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Case History B: l’area manager (I parte)

Capitolo 3 – Il contributo del Coaching all’Engagement

3.6 Case History B: l’area manager (I parte)

In questo paragrafo presenteremo e analizzeremo l’esperienza33 di vita di un altro professionista di

successo allo scopo di dimostrare, concretamente, l’impatto e gli effetti dello stile di gestione basato sui principi del coaching, ovvero orientato alla creazione di un rapporto collaborativo/fiduciario tra manager e collaboratori, nonché caratterizzato da un approccio non direttivo (piuttosto partecipativo) e focalizzato su potenzialità e punti di forza delle persone. Dunque, il protagonista di questo secondo case history, è un’area manager che attualmente lavora per un’azienda del settore termoidraulico, occupandosi della gestione dell’Area Sud che comprende agenzie di rappresentanza e filiali dirette. Egli è quindi responsabile, sia di agenti vendita mono e plurimandatari, sia di lavoratori subordinati alle dipendenze delle varie filiali.

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Chiaramente la sua storia con l’azienda in questione non inizia così: il professionista, infatti, ci ha raccontato che, fino ai primi anni del 2000, lui stesso era un agente vendita; aveva costituito la propria agenzia di rappresentanza e, tra i suoi mandati, aveva anche quello dell’attuale azienda. Si trattava, all’epoca, di un’azienda giovanissima che ambiva a crescere ed espandersi, ma che ancora non disponeva di una struttura ben definita in termini organigramma: tutto era ancora da costruire ed in questa prospettiva, il direttore commerciale di allora, che per inciso era il diretto responsabile del nostro protagonista, decise di candidarlo al ruolo di area manager; il nostro, dal canto suo, raccolse la sfida e superò le selezioni, preparandosi ad una nuova fase della sua vita professionale. Dunque, fin dall’inizio di questa storia, è perfettamente riconoscibile quello stile di gestione basato sui principi del coaching, ovvero orientato all’empowerment dei collaboratori: il diretto responsabile del protagonista gli offre l’opportunità di crescere in azienda e questo, non solo alla luce degli ottimi risultati che il professionista stava ottenendo come agente, ma anche perché, di fatto, quel responsabile intravede un potenziale nel suo collaboratore. Questo aspetto emerge palesemente dalle parole dell’area manager, quando riconosce che fu il proprio il suo superiore a credere in lui e nelle sue potenzialità e a dargli la possibilità di sviluppare il suo talento nella gestione delle persone. Ecco quindi che il responsabile riesce a guardare al proprio collaboratore, non solo in termini di performance, ma anche in termini di potenziale di sviluppo; e proprio per questo lo candida ad un ruolo di autonomia e discrezionalità, entro il quale il suo talento può maturare. Tra l’altro, analizzando questa stessa situazione da un altro punto di vista, si evince chiaramente l’adozione di un approccio che stimola la persona ad uscire dalla propria zona di comfort, per entrare in quella di sviluppo prossimale. Lo stesso protagonista, infatti, ammette che all’epoca si sentiva “arrivato” come agente: aveva costituito la sua agenzia che, come detto, portava ottimi risultati, e quello rappresentava il culmine della sua carriera di agente vendita. In sostanza, il lavoro di tanti anni iniziava a restituire i suoi frutti, e ciò poteva anche “bastare” al nostro protagonista. D’altra parte, però, gli veniva proposta una nuova sfida: un ruolo nuovo per lui, che avrebbe richiesto diverse competenze e un impegno, non solo maggiore, ma completamente differente dal momento che i risultati, questa volta, non sarebbero dipesi soltanto dal suo lavoro, ma dal lavoro delle agenzie e degli agenti che si preparava a gestire. Tutto questo, come specifica il professionista, in un territorio assai più ampio, il cui presidio avrebbe richiesto una costante lontananza da casa. Dunque, accettare la proposta dell’azienda, per il protagonista, significava, di fatto, rinunciare ad una posizione ormai comoda per mettersi nuovamente in discussione e apprendere tutta una nuova professionalità. Cosa lo induce ad intraprendere questo nuovo ed incerto percorso? E’ lui stesso a spiegarlo: l’azienda, nelle vesti del suo responsabile, non gli stava offrendo semplicemente un lavoro, ma la possibilità di svolgere le sue mansioni in

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autonomia e quindi di contribuire, con le sue qualità, ai progetti di crescita futuri. Ecco quindi quel sentimento di valorizzazione e coinvolgimento che tanta parte della letteratura riscontra alla base del work engagement (Robinson et al., 2004).

