantaggi sarebbero ancora più gravi nella prospettiva dell’engagement; ad

esempio l’emergenza di sentimenti che vanno dal disinteresse, all’opposizione, e addirittura al sabotaggio (Schaufeli et al., 2012).

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work engagement è il feedback, ovvero la possibilità di ottenere un riscontro costruttivo rispetto al modo in cui si sta svolgendo il lavoro e ai risultati prodotti. Già negli anni ’70, Hackman e Oldham, ricompresero il feedback (o meglio, la possibilità di ricevere feedback sulla qualità del lavoro svolto) tra quelle caratteristiche dell’attività lavorativa in grado di innescare la motivazione al lavoro. Più tardi, negli anni ’90, Locke e Latham lo inserirono nell’ambito della teoria del goal

setting in qualità di facilitatore, ovvero di elemento chiave in grado di influenzare la relazione tra

obiettivi assegnati e risultati raggiunti (Borgogni, 2014). Coerentemente, gli studi sull’engagement dimostrano che il feedback, oltre a produrre motivazione estrinseca (essendo, appunto, strumentale al raggiungimento degli obiettivi lavorativi), genera motivazione intrinseca perché favorisce, di fatto, l’apprendimento e lo sviluppo, ovvero soddisfa quel bisogno innato di competenza individuato dalla Self-Determination Theory (Deci, Ryan, 2000; Bakker, Demerouti, 2006). Non è un caso, quindi, che molteplici autori descrivano il feedback come elemento funzionale all’engagement, a prescindere dalla valenza positiva o negativa. Ad esempio Schaufeli e colleghi (2012) osservano che, intanto il riscontro proveniente da un terzo (colleghi o supervisori) aiuta ad avere un quadro reale della situazione attuale in cui versa il lavoratore, contrastando eventuali tendenze alla sopravvalutazione o alla sottovalutazione. A maggior ragione un riscontro positivo, ad esempio il riconoscimento dell’impegno investito, o l’apprezzamento per i risultati conseguiti, non solo rinvigorisce e incoraggia la persona a proseguire nella direzione intrapresa, ma le trasmette la sensazione di essere importante, di poter fare la differenza, incidendo direttamente sulle sue percezioni di auto-efficacia. Il feedback negativo, però, risulta parimenti importante perché aiuta la persona a prendere consapevolezza dei propri errori e delle aree di miglioramento. Quindi, anche (e forse soprattutto) i riscontri negativi sono utili e funzionali allo sviluppo, a patto però che risultino costruttivi e non distruttivi per la persona che li riceve. L’elemento di discrimine tra le due tipologie di feedback è sostanzialmente il giudizio di valore: le persone hanno bisogno di conoscere quali progressi hanno fatto, o possono ancora fare, rispetto al raggiungimento dei propri obiettivi; non di essere giudicate (Schaufeli et al., 2012). Per questo è fondamentale che i riscontri negativi abbiano ad oggetto i comportamenti, non la persona, la quale altrimenti si sentirebbe inadeguata, invece che incoraggiata al miglioramento. Dunque, nonostante studi e ricerche abbiano ampiamente dimostrato il valore del feedback in termini di sviluppo, motivazione ed engagement, molti autori osservano come, in realtà, questa pratica non abbia ancora attecchito pienamente in ambito lavorativo. Secondo la Borgogni si tratta di un problema culturale: non vi è la consuetudine di dare ai propri collaboratori un riscontro sul loro operato, né di parlare apertamente delle loro criticità come dei loro punti di forza; allo stesso tempo non si è abitati a ricevere feedback, a concepirli come una risorsa e a farne tesoro (Borgogni, 2014). La gran parte dei contributi sottolinea a tal proposito l’importanza di una formazione che verta, in generale sul

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potenziamento delle abilità comunicative, e in particolare sulle capacità di gestione del feedback; una formazione, dunque, che coinvolga entrambe le parti, manager e collaboratori, e che, ancora una volta, punti al loro empowerment, al loro saper essere.