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Capitolo 3 – Il contributo del Coaching all’Engagement

3.3 Il metodo G.R.O.W

In questa sede esamineremo uno dei metodi introdotti da Whitmore nella sua opera intitolata

Coaching for Performance27. Si tratta di un testo pubblicato nel lontano 1992 ma che rappresenta

ancora oggi il best-seller sul coaching più venduto al mondo, tradotto in ben 17 lingue. Dunque, secondo l’autore, posta una questione da risolvere o un obiettivo da raggiungere il compito prioritario del coach, sia che operi in ambito lavorativo o nel privato, è quello di accompagnare la persona (coachee) ad avere una visione quanto più chiara possibile del contesto in cui si trova ad operare, stimolando strategie di pensiero e di azione alternative, centrate sulla soluzione, invece che sul problema. Proprio in risposta a questa duplice istanza, Whitmore sviluppa il metodo

26 E’ la società di coaching fondata in Inghilterra dai tre, per conto della quale Whitmore svolge ancora oggi un’intensa attività di consulente e conferenziere sul coaching e il lavoro di team nelle grandi aziende.

27 In italiano il titolo dell’opera è semplicemente “Coaching” e il nostro riferimento è stata l’edizione del 2003 edita da Sperling & Kupfer.

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G.R.O.W.28 che prevede sostanzialmente quattro passi successivi, ognuno identificato da una

lettera dell’acronimo:

• Goal – fissare e definire gli obiettivi • Reality – analizzare la realtà

• Options – verificare le opzioni e le strategie di azione attuabili

• What, When, Who, Will – pianificare l’azione, ossia definire cosa fare, quando farlo e chi dovrà farlo, accertando, al tempo stesso, l’esistenza della volontà di fare.

Procedendo per ordine, il primo step indicato dall’autore prevede l’identificazione e la definizione dell’obiettivo che la persona intende raggiungere. Nella sua opera è lui stesso a spiegare che un approccio logico suggerirebbe il contrario, ovvero che bisogna prima conoscere la realtà e, in base ad essa, porsi determinati obiettivi. Tuttavia la ricerca e l’esperienza di Whitmore rivelano l’inefficacia di un simile approccio in quanto, gli obiettivi fissati dopo aver analizzato la realtà dei fatti tendono a basarsi su ciò che è stato fatto in passato invece che su quanto è possibile fare in futuro, e nella maggior parte dei casi la persona non tenta neppure di aprirsi a nuove sfide o di mettersi realmente alla prova (Whitmore, 2003). Inoltre, partendo dall’analisi della realtà, prevale la tendenza a focalizzarsi sugli obiettivi di breve termine, avvertiti come più urgenti, i quali però spesso si rivelano addirittura controproducenti rispetto allo “stato desiderato” auspicato dalla persona. Per questo, sostiene l’autore, è preferibile che il coachee identifichi prima la condizione ideale di lungo termine, riservandosi la possibilità di tornare a ragionare sull’obiettivo allo scopo di modificare o specificare alcuni aspetti, dopo aver analizzato la realtà.

D’altra parte, proprio alla luce di quello che viene definito “stato desiderato”, Whitmore propone un’ulteriore distinzione: quella tra obiettivo finale e obiettivo di performance. Il primo è inteso, appunto, come condizione ideale da raggiungere che fornisce l’ispirazione, la motivazione e la perseveranza; il secondo, invece, identifica il livello di performance che, secondo il giudizio del coachee, può garantire con un certo margine di sicurezza il raggiungimento dell’obiettivo finale. Parafrasando si potrebbe dire che l’obiettivo finale è il fine di lungo periodo, mentre l’obiettivo di performance è il mezzo di breve periodo, il quale, tra l’altro, presenta un vantaggio inestimabile: al contrario del primo, è totalmente sotto il controllo della persona e progressivamente monitorabile. Ecco perché, a detta di Whitmore, gli obiettivi finali dovrebbero essere sempre supportati da quelli di performance: è molto più facile assumere impegno e responsabilità nei

28 Acronimo emblematico, dal momento che il termine grow, in inglese, significa crescere, espandersi, trasformarsi, svilupparsi (Dizionario Word Reference).

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confronti di risultati che siano sotto il controllo della persona, e gli obiettivi finali, rappresentando l’ideale a cui tendere, non lo sono completamente.

