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Motivazione culturale e diritto penale: libertà sessuale ed incolumità della persona alla prova di un nuovo paradigma

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Academic year: 2021

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Introduzione

La presente trattazione ha lo scopo di affrontare una tematica che recentemente sta acquistando sempre più rilevanza nel panorama giuridico penale, ossia quella dei conflitti culturali.

L’intensità dei flussi migratori fa sì che la nostra società stia diventando multiculturale; ciò spinge il diritto penale ad affrontare il problema che si pone quando un soggetto, appartenente ad una cultura diversa, ponga in essere condotte che nel Paese di arrivo costituiscono reato, ma che sono tollerate o considerate lecite dalla sua cultura d’origine.

Nel capitolo I sarà definita la nozione di “reato culturalmente motivato”, specificando preliminarmente cosa si debba intendere per “cultura” e quale sia quella penalmente rilevante.

Saranno inoltre illustrati i due principali modelli con cui i Paesi occidentali affrontano i conflitti culturali: il modello francese c.d. assimilazionista e quello anglosassone c.d. multiculturalista.

Infine, partendo dalla constatazione secondo cui il diritto penale non è “neutrale”, ma è strettamente influenzato dalla cultura, saranno evidenziati i settori del diritto penale che sono maggiormente caratterizzati (soprattutto per l’uso di elementi normativi culturali) da fattori “impregnati di cultura”. La presente indagine si concentrerà sui quei reati culturalmente motivati che attengono alla sfera sessuale della persona e che sono particolarmente suscettibili di essere commessi per una diversa concezione che l’autore culturale ha di ciò che è sessualmente rilevante.

I capitoli II e III saranno quindi dedicati all’analisi delle fattispecie di violenza sessuale, atti sessuali con minorenne ed incesto, volta ad evidenziare gli aspetti in cui si configura il relativismo culturale; sarà inoltre presa in considerazione l’applicazione giurisprudenziale di tali reati rispetto ai quali l’autore ha invocato a sua difesa la propria cultura.

Il Capitolo IV tratta l’ipotesi più emblematica di reato culturalmente motivato, ossia la mutilazione genitale femminile, la cui pratica ha una forte incidenza sulla sessualità femminile.

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Del fenomeno saranno individuati gli aspetti socio-culturali e medico-legali, quali le origini, le motivazioni e le conseguenze sul piano psico-fisico. Dal punto di vista giuridico, dopo un breve sguardo alla disciplina a livello internazionale e comparatistico, sarà trattata la questione in Italia prima del 2006, quando il reato era collocato nella fattispecie di lesioni gravi di cui all’art. 583 c.p., e dopo la legge n.7 del 2006, che ha introdotto nel nostro sistema una fattispecie ad hoc (art. 583 bis).

Saranno messi in luce gli aspetti critici della legge, attraverso la constatazione della scarsa ed insoddisfacente casistica giudiziaria e il confronto con il diverso trattamento giuridico della circoncisione maschile. Nell’ultimo capitolo sarà affrontata la questione più qualificante, concernente la rilevanza penale che il fattore culturale può assumere nell’ordinamento penale. Partendo dal presupposto che la diversità culturale meriti di essere presa in considerazione in senso favorevole, nel rispetto di un principio di uguaglianza in senso sostanziale che non si limiti a trattare tutti allo stesso modo, ma riconosca le differenze e le discriminazioni che da esse derivano, la domanda fondamentale che la dottrina in materia si è posta è la seguente: individuare la soluzione al problema nelle categorie dogmatiche del reato de lege lata, oppure impegnarsi ad elaborare una soluzione de lege ferenda, tramite la previsione di una causa generale di esclusione della pena?

La questione sarà affrontata partendo da un’analisi delle categorie dogmatiche del reato (tipicità, antigiuridicità e colpevolezza), al fine di capire se, attraverso le stesse, sia possibile riconoscere un carattere attenuante o esimente alla motivazione culturale.

Una simile indagine porterà a constatare come certi casi possano essere sì risolti in senso favorevole al reo, ma in ragione della mera applicazione della disciplina che sarebbe applicabile anche ai reati “comuni” e senza che la motivazione culturale giochi alcun ruolo.

La conseguenza di una soluzione in una prospettiva de iure condito è la punibilità di quelle condotte, rispetto alle quali non si registra alcuna esclusione della tipicità, dell’antigiuridicità o della colpevolezza, ma

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piuttosto un’intima ed irriducibile adesione al precetto culturale che legittima e, spesso, impone di tenere il comportamento vietato.

Di fronte al fallimento delle funzioni generalpreventive e specialpreventive della pena, che si dimostra insufficiente a scoraggiare la commissione dei reati, con riferimento alle ipotesi di limitata gravità che non offendano interessi fondamentali di terzi, parrebbe allora più opportuno utilizzare la categoria della non punibilità. La ratio di opportunità politico-criminale su cui si basa tale categoria, che nulla toglie all’illiceità e al disvalore del fatto, si presta particolarmente ad essere applicata ai reati culturalmente motivati: la scelta di lasciare uno spazio di impunità alle minoranze etniche potrebbe infatti porsi in un’ottica di mediazione tra culture che ne smorzi i conflitti.

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CAPITOLO I

I REATI CULTURALMENTE MOTIVATI

 

1. Società

 multiculturali, conflitti culturali

e multiculturalismo

Il concetto di sovranità statale, da sempre legato all’importanza attribuita al territorio come elemento di identificazione culturale, è oggi messo in crisi dal processo di globalizzazione. Il diritto non è più configurato sull’assioma dello Stato-nazione, nel quale prima si esplicavano ed esaurivano i confini della sovranità, ma deve fare i conti con realtà che travalicano i limiti nazionali: oltre all’accrescimento del ruolo svolto dal diritto sovranazionale, la stretta rete di relazioni che unisce i diversi Paesi del mondo si riflette sui popoli, influenzandone e omologandone i costumi, le idee e le tradizioni. Tale fenomeno ha provocato tuttavia anche un effetto opposto: quello di esasperare i particolarismi identitari ed innescare rivendicazioni culturali e religiose.

A mutare le prospettive, assieme alla globalizzazione ha contribuito anche un altro fattore: l’immigrazione.

La scarsità di risorse, le guerre, le persecuzioni sono le principali cause che spingono milioni di persone a lasciare il paese di origine per insediarsi nei c.d. paesi avanzati, nei quali vengono riposte le speranze di trovare condizioni di vita migliori. Ciò determina l’insediarsi nella nostra società di soggetti portatori di culture, tradizioni e religioni diverse, dando luogo alla c.d. società multiculturale. Si tratta di un termine che fotografa una situazione di fatto, consistente appunto nella varietà etnica apportata dalla

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convivenza di culture diverse in uno stesso territorio1.

