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Ambiente e atmosfera lavorativa

Capitolo 2 – I drivers del work engagement

2.7 Ambiente e atmosfera lavorativa

La discussione sulle caratteristiche dell’ambiente lavorativo implica un riferimento diretto al clima organizzativo, il quale può essere inteso come una qualità emergente della vita del gruppo di lavoro (Marocci, Pozzi, 2003, cit. in Gabassi 2006). Il primo ad intuire la portata di questo fenomeno fu Kurt Lewin (1939) che, nel corso dei suoi esperimenti volti ad approfondire le dinamiche di gruppo, osservò che il comportamento degli individui risultava notevolmente influenzato da quello che lui definì, per l’appunto, social climate. Tale osservazione fu sintetizzata da Lewin nella nota formula che vede il comportamento individuale variare in funzione delle caratteristiche personali e ambientali [C= ʄ (A, P)]. Solo più tardi, verso gli anni ’60, il concetto di clima diventò oggetto specifico di indagine, sebbene i vari approcci risultino perfettamente coerenti con l’impianto teorico inizialmente proposto da Lewin. Tali approcci infatti, differiscono sostanzialmente per il maggior peso dato alla variabile ambientale o a quella personale, per cui abbiamo (Gabassi, 2006): • l’approccio strutturale secondo cui è soprattutto l’ambiente a determinare il clima lavorativo perché agisce sugli individui ponendo costrizioni alla loro libertà di scelta (enfasi sull’ambiente)

• l’approccio percettivo, secondo cui il clima lavorativo dipende principalmente dalle percezioni individuali degli eventi organizzativi (enfasi sulla persona)

• l’approccio interazionista, secondo cui gli individui rispondono alle situazioni organizzative innanzitutto interagendo tra loro in qualche modo, e da ciò si origina il clima lavorativo (interazione tra ambiente e persona)

• l’approccio culturale, che ammette il presupposto interazionista, sottolineando però che la stessa interazione tra le persone varia in funzione della storia, delle norme, dei valori, insomma della cultura organizzativa (interazione tra ambiente, persona e cultura)

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Questo, per quanto riguarda la genesi del clima lavorativo in quanto variabile in grado di influire sui comportamenti individuali. Dal punto di vista definitorio, invece, diciamo subito che non esiste, in letteratura, una concezione univoca e unanime del costrutto. Molto intuitivamente si può intendere il clima come l’atmosfera, l’aria che si respira all’interno del luogo di lavoro e che regola, perciò, gli umori, le disposizioni relazionali e lo stesso svolgimento delle mansioni. Si tratta quindi di una caratteristica piuttosto stabile e omogenea, che caratterizza e distingue il gruppo di lavoro o l’organizzazione nel suo complesso (ibidem). Quello che è certo però è che tale atmosfera lavorativa sia correlata con diverse dimensioni organizzative, ad esempio la motivazione e la soddisfazione lavorativa, la salute e il benessere individuali e organizzativi, le percezioni di giustizia soprattutto per quel che concerne le interazioni tra le persone17.

Analogamente, bisogna aspettarsi l’esistenza di un qualche tipo di rapporto anche tra l’ambiente e l’atmosfera lavorativa ed il work engagement. A ben vedere, però, si tratta di un rapporto bi- direzionale, in quanto da un lato l’atmosfera di lavoro è inclusa tra quelle risorse lavorative che facilitano l’engagement (Bakker, Demerouti, 2006); non a caso gli studi sottolineano, in tal senso, l’importanza di costruire buone relazioni con colleghi e superiori, di sviluppare e diffondere lo spirito di squadra, di stimolare un atteggiamento collaborativo, ovvero di creare un ambiente armonioso che incoraggi i dipendenti a rispettarsi reciprocamente (Robinson et al., 2004). D’altra parte, però, è anche vero che l’engagement contribuisce a creare un miglior clima di lavoro (Salanova et al., 2005). Difatti, se i lavoratori stressati, demotivati o insoddisfatti tendono a valutare criticamente il proprio ambiente di lavoro, contribuendo così alla diffusione di un clima negativo, analogamente i lavoratori engaged tendono a valutare in maniera costruttiva il proprio ambiente di lavoro, contribuendo di fatto alla formazione di un’atmosfera lavorativa positiva (Bakker, Demerouti, 2006). In ogni caso, volendo sintetizzare i vari approcci, si possono individuare almeno tre fattori sistematicamente ricorrenti negli ambienti di lavoro ad alto engagement: il sostegno sociale, l’apertura al confronto e alla condivisione, la gestione costruttiva

dei conflitti.