Sempre nella prospettiva della piena assunzione di responsabilità da parte del coachee, un altro aspetto fondamentale su cui insiste l’autore è rappresentato dal coinvolgimento personale rispetto all’obiettivo. In sostanza questo deve essere auto-determinato (espressione di una scelta autonoma) o comunque concordato, condiviso e accolto (fatto proprio) dalla persona (questo soprattutto per quanto riguarda gli obiettivi lavorativi, in genere assegnati, invece che auto-determinati); altrimenti risuonerebbe come un’imposizione che viola la libertà della persona, e in assenza di libertà non può esservi responsabilità né impegno. Infine, ultimo aspetto da considerare in merito agli obiettivi riguarda la chiara definizione: l’individuazione sommaria dell’obiettivo non è sufficiente secondo Whitmore; occorre una definizione quanto più ricca e completa di ciò che la persona intende ottenere, in modo da agevolarne e concretizzarne il perseguimento; dunque il coach persegue innanzitutto la massima chiarezza degli obiettivi.

Il secondo step previsto dal metodo G.R.O.W. consiste nell’analisi della realtà. In questo caso il compito del coach è quello di stimolare nel coachee la capacità di osservazione riflessiva, non solo della realtà, ossia dei meccanismi di funzionamento degli ambienti in cui è inserito (lavorativo, familiare, scolastico, sociale ecc..) e delle situazioni contingenti all’interno delle quali si trova ad operare, ma anche, e soprattutto, delle modalità in cui generalmente la persona si approccia ad essa. Parliamo, in sostanza, di veri e propri copioni (script), che ciascun individuo struttura nel corso della propria esperienza e che determinano il suo primario modo di essere nel mondo. La genesi di tali copioni (beninteso che con questa espressione si fa riferimento a precise routine comportamentali derivanti da specifiche strutturazioni della psiche) è connessa al processo attraverso cui ogni soggetto avverte e sperimenta, fin dai primi giorni di vita, le emozioni di base: queste ultime, infatti, determinano una particolare forma del sentire; un sentire interno che diventa

un personale filtro nel rapportarsi a se stessi, agli altri e al mondo(Masini, 2009, p.33). In questo quadro, l’efficacia o l’inefficacia dell’azione umana, non dipende dalla strutturazione di un copione giusto o sbagliato, migliore o peggiore; la questione, infatti, si pone in termini di

funzionalità, poiché è chiaro che uno stesso schema comportamentale non può rivelarsi funzionale

in ogni circostanza di vita. Senza contare che il concetto stesso di copione implica l’automaticità di determinate azioni o comportamenti, limitando drasticamente le possibilità di scelta, ovvero di autonoma determinazione dell’individuo. In tal senso il coach, incoraggiando all’osservazione riflessiva (ovvero ad un’analisi obiettiva e descrittiva, cioè priva di giudizi di valore) conduce il coachee ad acquisire maggiore consapevolezza dei suoi schemi comportamentali. L’obiettivo del professionista, infatti, è quello di aiutare la persona a considerare la propria azione come il frutto

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di un personale modo di approcciare al mondo che non è né unico, né inevitabile, per poi accompagnarla nella ricerca, nella scoperta, nella valutazione, degli altri modi possibili, innescando in lei l’interesse e la volontà di sperimentarli.

In merito all’analisi della realtà, invece, c’è un ulteriore e fondamentale aspetto da considerare, strettamente connesso al passo successivo del G.R.O.W. che prevede la verifica delle alternative d’azione praticabili (Options). Tale aspetto è efficacemente sintetizzato nella celebre frase “la mappa non è il territorio”, formulata da Alfred Korzybski, padre della semantica generale, e ripresa alla fine degli anni ’70 da Gregory Bateson, noto antropologo. Tale espressione è usata per sintetizzare un processo cognitivo specifico: ciascun individuo crea rappresentazioni (appunto, mappe) del mondo in cui vive attraverso quel complesso sistema di simboli che è il linguaggio. Ciò significa che la comprensione soggettiva della realtà è relativa e parziale, proprio perché l’individuo interagisce quotidianamente, non con la realtà in sé, ma con una sua rappresentazione, inevitabilmente soggettiva e personale. Tali rappresentazioni del reale determinano in larga misura l’esperienza del mondo che ha l’individuo, il modo in cui lo percepisce e le scelte che gli sembrano disponibili vivendoci dentro. La conclusione, assai intuitiva, è che non è la realtà ad essere limitata, a non presentare scelte ma, nella maggior parte dei casi, è la persona stessa a non scorgere le opzioni e le possibilità che le si presentano, semplicemente perché queste non sono disponibili nei modelli del mondo che ha costruito nel corso della sua esperienza. Una concezione analoga la ritroviamo anche nell’ambito della Psicologia Positiva. Ad esempio Achor, l’autore de Il vantaggio

della felicità di cui abbiamo parlato in precedenza, ribadisce che la lente attraverso cui la mente

vede il mondo modella la realtà dell’individuo; e quand’egli è in grado di cambiare quella lente, allora può controllare la propria felicità e modificare ogni singolo risultato nello studio come nel lavoro (Achor, 2011).