Questa coesistenza può facilmente dar luogo a quelli che Thorsten Sellin, sociologo americano degli anni ’30, definì cultural conflicts, ossia conflitti tra la cultura dominante del paese ospitante e la cultura delle minoranze ospitate2.

In particolare Sellin distingue due tipologie di conflitti culturali: i conflitti interni e i conflitti esterni.

I primi fanno riferimento ad un grave disorientamento psicologico che caratterizza la seconda generazione di immigrati: i giovani si trovano in bilico tra la cultura dei loro padri e quella del paese ospitante, senza riconoscersi a pieno in nessuna delle due.

Diversi sono i conflitti esterni, che si verificano quando la persona, che ha assorbito la cultura del paese di origine, si insedia in un sistema di valori diverso. Ecco che il condizionamento culturale può talvolta essere così forte da prevalere sul condizionamento della norma penale, che tutela valori che il gruppo di minoranza non riconosce; può così accadere che gli individui violino la legge tenendo un comportamento considerato lecito, se non doveroso, dalla cultura di origine.

A tali conflitti il multiculturalismo cerca di dare una risposta. Se infatti “multiculturalità” è un termine che descrive una realtà di fatto, per multiculturalismo si intende invece un insieme di tesi che tentano di risolvere i problemi posti dalla coesistenza di culture diverse e confliggenti3. Due sono i modelli antagonistici che si sono proposti: quello comunitarista e quello universalista4.

Il comunitarismo è una tesi che sostiene la necessità di valorizzare le istanze culturali dei gruppi di minoranza, in base al principio di uguaglianza                                                                                                                

1

De Maglie, I reati culturalmente motivati. Ideologie e modelli penali, Pisa, 2010.

2

Sellin, Culture Conflict and Crime, 1938.

3Consorti, Diritto e religione, Editori Laterza, 2014. 4

Venafro, Il pluralismo religioso tra coercizione e libertà, in Religione e religioni:

prospettive di tutela, tutela della libertà, a cura di G.A. De Francesco, C.

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sostanziale e quindi alla consapevolezza che situazioni diverse richiedono un trattamento diverso.

L’aspetto negativo del comunitarismo sta nel subordinare il singolo alle esigenze culturali del gruppo, con la conseguenza di ritenere lecita ogni tipo di condotta, anche fortemente lesiva dei diritti dell’individuo, per il solo fatto di essere spinta da motivi culturali.

L’universalismo tutela invece quei valori naturali che appartengono all’individuo in quanto tale e che dovrebbero perciò estendersi a tutte le culture. Questa attenzione per la tutela dei valori condivisi rischia però di concepire il singolo come un soggetto privo di radici culturali e postula l’ammissibilità di una sola condotta ritenuta valida universalmente a prescindere dalle origini, dalle tradizioni e dalle credenze religiose delle persone.

Nonostante la loro apparente inconciliabilità, comunitarismo e universalismo possono in realtà trovare un punto di incontro in un obiettivo comune: la tutela della persona. In tal modo è possibile valorizzare l’identità culturale, come valore condiviso, nei limiti posti dall’universalismo, ossia nei limiti in cui la tutela della cultura non arrechi pregiudizi alla persona umana.

2. La nozione di reato culturalmente motivato

 

Prima di chiarire cosa s’intenda per reato culturalmente motivato, è necessario chiedersi quali siano le culture rilevanti ai fini della analisi sulla rilevanza della motivazione culturale nel nostro sistema penale.

Il concetto di cultura è infatti inteso secondo più accezioni.

Nella dottrina si può riscontrare la tendenza ad escludere sia un’accezione troppo ristretta, che rimanda all’insieme delle cognizioni intellettuali che una persona ha acquisito attraverso lo studio e l’esperienza, sia un’accezione

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troppo ampia che rimanda a modi di vivere o di pensare5. Il termine cultura è infatti spesso utilizzato impropriamente come sinonimo, ad esempio, di ideologia. Ideologia e cultura sono però due concetti ben diversi, in quanto alla prima, definita come il “sistema di idee che costituisce la base per l’azione politica, sociale, religiosa”6, si aderisce consapevolmente, mentre alla seconda si appartiene, quasi inconsapevolmente e involontariamente; dalla cultura si è inevitabilmente influenzati e pervasi, seppur con margini di libertà di interiorizzazione dell’individuo che impediscono di considerare l’autore culturale come un mero burattino manovrato dalla cultura di appartenenza.

In breve e per esemplificare, marxisti o femministe si diventa, tramite un’adesione volontaria (che presuppone una conoscenza degli ideali di riferimento) al complesso di idee che costituiscono la base per l’azione politica o sociale, mentre italiani si nasce e, quindi, si è, pur non condividendo eventualmente i valori su cui la stessa cultura italiana e, più in generale, quella occidentale si basano.

Il rischio della confusione tra i due concetti sarebbe quello di dare spazio e legittimazione alle qualsivoglia basi ideologiche dell’individuo che invochi la sua “cultura” per giustificare la sua azione illegale; ciò significherebbe confondere l’autore culturale con il delinquente per convinzione (come, ad esempio, il terrorista), che agisce secondo un sistema di valori proprio opposto a quello dello Stato7.

Si può inoltre osservare come il femminismo, il comunismo, il fascismo o il terrorismo siano fenomeni trasversalmente presenti in tutte le culture, etnicamente e nazionalmente intese.

Ecco che allora, a scanso di equivoci, sono state proposte definizioni alternative del termine “cultura”.

                                                                                                               

5  Basile, Immigrazione e reati culturalmente motivati. Il diritto penale nelle società

multiculturali, Giuffreé Editore, 2010.

6  Dizionario Garzanti della lingua italiana 7

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Alcuni autori hanno fatto riferimento alla sua accezione scientifica elaborata dall’antropologia a partire dalla fine del XIX secolo; dovrà quindi trattarsi di “gruppi socio-politici costituiti da un numero rilevante di individui, che condividono una lingua comune e che hanno un legame con un territorio geografico, di regola di ampie dimensioni”8.

Altri invece accolgono l’accezione etnica elaborata da Kymlica, che si riferisce alla cultura del gruppo a cui appartiene il singolo e non alla cultura del singolo individuo. Si tratta di un’accezione ristretta, connessa ai concetti di “popolo” e “nazione”, che richiede l’esistenza di un gruppo che abbia una cultura comune, capace di influenzare lo stile di vita dei componenti e di far sì che individuo e gruppo si riconoscano reciprocamente9.

