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Capitolo 3 – Il contributo del Coaching all’Engagement

3.5 Il manager come coach

Quando Whitmore iniziò a lavorare per adattare i principi del coaching al mondo aziendale, si rese immediatamente conto di un aspetto ambivalente, ovvero del fatto che, in ambito lavorativo, viene richiesto alle persone di dare il meglio di sé ma al tempo stesso le si costringe entro regole e schemi rigidi da cui hanno difficoltà a svincolarsi. Oppure, all’opposto, le persone vengono abbandonate a loro stesse e sovraccaricate di responsabilità senza nemmeno valutare se siano in grado di assumerle e fronteggiarle. Questi approcci rappresentano i due estremi degli stili di management individuati da Whitmore (2003) e rispettivamente definiti stile dittatoriale (caratterizzato, appunto, da un approccio decisamente autocratico volto ad impartire ordini e/o istruzioni) e stile laissez-

faire (in cui il manager, in un certo senso, abdica alle proprie funzioni e responsabilità). Nel mezzo,

però, se ne collocano altri due: lo stile persuasivo e quello interlocutorio. Il primo implica un cambiamento di forma ma non di sostanza, nel senso che in questo caso non si danno esplicitamente degli ordini alle persone (come nello stile dittatoriale) ma l’obiettivo resta quello di convincerle ad eseguire le proprie istruzioni. Il secondo, invece, implica un vero e proprio confronto con i collaboratori, in seguito al quale il manager potrebbe anche decidere di accogliere le loro proposte; si tratta quindi di un approccio abbastanza accondiscendente, il cui unico aspetto negativo è dato dall’eccessivo dispendio di tempo causato dai probabili momenti di indecisione. Questa distinzione consente all’autore di mettere in evidenza il fatto che nessuno degli approcci descritti consente al manager di perseguire, contemporaneamente e adeguatamente, quelli che secondo Whitmore sono i suoi compiti prioritari, ovvero: fare in modo che il lavoro venga svolto nel migliore dei modi ma, allo stesso tempo, fare sì che i dipendenti migliorino, di volta in volta, dal punto di vista professionale. Ciò significa, certamente, ridurre i tempi di esecuzione e innalzare la qualità del lavoro finale, ma, parallelamente, massimizzare l’apprendimento e lo sviluppo dei propri collaboratori in modo che le loro performance lavorative possano realmente andare ad incrementare la competitività dell’azienda in cui operano. Ed è proprio per questo che Whitmore sostiene la necessità di uno stile manageriale basato sui principi del coaching che, come avremo modo di dimostrare, risulta totalmente orientato all’empowerment dei collaboratori.

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Dunque, secondo l’impostazione dell’autore, lo stile di gestione basato sui principi del coaching è caratterizzato da tre elementi fondamentali: la creazione di un rapporto tendenzialmente paritetico e collaborativo tra manager e sottoposti, l’adozione di uno stile non direttivo e di un approccio strenght-based, cioè basato sui punti di forza dei collaboratori. In merito al primo punto, l’obiezione più comune è incentrata sul fatto che i manager non possano ambire ad essere veri coach per i propri collaboratori, dal momento che il coaching è basato su un rapporto paritetico tra coach e cliente, mentre tra manager e collaboratori esiste pur sempre una relazione gerarchica di potere-dipendenza. Whitmore però parla di “manager come coach” proprio per sottolineare la possibilità, da parte del manager, di agire come un coach, ossia di assumere un approccio volto alla costruzione di un rapporto tendenzialmente paritario e comunque orientato allo sviluppo personale e professionale dei suoi collaboratori. E’ chiaro quindi che in questo quadro, il rapporto paritetico debba essere inteso primariamente come rapporto di fiducia e assoluta collaborazione, in cui la figura del manager, pur restando gerarchicamente superiore, è percepita come risorsa e fonte di aiuto, piuttosto che come limite o minaccia. E proprio a questo scopo, secondo l’autore, è necessario che il manager riesca ed esprimere sul lavoro le proprie qualità migliori (come la presenza, la fiducia, l’empatia, l’integrità, l’imparzialità) e a creare un ambiente in cui il personale si senta innanzitutto seguito, e allo stesso tempo valorizzato (Whitmore, 2003).