Difatti: cosa produce, concretamente, un simile approccio orientato all’autonomia e allo sviluppo del potenziale? Senso di sfida, responsabilità, voglia di imparare e di migliorare, empowerment e motivazione intrinseca. E tutto questo emerge sempre dalle parole del nostro protagonista: la possibilità di intraprendere un nuovo percorso, una nuova avventura, lo entusiasmava molto; aveva voglia di sperimentare e di mettersi nuovamente alla prova. Allo stesso tempo, però, avvertiva un grande senso di responsabilità: voleva sentirsi e all’altezza del nuovo ruolo e dimostrare, in un certo senso, di meritare la fiducia che gli era stata concessa. Questo lo induce ad investire ulteriormente sulla sua formazione, tant’è che il professionista decide di integrare quella iniziale erogata dall’azienda, con un percorso formativo/manageriale tutto suo.

In tal senso bisogna specificare, come fa lo stesso protagonista, che nell’ambito di tale percorso egli impara a lavorare sugli aspetti tecnici del ruolo, quindi strategie di pianificazione, budgeting, indici di risultato e così via, ma anche sull’aspetto umano, ovvero sulle qualità dell’essere che conducono alla riuscita. E difatti, il professionista definisce la propria formazione “tecnico- umana”; dunque una formazione che, non solo gli ha trasmesso contenuti e abilità tecniche essenziali, ma che a maggior ragione gli ha permesso di comprendere che per fare la differenza bisogna essere la differenza; il che significa, nella sua prospettiva, lavorare sulla propria persona per giungere a rappresentare una risorsa, non un limite, nei confronti di se stessi e degli altri. Come evidenziato dallo stesso protagonista, questo tipo di formazione gli consente di ampliare le sue competenze, ma attraverso un processo che evidentemente ha coinvolto tutte e tre le dimensioni della competenza: il sapere, il saper fare e soprattutto il saper essere. E qual è la conseguenza di questa formazione “globale”? E’ di nuovo il protagonista a raccontarlo: non solo una maggiore sicurezza nel rapportarsi alle situazione e alle questioni lavorative, ma la maturazione di una vera e propria filosofia di vita.

Nel primo aspetto si riconosce la persona empowered, ovvero una persona che ha la percezione di essere capace perché ha appreso le conoscenze, le abilità pratiche e le qualità dell’essere richieste dal proprio ruolo; e infatti lo stesso professionista ammette che a quel punto, non solo era riuscito ad entrare nel ruolo, ma stava diventando un riferimento prezioso anche per i propri responsabili e colleghi. Dunque la sensazione di potenza sperimentata dal professionista trova origine nell’ampliamento della competenza, ma a maggior ragione è alimentata dalla partecipazione attiva dello stesso all’interno della comunità di riferimento; e questo è il frutto dell’autonomia, ovvero

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della condizione di assoluta libertà di pensiero e azione di cui godeva il nostro protagonista, e, come ribadisce lui stesso, del fatto che il suo contributo era costantemente richiesto e preso in considerazione dall’azienda. In altri termini, il frutto di un approccio manageriale non direttivo, oltre che orientato allo sviluppo delle potenzialità.

Nel secondo aspetto, invece, si riconosce la persona intrinsecamente motivata, una persona che ha maturato la consapevolezza della causa più grande a cui il suo stesso lavoro obbedisce: nei termini del protagonista, non solo “essere la differenza per fare la differenza”, ma a maggior ragione “lasciare le persone diverse da come le hai trovate”, il che significa provare sempre ad innescare una crescita nelle persone che lavorano al suo fianco, cercando al tempo stesso di continuare a crescere assieme a loro. Nel prosieguo entreremo nel merito di come tale consapevolezza si traduca nella leadership agita dal professionista nei confronti dei propri collaboratori. Per il momento, ci limitiamo a rilevare quanto il lavoro svolto sulla competenza, e in particolare sulla dimensione del saper essere, abbia di fatto favorito l’engagement del nostro professionista. Difatti, anche l’area manager (come l’amministratore delegato del caso precedente), mettendosi in gioco in prima persona e lavorando innanzitutto su se stesso, ha avuto occasione di ricercare e scoprire ciò che vale (ha valore, è importante) nel proprio lavoro; ed è questa la scintilla della motivazione intrinseca, intesa quale dimensione fondamentale del work engagement. Ma c’è di più: l’engagement, come sappiamo è anche soddisfazione, impegno e identificazione/appartenenza, tutti elementi che, ancora una volta, si evincono chiaramente dalle parole del protagonista. Egli, infatti, si dice molto soddisfatto del proprio lavoro e di come le cose stavano andando in azienda; dimostra di contribuire attivamente alla crescita della propria organizzazione; riconosce di sentirsi parte integrante della stessa e chiama i collaboratori “i suoi uomini” (non “i suoi sottoposti”) proprio perché li percepisce come parte di sé e della sua squadra. Dunque, anche in questo caso, il test valutativo personalmente somministrato al professionista (il già citato UWES) ha solo confermato34 quanto palesemente osservabile e avvertibile in sua presenza, ovvero la passione e

l’orgoglio che il protagonista di questa storia nutre nei confronti del proprio lavoro.