In entrambe le definizioni, le differenze, seppur sussistenti, non si ritengono così rilevanti da influire sulla (unanimemente condivisa) definizione di reato culturalmente motivato, che non è da intendersi semplicisticamente come il comportamento, contrario alle norme del sistema ospitante, realizzato dal soggetto nel rispetto della sua cultura; bensì dovrà essere inteso come il “comportamento, realizzato da un soggetto appartenente ad un gruppo etnico di minoranza, che è considerato reato dalle norme del sistema della cultura dominante. Lo stesso comportamento, nella cultura del gruppo di appartenenza dell’agente, è invece condonato, accettato come normale, o è approvato, o, in determinate situazioni, è addirittura imposto”10.

Particolarmente convincente risulta la tesi secondo la quale è necessario accertare, nell’ambito del processo, la sussistenza di alcuni requisiti per poter parlare di reato culturalmente motivato. Non basterà infatti il solo fatto che l’imputato invochi la sua cultura in sua difesa, ma si dovrà procedere ad una vera e propria “perizia culturale” che accerti innanzitutto il motivo                                                                                                                

8  Basile,  Immigrazione  e  reati  culturalmente  motivati,  cit.,  p.  31.   9  De  Maglie,  I  reati  culturalmente  motivati,  cit.,  p.  25  ss.  

10  Con  lievi  modifiche,  si  tratta  della  definizione  già  proposta  da  Van  Broeck,  

Cultural  Defense  and  Culturally  motivated  Crimes  (Cultural  Offenses);  nella  

dottrina  italiana,  v.  Basile,  Immigrazione  e  reati  culturalmente  motivati,  cit.,  e   De  Maglie,  I  reati  culturalmente  motivati,  cit.  

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culturale: si dovrà verificare che la causa psichica che ha spinto il soggetto a delinquere trovi riscontro nel suo bagaglio culturale.

In secondo luogo si dovrà poi spostare l’analisi dall’individuo al gruppo di appartenenza: la motivazione culturale non dovrà far parte solamente della coscienza dell’individuo, ma dovrà anche essere espressione della cultura del gruppo etnico a cui appartiene l’autore.

Infine si dovrà effettuare un confronto tra la cultura dell’agente e la cultura del paese ospitante per evidenziare le differenze di trattamento tra i due sistemi che giustifichino eventualmente una valutazione più mite11.

3. La diversa rilevanza del fattore culturale: il modello

assimilazionista francese e il modello comunitarista

anglosassone

Di fronte alla commissione di un reato culturalmente motivato, gli atteggiamenti che gli Stati possono avere nei confronti del fattore culturale sono diversi.

La questione si pone soprattutto per gli Stati maggiormente investiti dai flussi migratori, che sono ormai divenuti realtà multiculturali caratterizzate da una consistente varietà etnica.

Nei Paesi anglosassoni, da sempre caratterizzati da un alto tasso di immigrazione, si registra la tendenza ad adottare strategie di stampo multiculturalista, inclini ad accogliere le istanze culturali dei gruppi di minoranza attraverso politiche tolleranti che favoriscono il mantenimento delle tradizioni. Un esempio si può riscontrare in Inghilterra, dove è stato consentito agli indiani Sikh di guidare in motocicletta senza casco o di lavorare nel campo dell’edilizia senza l’elmetto protettivo. Si tratta di veri e                                                                                                                

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propri regimi giuridici speciali, previsti per i membri di gruppi etnici minoritari, che mostrano apertura e attenzione verso il fattore culturale, nonostante siano comunque deroghe che non vanno ad intaccare il rispetto delle fondamentali regole dello Stato.

Infatti né in Inghilterra né negli Stati Uniti sono state codificate cause generali di esclusione della pena, pur essendo ancora la questione oggetto di un acceso dibattito.

Si è scelta piuttosto la strada di valorizzare l’elemento culturale in sede giurisprudenziale attraverso le cultural defenses (esimenti culturali), che non operano mai autonomamente, ma solo attraverso gli istituti già presenti nel sistema penale dell’ordinamento, come il vizio di mente, la legittima difesa, lo stato di necessità, il consenso dell’avente diritto, l’errore, la provocazione, ecc.

Attraverso le cultural defenses è possibile tener conto della motivazione culturale, arrivando, a seconda dei casi, ad escludere o a diminuire la responsabilità penale12.

Diverso è il modello francese, definito assimilazionista-integrazionista. La Francia, da sempre caratterizzata da un forte attaccamento al principio di laicità, ha scelto di affrontare il problema non attribuendo rilevanza in sede pubblica e, in particolar modo, in sede penale, all’appartenenza a gruppi etnici minoritari. Ha preferito lasciarsi ispirare dal principio di uguaglianza in senso formale, perseguendo, attraverso un eguale trattamento di fronte alla legge, l’abbattimento di ogni barriera culturale e il raggiungimento della libertà individuale. Attraverso questa irrilevanza del fattore culturale sul piano giuridico l’ordinamento francese tende inoltre a mantenere un’omogeneità culturale dello Stato, richiedendo all’immigrato lo sforzo di integrarsi e di assimilare i valori espressi dall’ordinamento nazionale13.

Al contrario di quanto avviene nei Paesi anglosassoni, dove si sono create deroghe ed esenzioni in ragione dell’appartenenza ad un gruppo culturale                                                                                                                

12  Bernardi, Modelli  penali  e  società  multiculturale,  Torino,  2006,  p.  78. 13  Bernardi, Ivi,  cit.,  p.  81  ss.

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minoritario, in Francia il fattore culturale in taluni casi ha avuto sì rilevanza, ma come motivo di interventi legislativi sfavorevoli. Si pensi alla legge sul divieto di indossare il chador nelle scuole: una questione delicata e una scelta non priva di spunti interessanti, ma che denota sicuramente quella matrice assimilazionista che caratterizza il modello francese.

Per quanto riguarda l’Italia, più autori in dottrina sono concordi nel sottolineare l’atteggiamento di chiusura verso il fattore culturale.

Alcuni considerano il diritto penale italiano refrattario a giustificare la commissione di reati culturalmente motivati, sia per motivi di ordine storico (l’Italia presenta solo da poco tempo minoranze etniche significative), sia per motivi politico-criminali di scetticismo in merito all’opportunità di differenziare i regimi giuridici in base all’appartenenza culturale14.

Altri considerano il nostro modello “assimilazionista-discriminatorio”: il fattore culturale non è semplicemente irrilevante, ma addirittura sfavorevole per l’autore culturale che non si adegui al sistema del Paese ospitante. Un esempio, in tal senso, è individuato nel reato di mutilazioni genitali femminili, introdotto nel 2006 all’art. 583 bis, che punisce di più di quanto si punirebbe facendo ricorso alla fattispecie di lesioni personali gravissime15.

