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Caratteristiche dell’attività lavorativa

Capitolo 2 – I drivers del work engagement

2.6 Caratteristiche dell’attività lavorativa

Da questo paragrafo in poi, cominceremo ad entrare nel merito dei drivers osservabili al livello micro-operativo, per cui vedremo crescere il ruolo e l’influenza del management di linea, rispetto agli operatori HR, senza però rinunciare alla possibilità di cogliere ulteriori spazi intersezione, di responsabilità congiunta, di gioco-forza, di partnership. Dunque in merito alle caratteristiche dell’attività lavorativa dobbiamo prendere in considerazione una serie di concetti fondamentali, tra cui quelli di varietà, autonomia e finalità. Ognuno di loro esercita una profonda influenza sull’engagement; non a caso si tratta di nozioni ampiamente studiate nel panorama degli studi sia sulla motivazione e soddisfazione lavorativa, sia sulla salute e il benessere organizzativo.

Per cominciare, la varietà; con questo termine bisogna intendere l’insieme di abilità che il lavoratore riesce ad impiegare nello svolgimento dell’attività lavorativa. Apriamo con ciò un

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argomento centrale fin dai tempi dei primi studi di psicologia industriale, quando lo Scientific

Management si stava ormai diffondendo rendendo visibili i suoi effetti devastanti. Uno di questi

era proprio la monotonia, derivante dall’esecuzione di compiti eccessivamente parcellizzati, quindi elementari, oltre che routinari, con la conseguenza di un’attività lavorativa completamente svuotata di senso. Oggi si parla più precisamente di boreout proprio per intendere quella condizione di annientamento associata generalmente ad un carico di lavoro eccessivamente ridotto, ad un’attività lavorativa eccessivamente semplice o routinaria oppure alla mancanza di stimoli ambientali (Schaufeli et al. 2012). Naturalmente anche in questo caso (come per il burnout e la dipendenza dal lavoro) siamo esattamente agli antipodi dell’engagement in quanto, se qui ritroviamo passione, impegno, attivazione, entusiasmo, in una situazione di boreout si palesano invece disinteresse, irritazione e insoddisfazione. L’elemento di discrimine tra le due condizioni sta proprio nel livello di complessità dell’attività lavorativa, da cui dipende il ventaglio di abilità che il lavoratore può mettere in gioco e, magari, sviluppare. Gli studi sull’engagement, infatti, dimostrano che i lavoratori hanno bisogno di percepire un sufficiente livello di sfida12 in quello

che fanno, e tale aspetto, appunto, viene a mancare quando il lavoro, o è avvertito come “troppo facile”, oppure è svolto da talmente tanto tempo da esser percepito ormai come banale e scontato. In tal senso è chiaro che i manager (supervisori, diretti superiori, capi, comunque si voglia chiamarli) hanno una visuale privilegiata, rispetto agli operatori HR; possono cogliere tempestivamente simili fenomeni, disfunzionali all’engagement, ed intervenire. Ad esempio, assegnando nuovi compiti ad alto valore aggiunto, come la formazione dei nuovi inseriti o la responsabilità di particolari progetti, lavori di gruppo; ancora, possono “alzare la posta”, rendendo più ambiziosi gli obiettivi di performance individuali. E naturalmente, possono coinvolgere le direzioni HR e progettare all’unisono precisi interventi sulle mansioni. Tra i più noti, ricordiamo, ad esempio, la rotazione (job rotation) periodica delle persone tra mansioni diverse, l’ampliamento (job enlargement) del numero di compiti aggregati in una stessa mansione o l’arricchimento (job enrichment) in termini di responsabilità associate ad una certa mansione.

Anche l’autonomia è un argomento ampiamente discusso ed analizzato in letteratura, così come i suoi effetti in termini di benessere, soddisfazione e motivazione. Dunque, non sorprenderà scoprire che le professioni caratterizzate da bassa autonomia, capacità decisionale e responsabilità, sono quelle che ottengono i punteggi più bassi sulla scala del work engagement (Schaufel et al. 2012). Per chiarire il ruolo dell’autonomia lavorativa possiamo far riferimento al modello Domanda/Controllo (Demands/Control) elaborato da Karasek verso la fine degli anni ’70. Si tratta

12 La Bridger parla a questo proposito di compiti Goldilocks, ovvero né troppo facili, né troppo difficili, dal momento che “il rischio di assegnare compiti inferiori alle capacità di un dipendente è la noia, il rischio di assegnare attività aldilà delle loro capacità è l’ansia” (Bridger, 2016, p.55).