D’altra parte agire come un coach, in ambito lavorativo, significa abbandonare, o meglio, limitare il ricorso allo stile direttivo. Whitmore a tal proposito fa notare che questa non è cosa semplice, dal momento che, in generale, ogni bambino cresce a forza di ordini e istruzioni, diventando a sua volta un adulto abilissimo nel riprodurre lo stesso atteggiamento. A maggior ragione lo stile direttivo in ambito lavorativo presenta dei vantaggi tangibili per il manager, in quanto, non solo gli consente di ottenere facilmente e velocemente quello che vuole, ma amplifica all’inverosimile la sua sensazione di avere il controllo su ogni cosa. Eppure: quali effetti produce sui collaboratori? Nel migliore dei casi demotivazione e risentimento (sorgono dal sentirsi costretti e privi di scelta) che conducono a prestazioni appena mediocri; ma l’aspetto peggiore è che l’adozione incondizionata dello stile direttivo, di fatto, annienta le possibilità di apprendimento e sviluppo dei collaboratori, e questo genera ulteriore frustrazione, oltre a compromettere la crescita futura dell’azienda nel suo complesso. Al contrario un manager che agisce come coach (ovvero secondo i principi del coaching) incoraggia i propri collaboratori all’autonomia e all’indipendenza. In altri termini adotta uno stile non direttivo che sostituisce agli ordini, le istruzioni, i consigli e via dicendo, le domande. Come osserva Julie Starr, altra coach professionista, i due approcci partono da presupposti completamente opposti: nello stile direttivo il presupposto è che il manager sa cosa fare, pertanto lo dice, cioè illustra come intende procedere, e il sottoposto esegue; nello stile non

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direttivo il presupposto è che il collaboratore sa cosa fare, pertanto il manager gli chiede come intende procedere e lo lascia decidere e agire (Starr, 2011). Nel secondo caso è evidente che al lavoratore, non solo è riservato quel trattamento paritetico di cui dicevamo, ma a maggior ragione è confermata la fiducia da parte del manager.

E quali sono gli effetti di un approccio non direttivo che incoraggia all’autonomia? Innanzitutto un innalzamento del livello di motivazione intrinseca, la quale alla luce della Teoria dell’auto- determinazione (Deci, Ryan, 2000) è strettamente connessa anche al bisogno innato di autonomia (come a quelli di competenza e relazionalità, sui quali torneremo più avanti). Inoltre, quando si concede alle persone di pensare, decidere ed agire in modo autonomo, queste risultano più coinvolte, meno passive ed anzi proattive, nonché di gran lunga più responsabili (Whitmore, 2003, Starr, 2011). Il significato del termine responsabilità, infatti, è racchiuso nella sua etimologia: esso deriva dal latino respondere, che significa rispondere. Dunque rispondere di qualcosa, rendere conto delle proprie azioni e farsi carico delle loro conseguenze; ma è chiaro che l’individuo può rispondere pienamente solo di ciò che ha concepito, deciso e agito autonomamente. D’altra parte è evidente che quando i manager rinunciano agli ordini e alle istruzioni e iniziano piuttosto a chiedere e domandare, la persona è incoraggiata, non solo a pensare con la propria testa, ma a partecipare, ad offrire il proprio contributo. E questo è fondamentale sia nella prospettiva dell’empowerment, poiché esso si persegue primariamente attraverso la partecipazione attiva dell’individuo all’interno della comunità di riferimento (così come rilevato da Zimmerman), sia nella prospettiva dell’engagement, in quanto, come visto in precedenza, esso è strettamente legato anche alla partecipazione nei processi decisionali (Robinson et al., 2004; Schaufeli et al, 2012), che genera, appunto, coinvolgimento e proattività.