Altri ancora collocano il modello italiano in bilico tra il modello assimilazionista francese e quello multiculturalista inglese; la politica in materia di immigrazione italiana oscilla, in base ai cambi di governo, tra (rari e deboli) tentativi di valorizzare le espressioni culturali degli stranieri, per lo più in un’ottica programmatica, e interventi di segno opposto che criminalizzano le pratiche di matrice cultuale16.

                                                                                                               

14  Bernardi,  Modelli  penali  e  società  multiculturale,  cit.  p.  59  ss.   15  De  Maglie,  I  reati  culturalmente  motivati,  cit.,  p.  32.  

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4. La non neutralità

 del diritto penale

Nonostante i significativi punti di connessione che esistono tra i sistemi penali dei vari Stati, è stato evidenziato come il diritto penale sia un prodotto locale, tipico dello Stato che lo produce e creato ad hoc per le specifiche esigenze legate al territorio.

Da paese a paese possono cambiare infatti il catalogo di reati (si pensi alla bestemmia, che in alcuni paesi non ha rilevanza penale, mentre in altri arriva ad essere punita con la pena di morte) e la disciplina degli istituti di parte generale (come l’individuazione dell’età per la sussistenza della capacità di intendere e di volere). Tale localismo è strettamente legato alla non neutralità del diritto penale, che in quanto espressione delle ideologie della classe dominante risente fortemente della cultura prevalente dello Stato. L’individuazione dei beni giuridici meritevoli di tutela dipende in gran parte dal contesto sociale e culturale e rispecchia l’insieme dei valori unanimemente accettati dalla società.

La società italiana è stata in passato caratterizzata da un’unità e un’omogeneità culturale, la cui consapevolezza emergeva anche dalle parole dell’allora Guardasigilli Alfredo Rocco nella Relazione per l’approvazione del testo definitivo del Codice Rocco: «Lo Stato ci appare come la nazione medesima in esso organizzata, cioè come un’unità non solo sociale, ma altresì etnica, legata da vincoli di razza, lingua, di costume, di tradizioni storiche, di moralità, di religione».

Nonostante le differenze (perlopiù socio-economiche, tra nord e sud) provenienti dai contesti regionali diversi e le difficoltà di costruire un’unità nazionale, la società italiana dell’epoca poteva dirsi caratterizzata da una matrice culturale omogenea.

Infatti nella prima metà del Novecento, nel contesto socio-politico durante il quale fu approvato il Codice Rocco, l’Italia non era una meta per immigrati, ma era piuttosto un paese di emigranti: dalla fine dell’Ottocento ai primi decenni del Novecento furono milioni gli italiani che migrarono altrove, in particolare verso le Americhe. L’Italia era allora caratterizzata da un’omogeneità culturale che non presentava minoranze etniche

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caratterizzate da particolari differenze culturali degne di attenzione. L’immigrazione nel nostro paese è un fenomeno relativamente recente: iniziata negli anni ’70 in misura contenuta, è divenuta, a partire dagli anni ’90, un fenomeno di massa.

La prolungata unitarietà culturale del nostro paese spiega, dal punto di vista storico, l’atteggiamento di indifferenza rispetto ai reati culturalmente motivati; ma gli attuali ingenti flussi migratori fanno sì che oggi la omogeneità culturale italiana stia venendo meno e ciò impone al diritto penale di prendere in considerazione tale fenomeno, confrontandosi con sistemi di valore diversi.

5. (segue) Gli elementi normativi extrapenali

Abbiamo appena visto come il diritto penale sia il ramo del diritto più suscettibile ad intersecarsi con le norme culturali. Va però precisato che all’interno dello stesso vi sono alcuni settori che più di altri si prestano ad essere influenzati dalla cultura; non tutti i reati sono infatti “culturalmente orientabili”. Si pensi ad esempio al settore penale dell’economia, che rimane del tutto escluso dal “numero chiuso” dei reati culturalmente motivati. Questi infatti comprendono reati che riguardano gli aspetti più caratterizzanti delle radici culturali di ogni popolo: famiglia, onore, sessualità, educazione dei figli sono concetti diversamente declinati da cultura a cultura, che compaiono anche in qualità di elementi delle fattispecie penali.

Di conseguenza le norme che contengono tali elementi siano inevitabilmente “impregnate di cultura”; ad esempio al termine “onore” sarà attribuito il significato che in quel determinato momento storico è condiviso dalla maggior parte degli individui che compongono la società.

I concetti in questione sono chiamati elementi normativi: si tratta di elementi che compongono le fattispecie e che, per poter essere compresi, necessitano di un rinvio ad altre norme, che possono essere giuridiche o non

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lasciano poco spazio all’incertezza interpretativa, in quanto, basandosi su norme giuridiche, presentano generalmente contorni piuttosto definiti (si pensi all’altruità nel furto, che rimanda alle norme del codice civile). Diversi sono gli elementi normativi extragiuridici, che rimandano a valutazioni di ordine etico-sociale e per questo sono anche definiti “elementi culturali o di valutazione culturale”17. E’ stato evidenziato come il nostro codice faccia ampio uso di tali elementi: si pensi al comune sentimento del pudore, utilizzato nel reato di “atti osceni”; al pubblico scandalo nell’incesto; alla morale familiare nel reato di attentati alla morale familiare commessi con il mezzo della stampa periodica; all’ordine e morale delle famiglie nei reati di violazione degli obblighi di assistenza familiare; alla pubblica decenza nell’art. 726; ai concetti di onore, decoro e reputazione nei reati di ingiuria e diffamazione; agli atti sessuali nel delitto di violenza sessuale, ecc18.

Questi elementi, per la loro vaghezza, pongono non pochi problemi di compatibilità con il principio di determinatezza, tant’è che non manca in dottrina chi è favorevole ad una loro espunzione dal sistema penale (laddove, oltre che indeterminati, siano anche indeterminabili) in quanto incompatibili con il principio di legalità19.

