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Case History A: l’amministratore delegato

Capitolo 3 – Il contributo del Coaching all’Engagement

3.4 Case History A: l’amministratore delegato

In questo paragrafo presenteremo e analizzeremo l’esperienza30 di un professionista di successo,

amministratore delegato di un’azienda con 400 collaboratori circa. Questa esperienza, o per meglio dire case history, aiuta a mettere in evidenza, concretamente, l’impatto del coaching sull’engagement. Il nostro professionista, infatti, ad un certo punto della sua storia professionale ha deciso di rivolgersi ad un coach perché, di fatto, aveva delle decisioni importanti da prendere, riguardanti il proprio business. Si trattava, insomma, di un momento cruciale della sua vita lavorativa, e questo aveva creato in lui una sorta di blocco, di indecisione, tale da indurlo a cercare un riferimento esterno che lo aiutasse ad individuare razionalmente le sue volontà e a dare ordine ai pensieri. Quindi, all’epoca, lo stato attuale del nostro professionista era caratterizzato da quella che tecnicamente viene definita crisi di autogoverno, ossia una condizione tipica in cui la persona da sola non riesce a far chiarezza, a maturare consapevolezza o a trovare la motivazione e la perseveranza per adottare comportamenti funzionali al cambiamento desiderato (Pannitti, Rossi, 2012). Ed è proprio questa condizione di crisi che stimola il protagonista a ricorrere all’executive coaching31, con l’obiettivo specifico di maturare la scelta giusta.

Chiaramente, già prima di rivolgersi al coach, il professionista aveva avviato un’attenta analisi della situazione, anche avvalendosi di esperti, come consulenti, avvocati, commercialisti e notai, con i quali si era confrontato sui temi del business e sui possibili scenari. Tuttavia, come ammette lo stesso protagonista, quei confronti erano stati totalmente incentrati sul lato della convenienza e dell’opportunità; si erano basati solo su dati, numeri, elementi oggettivi. Ciò aveva comportato un’approfondita conoscenza della situazione sotto il profilo economico, tant’è che da questo punto di vista la soluzione più idonea, più utile si era già compresa. Il problema però continuava a sussistere, dal momento che l’obiettivo del professionista era individuare ed intraprendere la strada, non solo più conveniente, ma più giusta per lui, per la sua vita, e di fatto, l’opzione emersa come più conveniente, non lo convinceva fino in fondo, pur non essendoci elementi oggettivi per poterla accantonare.

Quindi, è a questo punto che entra in scena il coach, il quale, instaurando una relazione aperta e fiduciaria con il nostro protagonista, inizia ad incalzare con le domande; domande potenti che stimolano a cercare nel profondo e ad espandere la consapevolezza. Come suggerisce Whitmore (2003), molto spesso quelli che chiamiamo problemi possono risolversi solo ad un livello più

30 Tale esperienza, come la successiva, è stata raccolta mediante intervista che figura integralmente in appendice. 31 In base al contesto di applicazione si possono distinguere diverse tipologie di coaching: lo sport coaching (rivolto agli atleti), il life coaching (che sostiene il singolo nel suo percorso di auto-determinazione), il team coaching (che facilita il lavoro di gruppo), il corporate coaching (a supporto dei gruppi dirigenti delle aziende) e l’executive coaching (a supporto di singoli dirigenti e topo manager d’azienda).

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profondo rispetto a quello in cui si manifestano. E probabilmente la “crisi di autogoverno” in cui il nostro protagonista versava era soltanto il risvolto tangibile di una difficoltà più profonda, ovvero di quella che Whitmore definisce crisi del significato. Tale condizione, secondo l’autore, si manifesta allorché l’individuo procede prevalentemente nella direzione del successo personale nel mondo materiale, tralasciando o ignorando il proprio sistema valoriale e quelle che sono le sue aspirazioni più elevate (Whitmore, 2003). La conseguenza è, appunto, uno stato di smarrimento, confusione e mancanza di certezze che provoca tensione e determina una caduta della motivazione intrinseca che si traduce in una regressione della performance. E’ per questo che il coach, una volta assodato l’obiettivo del percorso (maturare la scelta più conveniente e più giusta per la persona) e analizzata assieme al coachee la realtà dei fatti con le possibili alternative di scelta, conduce il protagonista ad un livello di analisi più profondo, ovvero lo incoraggia ad entrare nel merito di quella che potremmo definire la sua realtà interiore. Difatti, è lo stesso protagonista a raccontare di aver lavorato prima di tutto sulla propria interiorità, sul lato sentimentale legato al lavoro, su ciò che riteneva davvero importante per operare in maniera serena, efficiente ed efficace, sul grado di convinzione alla base delle sue scelte.