Per quanto riguarda il sostegno sociale, si tratta di un elemento fondamentale innanzitutto per quanto riguarda il benessere della persona. Non è un caso che il già citato modello Domanda/Controllo, sviluppato da Karasek per spiegare la genesi del malessere legato al lavoro,

17 Il Gabassi spiega a tal proposito che la giustizia organizzativa ha a che fare con la percezione di un equo trattamento sul posto di lavoro, per cui si possono distinguere una giustizia distributiva (che riguarda il modo in cui le ricompense vengono distribuite), una giustizia procedurale (che riguarda il modo in cui i criteri distribuitivi vengono applicati) e una giustizia nelle interazioni (che riguarda la qualità delle relazioni sperimentate sul posto di lavoro). Tuttavia le prime due tipologie risultano legate più alla cultura, che a variabili soft come il clima; al contrario la giustizia nelle interazioni (le cui dimensioni caratteristiche sono ad esempio il rispetto della persona, l’assenza di trucchi, inganni, pregiudizi, commenti inopportuni, ecc.) è strettamente connessa al clima lavorativo, essendo tra i suoi antecedenti (Gabassi, 2006).

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sia stato successivamente integrato proprio con la dimensione del sostegno sociale (Karasek e Theorell, 1990, cit. in Aiello et al. 2012). Già all’epoca, il supporto ricevuto da colleghi e supervisori era apparso un importante modulatore dello stress, al contrario dell’isolamento sociale che concorreva invece ad alimentare una condizione di malessere. Tale supporto, inoltre, era inteso sia in termini strumentali, ovvero come sostegno in caso di difficoltà o problemi sul lavoro, che in termini emotivi, quindi con riferimento alla possibilità di condivisione dei vissuti relativi al lavoro. A maggior ragione gli studi specifici sull’engagement hanno dimostrato che, in generale, quelle che vengono definite risorse lavorative giocano un ruolo motivazionale intrinseco ed estrinseco. In tal senso la risorsa “sostegno sociale” produce motivazione intrinseca perché soddisfa uno dei bisogni fondamentali dell’uomo, quello di appartenenza; e produce al tempo stesso motivazione estrinseca perché, di fatto, agevola nel raggiungimento degli obiettivi di performance individuali (Bakker, Demerouti, 2006). Esaminando la letteratura al riguardo, si intuisce perfettamente che il concetto di sostegno comprende diverse sfumature, come il prendersi cura delle persone, l’aiutarsi reciprocamente o l’apprezzarsi a vicenda. Chiaramente tali sfumature (come pure la loro assenza) si rendono evidenti al livello operativo, ovvero laddove si conduce il “lavoro vivo”, per cui i manager giocano senza dubbio un ruolo di primo piano. E questo non solo nella prospettiva del rapporto “uno a uno” dove sicuramente è importante che i manager sappiano: mostrare interesse per la vita personale, oltre che professionale, dei singoli lavoratori; preoccuparsi del loro benessere, oltre che della loro prestazione; farsi carico delle loro esigenze, oltre che delle loro ambizioni (tutti comportamenti attenenti alla dimensione “cura”). Ma a maggior ragione i manager svolgono un ruolo cruciale nel diffondere l’esempio per quanto riguarda i comportamenti positivi di aiuto ed apprezzamento reciproco. Schaufeli, ad esempio, sostiene proprio l’importanza di diffondere un atteggiamento cordiale ed amichevole, che equivale a “apprezzare le persone che ci

circondano e tener conto di loro nel momento in cui si devono fare scelte e prendere decisioni, ed anche aiutarsi vicendevolmente, se necessario, quanto più possibile” (Schaufeli et al., 2012, p.68).

Analogamente, la Bridger parla di atti coscienti di gentilezza, sottolineandone la portata in termini di felicità per l’individuo18 (Bridger, 2016). Ecco, i manager devono proporsi come modello per

quanto riguarda la messa in pratica di simili comportamenti altruistici, e non a caso è stato rilevato che le loro azioni hanno un impatto significativo sull’impegno emotivo dei lavoratori, non solo nei confronti dei manager stessi, ma anche nei confronti della squadra o gruppo di lavoro (Corporate Leadership Council, 2004). D’altra parte la partnership con gli operatori HR, anche da questo punto di vista, può tornare estremamente utile, ad esempio si possono progettare e implementare all’unisono: audit di benessere che permettano di “prendersi cura” delle persone in modo più

18 La ricerca, infatti, ha dimostrato che, mettendo in pratica azioni quotidiane di gentilezza, le persone si sentono più felici (Schaufeli et al., 2012; Bridger, 2016).

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efficace (Schaufeli, Salanova, in Naswall et al., 2008); sistemi di valutazione delle performance che prendano in considerazione i comportamenti funzionali e pro-sociali, oltre che i risultati; bacheche o forum interni che consentano ai dipendenti di aiutarsi reciprocamente o ringraziarsi e congratularsi pubblicamente (Bridger, 2016).