Proprio per risolvere la loro indeterminatezza, tali concetti richiedono l’individuazione di un criterio di valutazione, in base al quale riempire l’elemento di un contenuto che lo stesso legislatore talvolta si è preoccupato di fornire, come nel caso del “pudore” negli atti osceni, definito tramite il riferimento al “comune sentimento”; il pudore dovrà quindi essere valutato secondo il punto di vista comune agli individui che compongono la società, escludendo quelle accezioni di pudore eccessivamente permissive o repressive20. Tuttavia questa soluzione all’indeterminatezza dell’elemento

                                                                                                               

17  Pulitanò, Diritto penale, II ed., Torino, 2007.

18Basile, Immigrazione e reati culturalmente motivati, cit., p. 134 ss. 19Pulitanò, L’errore di diritto nella teoria del reato, Milano, 1976, p. 229. 20

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normativo, fornita dal legislatore per aiutare il compito dell’interprete, se è senza dubbio utile fin tanto che si tratta di reati “comuni” commessi da autori appartenenti alla cultura prevalente, diventa problematica se calata in una prospettiva multietnica.

Una volta affermato che si deve interpretare il pudore secondo il “comune sentimento”, la domanda che è necessario porsi è la seguente: “comune” per chi? Il pudore deve essere valutato secondo il punto di vista comune agli individui appartenenti alla cultura maggioritaria o secondo il punto di vista comune alla cultura dell’autore culturale?

Tali incertezze derivano dal fatto che la nostra società, sempre più pluralistica e multiculturale, non può più dirsi omogenea, ma variegata; molteplici sono infatti le culture, le religioni e le credenze degli individui che compongono la società. Le norme etico-sociali, già incerte per loro natura, in un simile contesto diventano ancor più indefinite, non avendo più un significato univoco, e ciò rende inevitabile chiedersi se non sia possibile interpretare gli elementi culturali in base al significato loro attribuito dalle culture minoritarie.

E’ stato infatti rilevato come si crei uno sfasamento tra il significato lessicale della norma e il significato recepito dall’autore culturale, proprio in virtù di quel rinvio degli elementi normativi extragiuridici alle norme culturali21; la cultura di provenienza può infatti fortemente influenzare l’attribuzione del significato ai concetti etico-sociali, come “onore”, “pudore”, “morale”, ecc.

Individuare il significato dell’elemento normativo culturale rifacendosi al punto di vista comune agli individui appartenenti alla cultura maggioritaria significa quindi valutare la condotta dell’autore culturale alla stregua delle concezioni condivise dagli appartenenti ad una cultura diversa dalla sua; secondo alcuni una simile interpretazione opera in astratto e attribuisce un generico significato al concetto etico-sociale, ignorando le motivazioni                                                                                                                

21  Parisi, Cultura dell’”altro” e diritto penale, Giappichelli Editore, Torino, 2010,

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culturali della condotta delittuosa. D’altra parte però, nel tentativo di valorizzare l’elemento culturale, si corre il rischio di effettuare interpretazioni strettamente soggettive secondo la prospettiva del reo. Per scongiurare questo pericolo alcuni hanno proposto un’interpretazione dell’elemento culturale in concreto, tenendo conto sì del fattore culturale, ma secondo parametri di natura oggettiva, rapportati non al significato attribuito dal singolo, ma a quello generalmente recepito dall’«uomo medio» appartenente al gruppo culturale dell’autore. Si tratterebbe quindi di effettuare un’interpretazione culturalmente orientata degli elementi normativi culturali, volta a capire se un altro membro di quella stessa cultura si sarebbe comportato allo stesso modo22.

Sostanzialmente due sono le alternative che permettono di risolvere la questione sulla cultura in base alla quale devono essere valutati gli elementi normativi.

Secondo alcuni l’interprete dovrebbe attribuire all’elemento culturale il significato che gli è attribuito dalla cultura minoritaria, escludendo quindi la tipicità del fatto.

Secondo altri sarebbe invece più corretto valutare l'elemento normativo in base alla cultura della maggioranza degli italiani, valorizzando il fattore culturale a livello di colpevolezza: l'errore sull'elemento normativo della fattispecie costituisce infatti un errore sul fatto che esclude il dolo ex art. 47, comma 323.

Oltre agli elementi normativi, esistono altri settori nei quali è possibile vedere l’intersecazione della cultura con il diritto penale; si tratta di ambiti in cui le fattispecie sono fortemente influenzate dalla cultura di un determinato contesto storico e sociale.

A conferma del relativismo culturale del contenuto di queste norme può essere utile ricordare come molte di esse, previste nella versione originaria del Codice Rocco, siano state abrogate in quanto ritenute anacronistiche.                                                                                                                

22  Parisi,  Ivi,  p.  149  ss.  

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Basti pensare alla disciplina dei delitti commessi per causa di onore, che prevedevano sanzioni piuttosto lievi per il marito che uccidesse la moglie adultera; la previsione di un trattamento sanzionatorio così mite non rispecchiava altro che la concezione di onore condivisa dalla maggior parte degli italiani dell’epoca. Tali delitti erano invece, nella stessa epoca, puniti severamente in altri Paesi occidentali. Interessante è vedere come i giudici stranieri abbiano talvolta trattato più benevolmente gli emigrati italiani, autori di omicidi per causa d’onore, proprio in considerazione dell’influenza subita dalla mentalità di origine; si trattava di reati consistenti soprattutto in maltrattamenti in famiglia, abusi sessuali, difesa dell’onore. Ciò dimostra come le fattispecie modellate sulle norme culturali diffuse in un dato momento storico, essendo «ancorate a valori che l’attuale società non sente più come tali»24, siano innanzitutto più soggette a abrogazioni o modifiche; inoltre, essendo “impregnate di cultura”25 sono quelle che più si prestano ad essere violate per influenze culturali.

In conclusione, l’analisi sulle intersecazioni tra cultura e diritto penale, riscontrabili nel localismo e nella non neutralità culturale del diritto penale, aiuta a comprendere come tali fenomeni creino un terreno fertile per i reati culturalmente motivati.  

 

                                                                                                               

24  Mantovani, Diritto penale. Parte generale, 6° ed., Padova, 2009. 25

(18)

CAPITOLO II

MOTIVAZIONE CULTURALE E DELITTI

ATTINENTI ALLA SFERA SESSUALE

SEZIONE II

Offese alla libertà sessuale

1. I delitti contro la libertà

 sessuale

Non vi è forse un terreno in cui così sensibilmente differiscano le vedute etiche e giuridiche sul limite tra il lecito e l'illecito, persino tra popoli della stessa epoca e civiltà26.

Tra i diversi settori del diritto penale i delitti in materia sessuale sono quelli che hanno una maggiore impronta culturale; non a caso infatti troviamo una casistica piuttosto cospicua di reati che offendono la sfera sessuale della persona, motivati (o comunque influenzati) da una diversa appartenenza culturale.

La disciplina dei delitti in materia sessuale cambia non solo da cultura a cultura, ma anche in epoca e in epoca pur rimanendo all’interno dello stesso contesto culturale.