Dunque l’obiettivo prioritario del coach, nelle fasi di analisi della realtà e verifica delle opzioni disponibili (secondo e terzo step del G.R.O.W.), è proprio quello di stimolare incessantemente il coachee ad arricchire la propria rappresentazione del reale in modo da scorgere nuove opportunità di scelta e di azione in vista del raggiungimento degli obiettivi che si è posto. Come evidenziato da Pannitti e Rossi, coach professionisti e autori dell’opera intitolata L’essenza del coaching (2012), tale processo può essere concretamente perseguito stimolando quello che De Bono (1998, cit. in Pannitti, Rossi, 2012) ha definito pensiero laterale (o divergente). Anche quest’autore parte dal presupposto che il cervello umano organizzi le informazioni in modelli, integrando ogni nuovo input agli schemi già esistenti. Questa è la base del pensiero verticale o logico-sequenziale che sostanzialmente induce l’individuo ad affrontare le questioni e ricercare soluzioni entro i limiti di quello che è noto, ovvero entro i limiti dei propri schemi. Il pensiero laterale, invece, che è la

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scintilla della creatività, consiste proprio in un pensare fuori dagli schemi che si ottiene ampliando la prospettiva e guardando le questioni da nuovi punti di vista. In tal senso Pannitti e Rossi (2012) elencano una serie di tecniche tipicamente utilizzate dai coach allo scopo di allenare il pensiero laterale, come: incoraggiare a considerare tutte le informazioni disponibili, anche quelle meno evidenti; a distinguere i fatti dalle opinioni personali e dalle credenze diffuse; ad esplorare tutte le alternative sospendendo ogni giudizio; a riformulare le questioni con parole diverse in modo da coglierne nuovi aspetti.

E’ evidente quindi, che nella fase di verifica delle opzioni lo scopo di coach e coachee non è ancora quello di identificare la soluzione “giusta”, ma di elencare il maggior numero di scelte alternative che possano condurre ad altrettante azioni; in altri termini a questo stadio la quantità delle opzioni è più importante della qualità e della fattibilità di ciascuna di esse (Whitmore, 2003). Solo successivamente a questa fase, che potremmo definire di brainstorming creativo, bisognerà verificare in quale misura ciascuna opzione individuata consenta effettivamente al coachee di progredire verso l’obiettivo che si è posto, e dunque cominciare a scartare quelle che meno confacenti a questo scopo. A questo proposito, soprattutto in ambito lavorativo dove si ha spesso a che fare con questioni complesse, potrebbe rendersi utile un’analisi dei costi e dei benefici collegati a ciascuna alternativa individuata.

Tuttavia, talvolta, questo tipo di valutazione, pur essendo utile, si rivela insufficiente, ed è qui che emerge il valore aggiunto del coaching, ovvero il suo cercare in profondità. La scelta dell’opzione, infatti, deve essere espressione dei valori dell’individuo, delle sue aspirazioni più elevate perché è da questo che dipende quella motivazione intrinseca in grado di elevare il livello di performance oltre ogni aspettativa. Ed è proprio Whitmore a suggerire i tratti di quello che lui stesso definisce

coaching in profondità, inteso come approccio che coniuga efficienza ed efficacia integrando

l’analisi dei costi-benefici con la ricerca di scopo e di significato. A questo stadio il coach lavora sull’interiorità della persona, stimolandola a riconsiderare la propria vita in termini di percorso evolutivo e ad entrare in contatto con tutto ciò che essa stessa ritiene veramente importante. In tal senso è evidente come il coaching persegua di fatto l’autorealizzazione (eudaimonia) dell’individuo, la quale, così come definita da Maslow, è strettamente collegata alla ricerca di scopo e di significato nonché alla possibilità di conformare la propria esistenza, quindi le proprie scelte e azioni, ai propri valori più profondi (Maslow, 1954). Ma nel far ciò, il coaching persegue al tempo stesso l’efficacia della persona, in quanto laddove vi è la chiarezza dei propri obiettivi (primo step del G.R.O.W.) e la consapevolezza che tali obiettivi obbediscono ad una causa più grande e sono espressione dei propri valori, ci sarà di conseguenza un’azione individuale libera, mirata e costantemente sostenuta dalla motivazione intrinseca.