Tuttavia il vero discrimine tra lo stile direttivo e quello non direttivo è che il primo genera dipendenza, mentre il secondo conduce all’apprendimento. L’essere umano, infatti, impara primariamente attraverso l’esperienza, secondo un modello ciclico teorizzato verso la metà degli anni ’80 David A. Kolb, docente di Psicologia Sociale alla Harvard University. Esso prevede quattro fasi: l’esperienza concreta, l’osservazione riflessiva (in cui si elabora il significato dell’esperienza), la concettualizzazione astratta (che è il momento di apprendimento vero e proprio in cui si organizzano logicamente i contenuti emersi) e nuovamente la sperimentazione attiva. Dunque i manager che si ostinano ad impartire ordini e istruzioni a quelli considerano i propri sottoposti, non fanno altro che inibire l’altrui possibilità di esperire e sperimentare autonomamente; ed ottengono come risultato delle persone che, di fatto, si limitano ad eseguire e se ne abituano a tal punto che, in mancanza di direttive specifiche, si sentono incapaci di agire. Ecco quindi la dipendenza. Al contrario, quando la persona è libera di pensare, decidere e

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sperimentare, riesce più facilmente ad imparare, dai propri successi e soprattutto dagli insuccessi, e a trovare in se stessa la spinta a migliorarsi, senza aspettarsi da nessuno, nemmeno dal proprio superiore, la “ricetta giusta” (Whitmore, 2003). Da questo punto di vista, la concessione di fiducia e autonomia si traduce, di fatto, in un ampliamento della competenza individuale nelle tre dimensioni del sapere (significati e contenuti emergenti dall’esperienza), saper fare (capacità pratiche affinate attraverso l’esperienza) e saper essere (se non altro per la responsabilità e la spinta al miglioramento che l’autonomia comporta). In questo quadro, il contributo più prezioso del manager che agisce come coach è dato dal feedback; quel feedback costruttivo, privo di giudizi di valore, che sostiene e orienta l’apprendimento già innescato.

Chiaramente tutti gli studiosi e gli esperti di coaching, a partire da Whitmore, pur sostenendo, in termini generali, la maggiore efficacia di uno stile di gestione non direttivo (ma partecipativo), non intendono affatto demonizzare quello direttivo; anzi, si mostrano unanimemente concordi sul fatto che in alcune circostanze quest’ultimo può comunque rivelarsi funzionale. Ad esempio, quando il fattore tempo rappresenta il criterio decisivo della performance (Whitmore, 2003), ma anche quando la persona che il manager ha di fronte non possiede abbastanza informazioni o competenze per trovare autonomamente le proprie soluzioni (Starr, 2011). Quindi, come anticipato, lo stile direttivo non deve essere necessariamente abbandonato, solo limitato alle situazioni che effettivamente lo richiedono. E’ chiaro, infatti, che esso non può rappresentare il normale modus operandi del manager che persegue la motivazione, il coinvolgimento (engagement), la proattività, la responsabilizzazione e lo sviluppo continuo dei propri collaboratori; simili effetti si ottengono, come visto, concedendo fiducia e autonomia alle persone. E veniamo, infine, all’approccio strenght-based che rappresenta un ulteriore cardine dello stile di gestione basato sui principi del coaching. Come ampiamente anticipato, la metodologia introdotta da Gallwey e sviluppata da Whitmore, punta primariamente a “liberare il potenziale” e “tirar fuori il meglio dalle persone”. Simili espressioni sottendono una precisa convinzione: all’interno di ciascun individuo esistono molteplici talenti che aspettano solo di essere scoperti e sviluppati. E a questo proposito Whitmore ribadisce, in modo molto schietto, che un manager, o un coach, che non siano pienamente convinti del fatto che le persone con cui si rapportano possiedano molte più capacità di quante ne esprimano normalmente, non riusciranno mai ad accompagnare quelle persone a superare se stesse (Whitmore, 2003). Dunque, uno dei principi basilari del coaching prevede proprio che si guardi all’individuo in termini di potenzialità, non di performance, facendo luce su ciò che la persona è in grado di essere e di fare aldilà del momento attuale, per poi accompagnarla a realizzare ed esprimere questo potenziale.