Un esempio è l’evoluzione subita dalla disciplina originariamente prevista dal codice Rocco, che collocava i delitti sessuali tra i delitti contro la moralità pubblica e il buon costume: non si tratta di una novità introdotta nel 1930, ma di una riconferma di quanto era già previsto in vari codici preunitari italiani.

La tendenza ad individuare il bene giuridico offeso dai reati sessuali in un bene pubblicistico non era una prerogativa solamente italiana, ma costituiva una tradizione legislativa comune anche ad altri codici stranieri, come quelli                                                                                                                

26  Antolisei, Manuale di diritto penale. Parte speciale, vol. I, XV ed. (agg. a cura

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di Spagna e Germania (entrambi del 1870) e quelli più recenti di Norvegia e Danimarca (rispettivamente del 1902 e 1930)27.

Paradossalmente il codice Rocco fu il primo a menzionare la “libertà sessuale” nel titolo del Capo I, seppure con una diversa accezione, tipica dell’epoca: l’offesa non si considerava arrecata alla persona in sé, ma alla pubblica moralità; la sessualità della donna era tutelata non in quanto valore attinente alla persona dotata di autodeterminazione, ma in quanto funzionale al perseguimento di un interesse sociale superiore28. Alcuni in dottrina

hanno affermato che il riferimento alla libertà sessuale fosse una «vera e propria frode delle etichette»29.

Il mutamento dei costumi sessuali, l’emancipazione femminile, l’esigenza della tutela dell’autodeterminazione della donna hanno fatto sì che la disciplina originaria divenisse anacronistica rispetto al nuovo contesto ideologico affermatosi con l’avvento della Costituzione, che individua e tutela la dignità umana come uno dei più importanti principi su cui si fonda l’ordinamento.

Questa evoluzione ha reso inevitabile e improrogabile l’intervento del legislatore che, con la legge 15 febbraio 1996, n. 66, ha finalmente adeguato la disciplina ai nuovi valori sociali, abrogando l’intero Capo I del Titolo IX ed inserendo nel Titolo XII, relativo ai delitti contro la persona, le nuove fattispecie contro la libertà sessuale, che comprendono gli articoli che vanno dal 609 bis al 609 decies.

Nonostante l’importante valore simbolico della nuova collocazione sistematica, la dottrina ha sottolineato vari aspetti critici della riforma. In contraddizione con le finalità che la riforma si prefiggeva di perseguire, quali il rispetto della volontà della donna e la difesa della sua                                                                                                                

27  Mantovani, Diritto penale. Parte speciale I. Delitti contro la persona, 5° ed.,

2013, p. 369.

28Fiandaca-Musco, Diritto penale. Parte speciale, vol. II, tomo I - I delitti contro

la persona, 4° ed., 2013.

29

Padovani, sub pre-art. 609 bis c.p., in Commentario sulle norme contro la

violenza sessuale e contro la pedofilia, a cura di Cadoppi, 4° ed., Padova, 2006, p.

(20)

autodeterminazione, il legislatore ha continuato ad incentrare la violenza sessuale sugli elementi della violenza e della minaccia, anziché sul mero dissenso della vittima, come proponeva lo Schema di delega legislativa per l’emanazione di un nuovo codice penale del 1992.

La libertà sessuale è offesa per il solo fatto che gli atti siano commessi contro la volontà della persona, indipendentemente dalla violenza dell’autore. E’ stato osservato da più autori come richiedere l’esistenza della violenza e della minaccia per integrare la fattispecie significhi non solo rendere penalmente irrilevante il fatto laddove sia stato commesso contro la volontà della vittima senza l’uso della forza, ma anche richiedere da parte della vittima una resistenza che, invero, potrebbe anche mancare nonostante il dissenso (si pensi alla vittima che non si opponga per porre fine alle sofferenze o per evitare danni peggiori). La giurisprudenza, sulla base dello stereotipo “vis grata puellis”, per un certo periodo ha escluso la violenza nei casi in cui la vittima non avesse opposto una resistenza “convincente”30. Per altro verso la mancata previsione del dissenso come elemento da solo sufficiente ad integrare la fattispecie di violenza sessuale ha generato recentemente un’altra tendenza: la giurisprudenza, nel cercare di rispondere all’esigenza di tutelare l’autodeterminazione della vittima e di punire gli atti sessuali contrari alla sua volontà privi di violenza, ha interpretato in modo così estensivo la “violenza” fino a dematerializzarla31.

L’intento dell’interprete è senz’altro apprezzabile, ma si tratta di un                                                                                                                

30  Significativo, in tal senso, è il passaggio della sentenza del Tribunale di Bolzano

30/6/82: “un iniziale atto di forza o di violenza […] non costituisce violenza vera e

propria, dato che la donna, soprattutto fra la popolazione di bassa estrazione sociale o di scarso livello culturale, vuole essere conquistata anche con maniere rudi, magari per crearsi una sorta di alibi al cedimento ai desideri dell’uomo”.  

31  Un esempio è la sentenza della Cassazione 10/12/90: “Non esiste valido

consenso […] se il soggetto passivo abbia ceduto alle voglie dell’aggressore solo per porre fine ad una situazione divenuta angosciosa ed insopportabile a causa del comportamento dell’agente stesso. Ne deriva che il rapporto sessuale non voluto integra gli estremi del reato, anche quando sia consumato approfittando della situazione di difficoltà e dello stato di diminuita resistenza in cui la vittima si sia trovata”.  

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intervento ortopedico cui la giurisprudenza spesso è costretta a ricorrere per rimediare alle sviste del legislatore. Per questa ragione più autori in dottrina avrebbero ritenuto più corretto incentrare il delitto di violenza sessuale sul dissenso, come tra l’altro è previsto per il reato di violazione di domicilio, per integrare il quale è sufficiente anche un semplice gesto di rifiuto da parte del padrone di casa32.

Un altro aspetto problematico della riforma è la collocazione sistematica dei delitti in materia sessuale: inopportuna è parsa la scelta di collocarli tra i delitti contro la libertà personale; sarebbe stato più corretto creare una sezione ad hoc riguardante i “delitti contro la libertà sessuale”, capace più di ogni altra categoria di esprimere il particolare disvalore della violenza sessuale, collocandola all’interno della più generale categoria dei delitti contro la libertà morale, essendo la violenza sessuale una specifica ipotesi di violenza privata33.

Al contrario, secondo altri autori l’inserimento del reato di violenza sessuale all’interno dei delitti contro la libertà personale non sarebbe una svista del legislatore, ma una scelta consapevole, giustificata dall’esigenza di evidenziare la fisicità di tali reati, che non possono integrarsi senza che venga coinvolta la corporeità sessuale della vittima34.