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Dunque, una volta individuata l’opzione ottimale, non solo in termini di costi-benefici, ma anche in termini di conformità al sistema valoriale individuale, si può passare all’ultima fase del metodo G.R.O.W, quella di pianificazione dell’azione, in cui sostanzialmente il coachee, con il supporto del coach, definisce in dettaglio i singoli passi da intraprendere nella direzione dei propri obiettivi (di performance e finale). Il piano di azione, infatti, può essere concepito come percorso complessivo che conduce allo stato desiderato, e che può essere utilmente scomposto in singoli passaggi più semplici e concreti. A questo proposito Whitmore (2003) ribadisce l’importanza di fissare delle scadenze temporali precise, utili a sancire ed assicurare l’impegno del coachee rispetto ad ogni step programmato. Inoltre, una volta indicato il piano, le singole azioni in dettaglio e le relative scadenze, è sempre opportuno verificare che il percorso definito vada effettivamente nella direzione dell’obiettivo finale, ovvero dello stato desiderato dal coachee; una sorta di controllo della rotta tracciata.

D’altra parte è estremamente importante che, ancor prima di iniziare ad agire, il coach incoraggi la persona a considerare attentamente e preventivamente, sia gli ostacoli che potrebbero intervenire, compromettendo il cammino delineato, sia le risorse potenzialmente in grado di agevolarlo. Questo passaggio si traduce, evidentemente, in un’ulteriore espansione della consapevolezza poiché presuppone che il coachee continui a riflettere sul suo mondo esteriore e interiore. Gli ostacoli infatti potrebbero essere rappresentati, sia da fattori ambientali, come la rigidità del contesto di azione o l’opposizione di alcune persone che lo popolano, sia da interferenze/resistenze interne, come le cosiddette convinzioni limitanti. In generale, le convinzioni si formano attraverso un processo inferenziale: l’individuo nel corso delle sue esperienze seleziona dati e fatti, attribuisce loro un significato, ovvero interpreta soggettivamente la realtà, giungendo a delle conclusioni sulla base delle quali struttura le sue convinzioni; e sono proprio queste ad orientare e sostenere la sua azione (Pannitti, Rossi, 2012).

E’ quindi fondamentale che il coach stimoli la persona a prendere coscienza delle proprie convinzioni, così da verificare che siano effettivamente di supporto e non di ostacolo alla sua impresa. In tal senso, un impatto sicuramente notevole è esercitato dall’insieme di convinzioni riguardanti l’efficacia delle proprie azioni; lo stesso Whitmore, difatti, ammette che l’ostacolo interno per eccellenza è sempre lo stesso, nonostante sia variamente definito come paura di sbagliare, scarsa sicurezza di sé, dubbi sulle proprie capacità, mancanza di fiducia in se stessi. Analogamente alcuni dei “generatori” di convinzioni limitanti (Pannitti, Rossi, 2012) possono essere il pessimismo (ovvero l’attenzione focalizzata sugli aspetti negativi e penalizzanti), il perfezionismo (che è ben diverso dalla ricerca dell’eccellenza perché si basa su un rapporto critico con l’errore e sulla tendenza all’ideale invece che al reale) o la chiusura mentale (basata sul

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pensiero escludente che impone “o questo o quello”). Dunque, in tutti questi casi il coach può innescare veri e propri processi di ristrutturazione delle convinzioni, incoraggiando il coachee ad un’analisi delle esperienze e delle informazioni più oggettiva e distaccata che conduca a delle conclusioni più funzionali ai propri scopi, ovvero a costruire delle convinzioni potenzianti in luogo di quelle limitanti (Pannitti, Rossi, 2012). Ad esempio, nel caso specifico delle convinzioni di auto- efficacia e della fiducia in se stessi, Whitmore suggerisce di incoraggiare il coachee a ricostruire la storia dei suoi successi, richiamando alla memoria tutte le occasioni in cui la propria azione ha dato gli esiti auspicati (Whitmore, 2003); questo esercizio, infatti, aiuta a comprendere lo scarto tra la realtà e la percezione soggettiva e contestuale della realtà rappresentata dalla convinzione limitante stessa.