E veniamo infine allo stile di leadership adottato dal professionista, i cui tratti emergono chiaramente nel momento in cui lo stesso ci racconta di un episodio in particolare: la rinascita della filiale di Bari. Difatti, per una serie di vicissitudini, che verranno approfondite nella seconda parte del case history, questa filiale versava in condizioni drammatiche, per cui il nostro professionista viene chiamato ad intervenire con l’obiettivo specifico di incrementarne il fatturato, poiché in caso

34 Alla prova della Scala Utrecht (versione short), il professionista in questione ha totalizzato un punteggio totale di 5,55 che indica un livello di engagement molto alto. Abbiamo, quindi, un ulteriore caso di work engagement vero e

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contrario sarebbe stata la prima filiale a dover essere chiusa nella storia dell’azienda. E invece, nell’arco di soli nove mesi, la squadra di Bari riesce a produrre un aumento di fatturato del 55% rispetto all’anno precedente; un risultato straordinario, oltre ogni aspettativa, tant’è che il professionista viene chiamato a presentare il percorso della filiale come case history nell’ambito della Riunione Nazionale Agenti tenuta all’inizio dell’anno successivo. Ma quali fattori hanno portato ad un simile successo? Seguendo le proporzioni del professionista, un 20% del risultato è dovuto al lavoro “tecnico” che ha riguardato, ad esempio, l’ottimizzazione dei ruoli, la gestione delle trattive, la maggiore efficacia nella chiusura degli ordini di vendita, ecc.; mentre l’80% è dovuto al lavoro “umano e relazionale”, ossia orientato all’empowerment dei collaboratori e alla costruzione di un rapporto solido, collaborativo e fiduciario.

Difatti il professionista ha innanzitutto chiarito le aspettative di risultato da parte dell’azienda, sottolineando che la riuscita avrebbe richiesto il contributo e lo sforzo di tutti, suo per primo. Dunque ha incoraggiato i collaboratori alla proattività, ovvero nei suoi termini, a fare cose, tentare nuove strade, ricercare opportunità. D’altra parte, l’area manager ha creato le condizioni affinché i collaboratori potessero decidere e agire autonomamente, dando però la garanzia che, in caso di problemi, lui sarebbe stato pronto a difenderli (nei confronti dell’azienda) e a cercare insieme a loro una soluzione. Ecco quindi la collaborazione, fondata primariamente sull’assunzione di responsabilità da parte del manager (integrità) che si traduce immediatamente in garanzia di sostegno. Ma nella stessa concessione di autonomia e discrezionalità è evidente anche la fiducia nelle capacità latenti dei collaboratori, così come il richiamo e l’appello alla loro responsabilità. Da qui l’empowerment, in quanto è lo stesso professionista ad ammettere che più i collaboratori erano nelle condizioni di pensare e decidere autonomamente, più risultavano responsabili e capaci di dimostrare, prima di tutto a se stessi, di saper fare e di poter riuscire. Dunque, nei termini del protagonista, la chiave del successo, è stata la formazione costante sulla persona, non solo in termini di conoscenze e abilità pratiche (sapere e saper fare attraverso il “lavoro tecnico”), ma anche e soprattutto sulle qualità dell’essere: la proattività, l’assunzione di responsabilità, la capacità di affrontare insicurezze e avversità e superarle (resilienza), la convinzione di avere in sé tutte le risorse per riuscire (auto-efficacia).

Come anticipato, questa esperienza, pur non accennando minimamente al coaching, fa emergere la potenza, l’efficacia e la sostenibilità di un approccio manageriale basato sui suoi principi, ossia (lo ribadiamo): orientato alla creazione di un rapporto collaborativo/fiduciario tra responsabili e collaboratori; caratterizzato da uno stile di gestione non direttivo che punta all’autonomia del lavoratore, la quale genera responsabilità, partecipazione attiva e apprendimento; e naturalmente avvalorato da un approccio strenght-based che guarda oltre le performance attuali per far emergere

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le potenzialità e trasformarle in punti di forza manifesti che favoriscono la riuscita dei collaboratori.