Altro parametro fondamentale degli ambienti ad alto engagement è l’atteggiamento di apertura, sia al confronto, che alla condivisione. Nel primo caso risultano indispensabili due elementi, la libertà di espressione e la capacità di ascolto. Difatti, molteplici contributi evidenziano che quando i dipendenti si sentono in grado di esprimere la loro opinione, potendo contare sul fatto che questa verrà ascoltata, si sentono riconosciuti, tenuti in considerazione, e questo influenza positivamente il loro livello di engagement (MacLeod, Clarke, 2009, Schaufeli et al., 2012; Bridger, 2016). Si tratta di aspetti all’apparenza banali o scontati, finché non se ne comprendono le reali implicazioni. Ad esempio, la libertà di espressione può riferirsi: alla possibilità di manifestare liberamente il proprio punto di vista senza rischiare di essere svalutati, sminuiti o discriminati; alla possibilità di esternare liberamente il proprio dissenso senza il timore di eventuali ritorsioni; alla possibilità di mostrare il proprio lato “vulnerabile”, quindi di palesare preoccupazioni o disagi, senza paura di essere derisi, o peggio rifuggiti. E’ necessario, quindi, un elevato livello di fiducia per garantire una concreta possibilità di espressione, ovvero il lavoratore deve sentirsi emotivamente al sicuro. Da questo punto di vista manager e responsabili HR hanno sicuramente una responsabilità congiunta nel garantire il rispetto delle regole di condotta. Fenomeni come le molestie o gli abusi verbali, le derisioni, le squalifiche, le minacce, gli imbrogli, i soprusi, non possono essere tollerati. E questo, non tanto perché comportano effetti distruttivi sull’atmosfera lavorativa, ma soprattutto perché rappresentano un oltraggio alla dignità della persona. Che tipo di passione, impegno o dedizione potrebbe dimostrare un individuo oltraggiato nella sua dignità?

Tornando alla dimensione del confronto, è anche vero che non può esistere alcun tipo di scambio costruttivo in assenza di ascolto. Già in precedenza abbiamo visto quanto è importante che la voce dei dipendenti risuoni in quei luoghi dell’organizzazione in cui, di fatto, si definiscono le politiche e i sistemi di gestione delle risorse umane (in primis, le direzioni HR). Ma a maggior ragione al livello operativo è fondamentale che i manager sviluppino solide capacità di ascolto attivo, incoraggiando i collaboratori a fare ugualmente. L’ascolto attivo si fonda su elementi come la presenza (l’essere qui ed ora, ovvero totalmente focalizzati sull’interlocutore), l’empatia (ossia quella capacità di “mettersi nei panni dell’altro” e di accoglierlo completamente, così com’è), la sospensione di giudizio, la disponibilità ad osservare (espressioni, gestualità, postura) oltre che ad udire. Esso richiede, evidentemente, pazienza e allenamento, dal momento che l’abitudine comune è quella di ascoltare frettolosamente, distrattamente, superficialmente, insomma quel tanto che

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basta per rispondere, trarre conclusioni o elargire pareri e giudizi. Al contrario, la ricerca ha dimostrato che i manager in grado di ascoltare, quindi di prendere seriamente in considerazioni eventuali problemi o specifici contributi dei lavoratori, riescono a ridurre gran parte dello stress e della frustrazione sperimentati dagli stessi (Schaufeli et al., 2012).

Altro parametro fondamentale, come anticipato, è l’apertura alla condivisione, non solo di informazioni e conoscenze, ma anche di esperienze e vissuti personali. Il primo tipo di condivisione contribuisce alla diffusione del sentimento di valorizzazione: i lavoratori incoraggiati a condividere informazioni e conoscenze percepiscono di svolgere un ruolo centrale nella risoluzione dei problemi e nello sviluppo di innovazioni riguardanti, ad esempio, metodi, procedure, prodotti, servizi. Senza contare che quando i dipendenti hanno frequenti opportunità di discutere del loro lavoro, la coesione e il senso di appartenenza risultano oggettivamente rinvigoriti (ibidem). D’altra parte, anche la possibilità di condividere esperienze e vissuti personali, rafforza la fiducia e l’affiatamento tra i membri del gruppo. Ad esempio, per quanto riguarda il rapporto tra manager e collaboratori, la maggioranza dei contributi ribadisce l’importanza di una conoscenza personale, oltre che professionale, la quale consente al manager, non solo di innalzare il livello di fiducia nei propri confronti, ma anche di avere una visione più chiara e completa di ciò che ha valore per le persone, e che intrinsecamente le motiva (Bridger, 2016). Analogamente è importante che coloro che lavorano fianco a fianco abbiano l’opportunità e siano incoraggiati a conoscersi come persone. I benefici di un simile approccio alla condivisione tra le persone sono emersi chiaramente anche nell’ambito delle esperienze di vita che abbiamo raccolto. Uno dei professionisti intervistati, infatti, ci ha raccontato di una serie di iniziative messe in campo proprio per favorire una conoscenza che andasse oltre il mero ambito lavorativo: “quello che osservo

quotidianamente è che le persone che hanno dei rapporti aldilà dei ruoli professionali, che si conoscono meglio, lavorano meglio insieme. C’è uno scambio continuo di esperienze ma anche di esigenze; c’è la possibilità di un dialogo, di un confronto, ci si ascolta di più” (Appendice).