La scelta dell’una o dell’altra collocazione dipende sostanzialmente dalla diversa concezione della libertà sessuale, che secondo alcuni è “libertà di”35, in quanto libertà positiva, riconducibile alla libertà morale, mentre secondo altri è “libertà da”36, in quanto libertà negativa riconducibile alla libertà personale.

                                                                                                               

32  Sul punto cfr. Padovani, Violenza carnale e tutela della libertà, in Riv. It. Proc.

Pen., 1989, p. 1301.  

33  Mantovani, Diritto penale, cit., p. 370 34Palumbieri, Introduzione, cit., p. 8 ss. 35Ibidem

(22)

2. Il significato di atti sessuali

Le fattispecie incriminatrici di cui agli artt. 609 bis (violenza sessuale), 609 quater (atti sessuali con minorenne), 609 quinquies (corruzione di minorenne) e 609 octies (violenza sessuale di gruppo) ruotano tutte attorno al concetto di atti sessuali, categoria nata dalla volontà del legislatore di unificarvi i reati di violenza carnale e di atti di libidine, precedentemente previsti agli artt. 519 e 521.

La prima era definita come «ogni fatto per il quale l’organo genitale del soggetto attivo o del soggetto passivo venga introdotto totalmente o parzialmente nel corpo dell’altro»37; i secondi consistevano invece in

«qualsiasi atto di manomissione del corpo altrui, non già soltanto nelle parti intime, diverso dalla congiunzione carnale e suscettibile di eccitare la concupiscenza sessuale…38».

Le due fattispecie sono state abrogate e unificate dalla legge 66/1996 nella generica espressione “atti sessuali” per varie ragioni.

Innanzitutto la previgente distinzione, ponendo non poche incertezze interpretative circa la differenza tra congiunzione e atti di libidine, comportava la necessità di indagare con estrema precisione sulla concreta dinamica della consumazione del delitto e in particolare sull’accertamento della violenza carnale. Tali verifiche rendevano necessario rivolgere alla vittima domande invasive e mortificanti, costringendola a subire un’ulteriore umiliazione e vittimizzazione nel processo.

L’unificazione degli atti di libidine e della violenza carnale in un’unica fattispecie è poi motivata dal mutamento del bene giuridico protetto, che non è più la moralità pubblica, ma la libertà sessuale individuale; l’autodeterminazione sessuale della vittima è egualmente offesa, indipendentemente dalle parti del corpo coinvolte e dalle modalità concrete, rilevando queste ultime solamente ai fini della graduazione della pena.                                                                                                                

37  Cass., 21.1.1985. 38

(23)

L’indeterminatezza dell’espressione “atti sessuali” ha spinto la dottrina e la giurisprudenza a darne un’interpretazione che ne specifichi il significato. Tre sono i principali orientamenti.

Secondo una prima impostazione gli atti sessuali sarebbero equivalenti agli atti di libidine (senza prendere in considerazione la congiunzione carnale, la cui natura sessuale viene presunta in re ipsa). L’attuale reato di violenza sessuale incriminerebbe quindi esattamente gli stessi fatti che erano già puniti dai reati di violenza carnale e di atti di libidine violenti; gli “atti sessuali” sarebbero equivalenti alla sommatoria delle due previgenti figure39.

Un secondo orientamento considera l’espressione “atti sessuali” più ampia rispetto a quella di “atti di libidine, incriminando fatti che erano, prima della riforma, irrilevanti.

Si tratta di un’impostazione che interpreta gli “atti sessuali” in senso soggettivo, poiché li definisce come «tutti gli atti aventi significato erotico anche solo nella dimensione soggettiva dei rapporti soggetto attivo/soggetto passivo»40; assumono rilevanza quindi la particolare direzione dell’atto verso l’eccitamento o lo sfogo dell’impulso libidinoso e l’atteggiamento interiore del soggetto attivo.

La conseguenza di tale impostazione è che certi atti, come baci, carezze, abbracci e toccamenti, dal significato ambiguo e polivalente, possono configurare violenza sessuale, ingiuria, violenza privata, molestia o essere penalmente irrilevanti a seconda che siano commessi per libidine, per dispregio, per vendetta, per molestia, per gioco o per amicizia.

Le ingerenze nella corporeità sessuale altrui commesse per una qualsiasi finalità che non sia quella di soddisfare il desiderio sessuale rimangono                                                                                                                

39B. Romano, Delitti contro la sfera sessuale della persona, 5° ed., CEDAM,

2013, p. 106. Nello stesso senso v. Cass. 23 settembre 2004, n. 37395, che ha condiviso l’opinione secondo cui «la fattispecie dell'art. 609-bis, unificando i precedenti reati di violenza carnale e di atti di libidine nella figura unitaria della violenza sessuale, abbia lasciato sostanzialmente intatto il limite inferiore della tutela della libertà sessuale, costituito appunto dagli atti di libidine».

40

(24)

impunite o incriminabili per reati diversi dalla violenza sessuale (come la violenza privata o l’ingiuria), mentre gli atti che non comportano alcuna ingerenza nella corporeità sessuale della vittima (come l’esibizionismo, l’autoerotismo praticato di fronte ad altri costretti ad assistervi o il voyeurismo) sono puniti per il semplice fatto di essere accompagnati da un pensiero “libidinoso”.

Per arginare tali derive, la giurisprudenza ha cercato di restringere il contenuto degli atti sessuali adottando una nozione oggettiva, che individua il baricentro della nuova incriminazione di violenza sessuale in un diverso bene giuridico: la libertà sessuale, non più appartenente al generico patrimonio collettivo della moralità o del buon costume, bensì diritto della persona umana di gestire liberamente la propria sessualità41.

Secondo l’orientamento oggettivistico il concetto di atti sessuali avrebbe una minore estensione rispetto a quello di atti di libidine. Tale oggettivizzazione è stata favorita da più fattori, quali: il mutamento del bene giuridico tutelato dalla “moralità pubblica e buon costume” alla libertà sessuale; l’adozione del termine “atti sessuali” in luogo del riferimento moraleggiante alla “libidine”, di modo che non rilevi più l’immoralità dell’atteggiamento interiore del soggetto, ma la libertà della vittima, indipendentemente dall’intenzione perseguita dall’autore; la maggiore conformità ai principi di offensività, di proporzionalità, di colpevolezza e di tassatività; l’esigenza di tassatività e certezza, che non ammette relativismi soggettivistici, né del reo, né della vittima42.