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Chiaramente, anche da questo punto di vista si evince perfettamente la vicinanza tra il coaching e la Psicologia Positiva che, appunto, secondo l’impostazione di Seligman, si focalizza sulle risorse e le potenzialità dell’individuo (non più sulle patologie, i deficit e le carenze), impegnandosi a sostenere e migliorare i suoi punti di forza (invece di limitarsi a “riparare i danni”). Dunque, anche la Psicologia Positiva adotta l’approccio strenght-based, e non potrebbe essere diversamente dal momento che anch’essa, come il coaching, persegue la realizzazione (eudaimonia) della persona. Difatti, gli studi condotti nell’ambito di questo nuovo quado teorico, dimostrano proprio che quando le potenzialità individuali sono sconosciute, represse o comunque non espresse, la persona sperimenta disagio e malessere derivanti da una sorta di incompletezza percepita; al contrario quando tale potenziale è riconosciuto, allenato e consapevolmente utilizzato in tutti gli ambiti di vita (compreso il lavoro), allora la persona sperimenta quel senso di completezza e realizzazione che apre le porte ad un’esistenza felice e ricca di significato (Pannitti, Rossi, 2012).

Partendo da questi presupposti l’ambizioso obiettivo di Seligman e collaboratori è stato quello di elaborare, per la prima volta nella storia della psicologia, un manuale analogo ai noti DSM (Diagnostic and Statistic Manual of Mental Disorder) e ICD (International Classification of Diseases) che classificasse, invece dei disturbi e i disagi mentali, le virtù universali, intese come qualità dell’essere, ovvero come caratteristiche positive degli esseri umani. Quindi, attraverso l’analisi del pensiero filosofico e spirituale, occidentale e orientale, Seligman e Peterson sono giunti ad individuare sei virtù universali (high six): giustizia, umanità, saggezza, temperanza, trascendenza e coraggio. Tali virtù sono universali, cioè presenti in ogni individuo, e si manifestano, a livello individuale, attraverso le potenzialità o i punti di forza del carattere. Difatti anche questi, sono stati oggetto di un’approfondita analisi che ha portato Seligman e colleghi ad individuare 24 potenzialità, o punti di forza, universalmente riconoscibili, ognuna associata ad una particolare virtù. Ad esempio, alla virtù della saggezza sono collegate le potenzialità, o punti di forza, della creatività, della curiosità, dell’apertura mentale, dell’amore per l’apprendimento e della lungimiranza. In tal senso, è facile osservare come tra le potenzialità rintracciate da Seligman e colleghi, si possano individuare molte di quelle risorse personali che nel quadro del modello JD- R (ampiamente indagato in precedenza) sono ritenute capaci di attivare quel processo

motivazionale che conduce al work engagement: la speranza/ottimismo e

l’umorismo/estroversione collegati alla virtù della trascendenza; la vitalità/entusiasmo e la perseveranza/resilienza collegate alla virtù del coraggio; l’intelligenza sociale/assertività collegate alla virtù dell’umanità o l’autocontrollo/stabilità associati alla virtù della temperanza. Dunque non è un caso che i teorici dell’engagement e del modello JD-R insistano tanto sulla responsabilità

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soggettiva e la capacità di attivare volontariamente simili risorse potenziali per accrescere il proprio engagement.

Questo però ci riporta ad una questione fondamentale, affrontata sia nell’ambito del coaching che della Psicologia Positiva. Difatti Seligman e colleghi, per riferirsi alle 24 qualità positive individuate, parlano alternativamente di potenzialità e punti di forza del carattere. I due concetti però non sono equivalenti perché la potenzialità fa riferimento ad un talento ancora latente che può diventare punto di forza manifesto nel momento in cui viene, non solo riconosciuto, ma anche allenato. In altri termini: “le componenti del buon carattere sono degli abiti acquisiti e manifestati

solo attraverso la pratica, che necessitano di un costante esercizio volontario, facendo così del soggetto stesso l’elemento primario dei suoi punti di forza” (Laudadio, Mancuso, 2015, p.81).