Alla riflessione sugli ostacoli potenziali deve però seguire quella riguardante i fattori in grado di agevolare l’attuazione del piano di azione. Tali “facilitatori”, proprio come gli ostacoli, debbono essere ricercati all’esterno e all’interno della persona. Ad esempio, tra i facilitatori esterni rientrano gli alleati, ovvero coloro che possono fornire un supporto all’impresa del coachee, le modalità, intese come procedure o situazioni che consentono di acquisire conoscenze, competenze e abilità, e infine gli strumenti, ossia quegli oggetti che concretamente possono apportare un vantaggio (Pannitti, Rossi, 2012). I facilitatori interiori sono invece quegli stati-risorsa funzionali all’attuazione del piano di azione, quindi al raggiungimento dell’obiettivo; ad esempio l’attenzione, la concentrazione, la determinazione, la creatività, la sicurezza di sé, il locus of control, l’assertività, la proattività, ecc. Si tratta di risorse presenti in ciascun essere umano che tuttavia, come osserva Whitmore (2003), restano spesso ad uno stadio latente ed emergono solo quando le persone si trovano ad affrontare circostanze particolarmente critiche. Il coaching, invece, punta proprio alla scoperta e allo sviluppo consapevole di questo potenziale, poiché è in ciò che risiede la possibilità di incontrare la vera essenza di sé, prima di subire condizionamenti. Ricapitolando, a questo punto del metodo G.R.O.W., il coachee ha definito il percorso e le singole azioni da intraprendere in vista dei propri obiettivi; ha fissato le scadenze di ogni passaggio; ha preventivato la gestione degli ostacoli esterni e neutralizzato le interferenze interne; ha inoltre individuato modalità, strumenti e persone in grado di agevolare il suo percorso, nonché quelle risorse interiori capaci di sostenere e avvalorare l’intero processo. Dunque, seguendo l’impostazione di Whitmore, non resta altro che accertare la volontà della persona di portare a termine quanto ha deciso. Infatti l’autore, chiarisce che a questo punto è opportuno chiedere al coachee di valutare (ad esempio su una scala da uno a dieci) in che misura ritiene di portare a termine quanto pianificato. Questo passaggio è importante perché l’individuo che mostra scarsa sicurezza nel fatto di poter intraprendere, e portare avanti con successo, il piano di azione definito,

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molto probabilmente non riuscirà ad arrivare fino in fondo, e ciò comporterebbe solo frustrazione e senso di colpa. Al contrario, il coaching punta alla piena realizzazione di quanto stabilito, rafforzando la fiducia in se stessi e il senso di auto-efficacia; di conseguenza, nei casi in cui tale possibilità risulti compromessa in partenza, bisognerà rivalutare il percorso preventivato (es. modificare gli obiettivi, analizzare in modo più approfondito il contesto di azione, ampliare ulteriormente il quadro delle opzioni di scelta, ricalibrare il piano di azione) in modo da innalzare, effettivamente, le possibilità di aderenza e successo del coachee.

Chiaramente questo tipo di verifica, ancora ex-ante, deve essere successivamente integrata con un attento monitoraggio in itinere, ovvero: nel momento in cui il coachee, sicuro di poter giungere alla piena realizzazione, inizia a mettere in atto il piano stabilito, bisogna verificare che, effettivamente, i singoli passi intrapresi generino dei progressi in vista degli obiettivi fissati. Se così non fosse, coach e coachee dovranno intervenire nuovamente sul piano d’azione per “raddrizzare la mira”, avendo questa volta a loro disposizione nuovi e concreti elementi derivanti dal riscontro pratico.

Invece, qualora i processi e le singole azioni messe in pratica dal coachee, diano luogo a progressi tangibili in vista degli obiettivi fissati, il coach dovrà preoccuparsi di fornire alla persona un feedback di riconoscimento rispetto al percorso intrapreso. In tal senso Whitmore chiarisce che la formula più adeguata, non consiste nell’elogio o nella lode (che potrebbero risultare non autentici o peggio, creare dipendenza), ma nel riconoscimento: il coach deve comunicare sinceramente al coachee la propria soddisfazione rispetto ai progressi man mano conseguiti, riconoscendo che i risultati e i benefici che egli sta ottenendo derivano dal suo impegno, dalla sua disponibilità a mettersi in gioco e dalla sua capacità di prendersi carico di quelle responsabilità che ciascuna persona ha nei propri confronti. A traguardo raggiunto, il percorso di coaching può dirsi concluso e, a maggior ragione, il coachee deve sapere che la responsabilità di quel successo è completamente a suo carico: è lui che è riuscito, e lo ha fatto per se stesso.

Un ultimo e fondamentale aspetto da prendere in considerazione riguarda la natura stessa del