In questo quadro, il più grande contributo del coach, a detta del coachee stesso, è stato quello di porsi come suo specchio: le situazioni e le problematiche affrontate ad ogni sessione venivano rispecchiate dal coach accompagnandolo a nuovi punti di vista; ed emergevano aspetti che lo stesso coachee non aveva mai riconosciuto e che nella gran parte dei casi riguardavano le sue convinzioni limitanti. Questo tipo di approccio è descritto in termini più tecnici da Pannitti e Rossi (2012), i quali spiegano che il coach deve primariamente comprendere qual è la realtà percepita entro cui agisce il coachee, e proprio a tal scopo esorta la persona ad una narrazione circostanziata e ordinata del suo presente percepito (siamo quindi nel campo della realtà soggettiva). Attraverso tale narrazione il coach si introduce progressivamente nella realtà del coachee, nel suo modo di essere e nella sua rappresentazione del mondo, nella problematica percepita e nel miglioramento desiderato. Quindi, è attraverso l’ascolto globale che il coach prende pieno contatto con la storia del coachee, con le sue emozioni, le sue ambizioni e aspirazioni, ma anche con le sue paure e insicurezze (ecco la potenza dell’ascolto globale, ossia un ascolto attivo sorretto dall’empatia). Mentre, attraverso il confronto, le domande, le richieste di chiarimento e i continui rilanci, il coach si pone in posizione di specchio (non di invadenza attraverso i propri pareri e/o consigli) in modo che il coachee possa avviare quello straordinario processo di espansione della consapevolezza. Proprio in virtù di questo processo, il nostro protagonista arriva a comprendere che, in quella fase della sua storia professionale, quello che voleva davvero era fare azienda in modo diverso, divertendosi e mettendo al centro il benessere suo e dei suoi collaboratori. Ecco quindi che

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attraverso l’espansione della consapevolezza, il nostro protagonista riesce a far luce su quello che abbiamo definito stato desiderato. E non è un caso che proprio a questo punto emerga un’ulteriore opzione di scelta, nei termini del protagonista, una terza via che ancora oggi gli sta permettendo di fare azienda secondo i suoi valori più profondi, le sue aspirazioni più elevate, ovvero in base a ciò che di più autentico esiste in lui. Ed è proprio a questo che punta il coaching in profondità teorizzato da Whitmore; come detto, esso coniuga efficienza ed efficacia integrando l’analisi dei costi-benefici con la ricerca di scopo e di significato, capaci di innescare la scintilla della motivazione intrinseca.

Per ovvie ragioni di privacy, non siamo entrati nel merito del piano d’azione elaborato in seguito alla scelta del professionista. Conosciamo però gli sviluppi e le azioni concrete messe in campo dal protagonista da quel momento in poi. Egli, infatti, ha iniziato a progettare e realizzare una serie di iniziative per la motivazione, lo sviluppo e il benessere dei dipendenti. Ad esempio ha investito sul sapere e il saper fare dei lavoratori, strutturando una serie di percorsi interni che consentissero loro di sviluppare know-how e professionalità. Parallelamente ha puntato al saper essere dei collaboratori, organizzando sessioni di coaching e team building proprio per diffondere l’idea che alle volte il come è più importante del cosa. Nei suoi termini, non c’è tanta differenza tra realizzare ex novo un prodotto o scalare le montagne: il punto è come si fanno le cose, e se un lavoro è svolto con impegno e passione allora cambia tutto, c’è motivazione, c’è voglia di fare e di migliorare. Inoltre, il nostro professionista ha investito parimenti sul benessere dei lavoratori, e questo non solo attraverso la strutturazione di un piano di welfare più solido e di un valido sistema retributivo/incentivante. Per lui, infatti, il benessere non dipende solo dalle condizioni di impiego, ma è dato da quanto le persone stanno bene in azienda e stanno bene tra di loro. E proprio per questo motivo si è impegnato in prima persona nella creazione di occasioni informali di socializzazione e confronto; occasioni entro cui i lavoratori potessero conoscersi aldilà del mero rapporto lavorativo, nella convinzione (poi supportata dall’evidenza) che quando le persone si conoscono personalmente, non solo lavorano meglio insieme, ma ne guadagnano in salute perché c’è possibilità di dialogo, ci si ascolta di più e si è maggiormente disposti a comprendere ed accogliere le esigenze altrui.