Analogamente nel coaching, il processo che conduce a liberare il potenziale ancora latente è inteso come prodotto di due momenti successivi: la conoscenza di sé e la cura di sé (Pannitti, Rossi, 2012). Il primo concetto fa riferimento alla scoperta di sé, non solo in termini di carenze e limiti, ma anche in termini di qualità, talenti e risorse celati nel profondo; ed è chiaro che questo percorso di scoperta si traduce in un’ulteriore espansione della consapevolezza (e/o auto-consapevolezza) la quale però, in assenza di riscontro pratico, resterebbe fine a se stessa. Ecco quindi l’estrema importanza del secondo passaggio consistente nella cura di sé, ovvero nel lavoro etico che si compie sulla propria persona, o in termini più tecnici, nell’esercizio intenzionale volto all’allenamento del potenziale finalmente scoperto (Pannitti, Rossi, 2012). A questo punto sarà facile osservare che questo processo, nel suo complesso, si ripercuote positivamente, non solo sull’empowerment, ma anche sulla motivazione e, in ultima analisi, l’engagement dei collaboratori. Difatti l’empowerment, come anticipato, dipende anche dalla possibilità di scoprire, attivare ed allenare le risorse potenziali della persona, in modo da trasformarle in veri e propri strenghts, ossia in punti di forza manifesti del carattere che esprimono la potenza stessa della persona (non dimentichiamo che il termine strenght, nella lingua inglese, significa forza, ma anche potenza). Allo stesso tempo però, il processo di scoperta/allenamento delle risorse potenziali si traduce in un ulteriore ampliamento del saper essere, attraverso il sapere e saper fare: in altri termini la conoscenza di se stessi e delle proprie potenzialità (sapere), unita alle capacità pratiche di allenarle e esercitarle (saper fare), consente il passaggio dalle potenzialità, intese ancora come qualità latenti dell’essere, ai punti di forza, intesi invece come qualità manifeste dell’essere. Abbiamo quindi un’ulteriore espansione della sfera della competenza individuale che, alla luce della Teoria dell’auto-determinazione (Deci, Ryan, 2000), genera motivazione intrinseca. E non è tutto, dal momento che proprio questo genere d’investimento sulla competenza, e in particolare sulla dimensione del saper essere, produce quel sentimento positivo di valorizzazione che alimenta

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il work engagement; in altri termini il lavoratore, a questo punto, ha davvero la sensazione che l’azienda, attraverso i suoi responsabili, ha una visione a lungo termine del suo valore (Robinson et al., 2004) e che intende coltivarlo.

In sostanza il manager che agisce come coach non fa altro che stimolare, incoraggiare e sfidare i propri collaboratori ad uscire dalla cosiddetta zona di comfort, per entrare nella zona di sviluppo prossimale, in cui si apprende e si migliora. Difatti, sia lo stile non direttivo (orientato all’autonomia), sia l’approccio strenght-based (orientato alla scoperta/allenamento di risorse potenzialità latenti) puntano all’apprendimento della persona, ovvero all’ampliamento della sfera di competenza individuale, nelle sue dimensioni del sapere, del saper fare e soprattutto del saper essere. Ma a maggior ragione, sia lo stile direttivo, sia l’approccio strenght-based, conferiscono potenza (empowerment) alla persona, ossia quella percezione appresa di essere capaci che deriva nel primo caso (stile non direttivo) dal coinvolgimento e dalla partecipazione nei processi decisionali, e nel secondo caso (approccio strenght-based) dal lavoro consapevole svolto per trasformare le risorse potenziali in punti di forza manifesti del carattere. Dunque, in ultima analisi, sia lo stile direttivo che l’approccio strenght-based alimentano il work engagement perché di fatto producono nella persona quel sentimento positivo di valorizzazione (approccio strenght-based) e coinvolgimento (stile non direttivo) alla base del costrutto.