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di un modello assai noto nell’ambito della psicologia del lavoro, secondo il quale stress e malessere lavorativo insorgono nel momento in cui il lavoratore è sottoposto ad elevate richieste lavorative ma non dispone del controllo (autonomia decisionale) necessario per farvi fronte come vorrebbe. Al contrario, un sufficiente grado di autonomia lavorativa, non solo riduce l’impatto negativo delle richieste lavorative, ma al tempo stesso produce un processo di apprendimento che porta con sé un sentimento di soddisfazione. Chiaramente anche da questo punto di vista i manager, sempre in virtù della loro posizione privilegiata, possono intervenire ed ampliare lo spazio di autonomia dei collaboratori. In tal senso la Bridger evidenzia la possibilità di operare su più livelli (Bridger, 2016):

• il quando; ad esempio adottando un sistema di lavoro basato sui risultati, invece che sulle scadenze si assicura maggiore flessibilità, stimolando il senso di responsabilità

• il come; ad esempio invece di imporre metodi, tecniche o procedure, i manager possono limitarsi a definire linee guida, lasciando ai collaboratori la scelta del modo in cui portare avanti il lavoro

• il chi; qui la faccenda si complica, perché sarebbe impensabile consentire a tutti i lavoratori di scegliere autonomamente i propri colleghi; tuttavia si possono comunque prevedere appositi progetti “aperti” in cui i partecipanti siano liberi di combinare le squadre a loro piacimento e discrezione

• il cosa; anche in questo caso il margine di manovra è alquanto limitato, considerando che ogni lavoro comprende una serie di attività che devono essere svolte, piaccia o meno; tuttavia si possono progettare soluzioni come i “giorni di lavoro creativo” durante i quali i collaboratori hanno la possibilità di lavorare su progetti o questioni di particolare interesse. Chiaramente queste e simili soluzioni possono essere definite ed implementate con l’ausilio dei responsabili HR, in modo da garantire un più efficace monitoraggio sia dei processi avviati che dei risultati man mano ottenuti in termini di engagement.

Dulcis in fundo, la finalità, la quale va intesa come autentica consapevolezza di contribuire, con il proprio lavoro, ad una causa più grande a cui si è scelto di aderire. In tal senso possiamo ricordare che già Hackman e Oldham (1976), nell’ambito della loro teoria sulle caratteristiche dell’attività lavorativa, avevano individuato la significatività come uno dei fattori alla base della motivazione al lavoro13. Tuttavia con questo termine, i due autori intendevano sostanzialmente il contributo che

13 Secondo gli studi di Hackman e Oldham i cinque fattori alla base della motivazione al lavoro sono: la varietà delle abilità, la completezza del compito, la sua significatività, il grado di autonomia e la possibilità di ricevere feedback sulla qualità del lavoro svolto. Come si intuisce la loro teoria ha ispirato il lavoro di molti teorici dell’engagement, tra cui Schaufeli e Bakker.

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l’attività svolta da ciascun lavoratore apporta al più ampio processo lavorativo. Dunque, nella loro prospettiva, la percezione di svolgere un’attività significativa all’interno del processo lavorativo, concorreva ad incrementare il livello di motivazione del lavoratore stesso. La finalità, invece, riguarda pur sempre il significato attribuito al lavoro, ma è un concetto più ampio che include anche il motivo, lo scopo dell’attività lavorativa. Essa quindi è strettamente connessa alla narrativa strategica14 sviluppata e diffusa dalla leadership aziendale. Si tratta di fattori cruciali,

unanimemente inclusi tra i drivers dell’engagement (Corporate Leadership Council, 2004; Robinson et al. 2004; Bakker, Demerouti, 2007; MacLeod, Clarke, 2009; Schaufeli et al., 2012). In particolare, gli studi dimostrano una stretta correlazione tra engagement e leadership

trasformazionale. Tale costrutto è stato introdotto da Bass (1985) per definire uno stile di guida e

di conduzione sostanzialmente contrapposto a quello conosciuto come transazionale, in cui il leader è orientato principalmente al mantenimento della stabilità organizzativa e alla costruzione di un legame pragmatico con i suoi collaboratori, anche tramite l’uso di gratificazioni. Al contrario il leader trasformazionale teorizzato da Bass è più orientato alla creazione della visione e all’empowerment dei collaboratori. Si tratta quindi di uno stile di guida e di conduzione che implica appunto una trasformazione degli individui; che riesce a far nascere l’entusiasmo e la motivazione verso il raggiungimento degli obiettivi, soprattutto quelli sfidanti (Gabassi, 2006). Insomma, i leader trasformazionali sono capaci di infondere ai propri collaboratori una profonda ispirazione15 che li porta ad affrontare la prestazione con una marcia in più e a compiere sforzi

maggiori nell’interesse comune.