Chiaramente tutte queste iniziative, come ammette lo stesso professionista, rivelano un rinnovato approccio al lavoro. L’approccio di una persona che ha scelto di divertirsi, ovvero di trarre piacere e benessere dal proprio lavoro, creando condizioni analoghe anche per i propri collaboratori. E difatti quella che abbiamo osservato è una persona soddisfatta (per la scelta presa), motivata (dal significato di quella scelta), proattiva (vista la mole di iniziative realizzate), coinvolta (artefice e partecipe delle sue stesse iniziative) e soprattutto appassionata proprio perché, nei suoi termini, è

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riuscita a portare il cuore in azienda. In tal senso il responso del test personalmente somministrato al professionista (la versione short dell’Utrecht Work Engagement Scale)32 ha solo confermato

l’elevato livello di engagement del protagonista di questa storia. Non a caso, molti teorici e studiosi del costrutto, sostengono che l’engagement si vede e si sente, aldilà delle rigide definizioni (Bridger, 2016), e ancor prima di qualsiasi misurazione. Così, ad esempio, Schaufeli e colleghi, discutendo dei “sintomi” del work engagement, sono pronti ad ammettere che la persona coinvolta si riconosce: tutto sembra venirle facile, porta avanti le sue attività con entusiasmo e come risultato si hanno effetti positivi per sia per la persona che per tutta l’azienda (Schaufeli et al., 2012). E dunque, a proposito di azienda, quali effetti ha prodotto il nuovo approccio adottato dal professionista? Ancora una volta è lui stesso a raccontarli: performance di livello più elevato, riduzione dell’assenteismo, incremento dei risultati di business, ma anche maggiore coinvolgimento da parte dei dipendenti (quella voglia di fare e di migliorare) e un rinnovato spirito di squadra, entrambi derivanti dall’acquisita consapevolezza di essere, più che semplici lavoratori, veri e propri “realizzatori di sogni” (finalità). In conclusione, l’esperienza del nostro protagonista mette in luce il più grande contributo che il coaching in profondità è in grado di offrire al work engagement. Esso infatti, come anticipato, punta alla responsabilizzazione dell’individuo nel perseguire attivamente il proprio benessere e la propria realizzazione sul lavoro; stimola e accompagna la persona nella ricerca di ciò che vale (che ha valore) nel proprio lavoro, ed è proprio questo genere di consapevolezza ad alimentare la passione (Schaufeli et al., 2012). C’è però un altro aspetto che emerge palesemente, ovvero quanto il coaching sia orientato al saper essere della persona, dal momento che concetti come la responsabilità, la consapevolezza, la fiducia in se stessi, la capacità di auto-determinazione (che implica l’agire con volontà e operatività, in autonomia e con pieno coinvolgimento) e di auto-realizzazione (connessa alla ricerca di scopo e significato e alla possibilità di conformare la propria esistenza ai propri valori), non possono che

32 La versione short della Scala Utrecht, come anticipato, si compone di nove item che indagano le tre dimensioni dell’engagement individuate dai teorici del costrutto, ovvero il vigore, la dedizione e l’assorbimento (Demerouti, Bakker, Nachreiner, Schaufeli, 2001). Per la formulazione delle risposte è utilizzata una scala Likert a sette punti (0=mai, 6=sempre). Il punteggio totale si ottiene sommando i valori attribuiti a ciascun item e dividendo il totale per il numero complessivo di affermazioni, in questo caso nove. Se il risultato è inferiore a 1,77 il livello di engagement è molto basso; se è compreso tra 1,78 e 2,88 l’engagement è basso; se è compreso tra 2,89 e 4,66 l’engagement è medio; se è compreso tra 4,67 e 5,50 l’engagement è alto; se è superiore a 5,51 l’engagement è molto alto (Schaufeli, Bakker, 2003). Il professionista in questione ha totalizzato un punteggio di 5,22 che, appunto, indica un livello di engagement alto. Dunque, stando alle indicazioni di Schaufeli e colleghi, si tratta di un caso di engagement vero e

proprio, ovvero di una persona che lavora in maniera entusiasta e piena di energia (Schaufeli et al., 2012). La Scala

Utrecht, tradotta e validata anche nella lingua italiana (Pisanti, Paplomatas, Bertini, 2008), è liberamente utilizzabile a scopi di ricerca e resa disponibile sul web site ufficiale di Wilmar Schaufeli, in entrambe le versioni long e short, corredate da apposite istruzioni esplicative dell’uso.

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essere considerate “qualità supreme dell’essere”. Ma questo è un aspetto che verrà approfondito ulteriormente nel prosieguo.