Dunque, una maggiore tolleranza, una più solida capacità di venirsi incontro, e di conseguenza un miglioramento del clima lavorativo, oltre che dei risultati. Chiaramente anche sotto questi aspetti, i responsabili HR e line manager possono collaborare al fine di: potenziare le possibilità di confronto, ad esempio progettando workshop o seminari formativi su questioni cruciali come la comunicazione efficace o l’ascolto attivo; stimolare la condivisione e la collaborazione professionale, ad esempio incoraggiando il lavoro di gruppo, il brainstorming, le comunità di pratica; favorire una conoscenza più autentica tra le persone, ad esempio prevedendo più frequenti occasioni di socializzazione e di sano divertimento comune.

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engagement, è dato dalla corretta, o meglio costruttiva, gestione dei conflitti interpersonali. Si tratta di un tema ampiamente noto nell’ambito della psicologia sociale e del lavoro. Sappiamo infatti, che l’eccessiva frequenza di conflitti conduce ad elevati livelli di stress e malessere lavorativo: la tensione psicologica si innalza, le emozioni negative prendono il sopravvento (es. rabbia, rancore, rivalsa) e aumenta di conseguenza l’insoddisfazione e la disaffezione verso il lavoro (Aiello et. al., 2012). Insomma, le dinamiche conflittuali, soprattutto se ricorrenti, conducono ben lontano dall’engagement perché minacciano il benessere psicologico degli individui e compromettono la fiducia, la coesione e la collaborazione. Ma a maggior ragione la frequenza di conflitti ha un impatto drammatico sugli stessi risultati di performance: Varney, ad esempio, nell’ambito dei suoi studi sui gruppi di lavoro altamente produttivi, ha rilevato che l’elevata conflittualità interna è la causa più diffusa dell’inefficacia del gruppo di lavoro (Varney, 1991); ancor prima, Evan aveva osservato che le dinamiche conflittuali concorrono a spostare l’attenzione dei membri del gruppo dalla performance ai tentativi di manutenzione della relazione, influenzando inevitabilmente gli esiti del lavoro di gruppo (Evan, 1965, cit. in Aiello et al., 2012). Dunque, non sorprende che gli stessi contributi a proposito dell’engagement tendano a sottolineare l’estrema importanza di una gestione costruttiva. Chiaramente già il fatto che si parli di “gestione” e non di “eliminazione” del conflitto, dà l’idea di un fenomeno sostanzialmente inevitabile. Esso infatti, si origina a partire dalle differenze, le quali possono riguardare i punti di vista, i valori, lo status sociale, il potere, le risorse (Varney, 1991); e le differenze tra individui purtroppo (o per fortuna) non si possono eliminare. Tuttavia l’aggettivo “costruttivo” sta proprio ad indicare il fatto che anche dal conflitto può emergere qualcosa di positivo e benefico, sia per la persona che per il gruppo o l’organizzazione nel suo complesso. Ad esempio: “proprio perché agiscono da stimolo

per ridestare l’interesse e liberare le energie inespresse, i conflitti spesso promuovono la creatività e l’impegno dei membri del gruppo” (Varney, 1991, p.84). Inoltre i conflitti obbligano le persone

ad essere oneste e chiare, prima di tutto con se stesse, stimolando l’orientamento alla soluzione (Schaufeli et al., 2012). Senza contare che i conflitti portati in superficie e opportunamente affrontati, rafforzano la relazione con gli altri, dunque la coesione tra i membri del gruppo (Varney, 1991; Schaufeli et al., 2012). Chiaramente, da questo punto di vista i manager hanno un ruolo decisivo19 che consiste, ad esempio, nel portare alla luce le conflittualità latenti, nell’intervenire

sui dissidi prima che sfocino in conflitti, nell’agire come mediatore nelle situazioni conflittuali cercando di far emergere nuove consapevolezze nei rivali, e naturalmente nel ricorrere al team HR in quanto risorsa preziosa in grado di contribuire alla risoluzione dei problemi (Bridger, 2016).

19 Il CIPD, nel 2011, ha condotto una ricerca per identificare le competenze manageriali necessarie per un employee engagement sostenibile; tra queste troviamo non a caso anche la gestione costruttiva di conflitti e problemi interpersonali sul lavoro (CIPD, 2011 cit. in Bridger, 2016).

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