La domanda è: come si spiega questa capacità dei leader? Come possono, i leader trasformazionali, infondere negli altri il desiderio di seguirli? Per rispondere a questa domanda possiamo far riferimento al modello del cerchio d’oro elaborato recentemente da Simon Sinek (2011). L’idea centrale è che i leader e le organizzazioni capaci di ispirare, pensano, agiscono e comunicano sostanzialmente secondo lo stesso schema, ovvero in un modo che è esattamente l’opposto di qualunque “comune mortale”. Lo schema è rappresentato, appunto, dal cerchio d’oro, composto da tre cerchi concentrici: al livello più esterno troviamo il cosa; al livello intermedio il come; al livello più interno troviamo il cuore del cerchio d’oro, il perché. Secondo Sinek il modo comune di comunicare è dall’esterno verso l’interno, perché ovviamente tendiamo ad andare dalle cose più chiare, a quelle man mano più sfocate. Il risultato è che tutti sanno quello fanno, cioè cosa

14Nel report Engaging for Success, la narrativa strategica è definita come la storia, il racconto dell’organizzazione, che faccia emergere chiaramente quali sono i suoi obiettivi, quali i motivi alla base della sua visione e come i singoli individui possono contribuire ai suoi scopi (Mac Leod, Clarke, 2009).

15 Non a caso i fattori alla base del modello di leadership trasformazionale proposto da Bass sono: l’influenza idealizzata (o carisma), motivazione ispirazionale (o ispirazione), stimolazione intellettuale e considerazione idividualizzata (Bass, 1985).

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producono, cosa vendono, cosa offrono, di cosa si occupano; alcuni sanno anche come lo fanno, cioè possono vantare un metodo migliore rispetto agli altri; tuttavia solo pochi, pochissimi sanno

perché lo fanno, quindi qual è lo scopo, il motivo del loro agire, in cosa credono.

Ecco, secondo l’autore, i grandi leader comunicano nella direzione opposta a quella comune, vanno dall’interno verso l’esterno, partono dal perché. E riescono ad ispirare sostanzialmente perché, in questo modo, parlano a quella parte del cervello umano (il sistema libico, la parte più arcaica) che è responsabile di tutte le nostre emozioni, del nostro processo decisionale e, per estensione, del nostro comportamento. La capacità di linguaggio, invece, risiede nella neocorteccia celebrale, che è la parte più giovane del cervello umano, quella che controlla il pensiero razionale e analitico. Dunque la conclusione di Sinek è che quando parliamo dall’esterno verso l’interno (modo comune), chi ci ascolta può comprendere fatti, numeri, costi, benefici, ma la parte di cervello impiegata non guida il comportamento; quando invece parliamo dall’interno verso l’esterno (come i grandi leader ispiratori) è il sistema limbico che prende il sopravvento, innescando nell’interlocutore emozioni e volontà d’azione; in questo modo il cosa e il come (poi richiamati razionalmente) appaiono per quello che sono, una testimonianza tangibile di ciò in cui si crede. D’altra parte cominciando dal perché, comunicando innanzitutto lo scopo, si attraggono automaticamente coloro che si riconoscono nel medesimo credo16; e questi saranno pronti al dare

il massimo per la causa, non per il leader, ma per loro stessi, perché quella causa è anche la loro. Questo spiega il collegamento tra l’engagement (la passione nel lavoro), la finalità (il perché, lo scopo) e la leadership trasformazionale (quella che ispira e trasforma). La teoria di Sinek, in effetti, dal punto di vista concettuale, non è affatto lontana dal già citato finding #6 del Corporate Leadership Council (2004, p.10) in cui, a proposito dell’influenza dell’engagement emotivo sulle prestazioni lavorative, si conclude: “Performance depends on the heart over the mind”.

Per concludere, bisogna precisare che la scelta di includere simili argomenti (la finalità, la narrativa strategica, la leadership trasformazionale) tra i drivers osservabili a livello operativo (micro), e non organizzativo (macro), è dettata da un motivo ben preciso. Difatti, considerando la crescente complessità delle grandi aziende, è facile intuire che la leadership di una singola persona, al vertice dell’organizzazione, è ormai condizione necessaria, ma non più sufficiente (Bellandi, 2006). Per questo sempre più spesso si sente parlare di leadership diffusa, basata sull’idea che le molteplici persone, al governo dei vari sotto-sistemi organizzativi (inclusi i responsabili HR e i manager di linea), adottino il medesimo stile di leadership, in modo da diffondere il credo aziendale (obiettivi, valori, missione, visione) a tutti i livelli dell’organizzazione. E non a caso la Bridger ribadisce: “è

16 Questo aspetto lo abbiamo ritrovato alla base delle stesse strategie di employer branding, orientate al ricercare la coerenza persona-organizzazione.

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necessaria una narrativa avvincente per trasmettere finalità e significato ai dipendenti, ma a loro volta i manager devono vivere e assorbire tale narrativa, esserne modelli esemplari e comunicarla efficacemente” (Bridger, 2016, p. 63). Dunque, è a livello operativo che si osserva l’efficacia della

narrativa strategica e della leadership trasformazionale; nell’impegno e nella passione che ogni giorno i dipendenti investono nel proprio lavoro.