Alla luce delle ragioni che sospingono verso un’interpretazione oggettiva e restrittiva del concetto di atti sessuali, la definizione oggi più condivisa è                                                                                                                

41  Nella sentenza Di Francia (Cass. Sez. III, 27.4.1998), la prima ad aver

inaugurato l’orientamento oggettivistico, si afferma che «l’illegittimità dei comportamenti deve essere valutata alla stregua del rispetto dovuto alla persona umana e della loro attitudine ad offendere la libertà di determinazione della sfera sessuale (…), sicché è disancorata dall’indagine sul loro impatto nel contesto

sociale e culturale in cui avvengono, in quanto punto focale è la disponibilità della

sfera sessuale da parte della persona, che ne è titolare».

42

(25)

quella che, rifacendosi alle scienze mediche e a quelle antropologico-sociologiche, considera atti obiettivamente e univocamente sessuali soltanto quelli di contatto fisico con le zone considerate dalle scienze empiriche, erogene, ossia le zone genitali, pubiche, anali, orali, mammellari; non è necessario il contatto diretto tra soggetto attivo e soggetto passivo, potendo integrare violenza sessuale anche l’autoerotismo imposto alla vittima43. Gli atti, come ad esempio l’esibizionismo, il voyeurismo, l’autoerotismo effettuato costringendo altri ad assistervi, che non comportano contatto fisico con simili zone, non integrano il reato di violenza sessuale, ma potranno eventualmente integrare il reato di violenza privata.

3.

Il relativismo culturale di ciò

  che è   sessualmente

rilevante

Nonostante gli apprezzabili aspetti della concezione oggettivistica degli atti sessuali, non mancano critiche a quella che viene definita un’impostazione eccessivamente “scientifica”.

Prima di affrontare nello specifico i rilievi critici evidenziati dalla dottrina, è necessario premettere che il termine “atti sessuali” «configura un elemento normativo extragiuridico all’interno della struttura del reato, per la cui determinazione è necessario far riferimento inevitabilmente alle scienze antropologiche e sociologiche»; infatti «è in base alla cultura ed ai costumi di un popolo che si configura ciò che è “sessualmente rilevante”44». Ad esempio «per taluni popoli lo sfregamento del naso contro naso altrui può assumere connotati sessuali, e sul punto le “pratiche sessuali” delle varie                                                                                                                

43  Così Cadoppi, Art. 3, in Commentari, cit., p, 53 s.; Mantovani, Diritto penale,

cit., p. 379.

44  Fiandaca-Musco, Diritto penale. Parte speciale, cit., p. 247. In tal senso v.

(26)

comunità nel mondo sono le più varie e curiose45».

Alcuni autori hanno affermato che la nuova terminologia “atti sessuali”, nel suo significato oggettivo-naturalistico attribuito dall’interpretazione restrittiva, presenta il difetto «di una eccessiva “asetticità” da laboratorio di scienze naturali46»; il termine “sessuale”, rispetto al precedente aggettivo “libidinoso”, sarebbe troppo neutrale, mentre «le fattispecie incriminatrici per loro stessa natura implicano una valutazione umana e sociale, culturalmente condizionata, dei comportamenti presi in considerazione47».

La domanda che allora si pone tale parte della dottrina è la seguente: come è possibile delineare con sicurezza il confine tra ciò che è sessuale e ciò che non lo è facendo riferimento prevalentemente alle parti anatomiche o all’intensità dei contatti fisici, trascurando il contesto in cui il contatto si realizza? Come non considerare la complessa dinamica intersoggettiva che si sviluppa?

Di fronte ai reati culturalmente motivati la nozione oggettiva pone dei problemi: certamente è apprezzabile l’intento di evitare di dare rilevanza alle qualsivoglia pulsioni provate da ciascun individuo; la concezione oggettiva vuole dotare la nozione di un’obiettività tale per cui il suo contenuto non sia determinato a seconda della particolare sessualità del soggetto, che potrebbe eccitarsi, ad esempio, anche attraverso il bacio delle scarpe48.

Ma nel caso della violenza sessuale, commessa dall’individuo la cui cultura non considera “atto sessuale” ciò che secondo la nostra lo è, non si tratta di dare rilevanza alla particolare sessualità del singolo individuo, ma a quella                                                                                                                

45 Cadoppi, Ivi.

46Fiandaca, La rilevanza penale del bacio tra anatomia e cultura, nota a Sent.

Cass. Pen. 27/04/1998, in Foro it., 1998, III, p. 509.

47

Ibidem (corsivo aggiunto)

48  In tal senso v. Cass. 15.11.1996, n. 104 (sentenza Coro), che considera

necessario il riferimento alla “normale idoneità” del comportamento ad eccitare o a sfogare l’istinto sessuale del soggetto attivo, proprio per evitare di ricondurre i comportamenti “anomali” (accompagnati ad una iper-eccitabilità del soggetto attivo) alla fattispecie di violenza sessuale.

(27)

di un gruppo di individui; nello specifico, si tratta non di un qualsiasi insieme di soggetti, ma di un gruppo qualificato, cioè il gruppo etnico. Si è già parlato del potere della cultura di orientare i comportamenti umani: le «funzioni umane che corrispondono ai bisogni fisiologici, come la fame, il sonno, il desiderio sessuale, etc. sono plasmate dalla cultura, tanto è vero che le diverse società non danno rigorosamente le stesse risposte a questi bisogni49».

La cultura ha quindi una grande influenza sulla vita in tutti i suoi aspetti, non escluso quello sessuale, che le diverse società hanno declinato in modi diversi: gli antropologi hanno individuato innumerevoli generi di matrimonio e di comportamenti sessuali extra-coniugali.

Resta da capire il significato da attribuire al concetto di “scienze antropologico-sociologiche” cui accenna la definizione oggettiva di atti sessuali: tale espressione fa riferimento ai costumi diffusi nella nostra società e quindi alla cultura dominante, o tiene conto anche dei costumi di altre culture?

Parte della giurisprudenza, in relazione alla controversa questione della rilevanza penale del bacio, propende per la seconda interpretazione. Significativa è la pronuncia della Cassazione, secondo la quale «occorre che il riferimento alle zone erogene sia integrato con l'attenta valutazione del contesto sociale e culturale in cui si realizza la condotta stessa50». La Corte prosegue con l’affermare che «se il bacio sulla bocca indubbiamente attinge una zona generalmente considerata erogena, è altrettanto indubbio che esso perde il connotato sessuale se è dato in particolari contesti sociali e culturali. Per esempio, nella tradizione russa il bacio sulla bocca è scambiato come forma di saluto, sicché il bacio c.d. alla russa non può identificarsi come atto sessuale. Altrettanto può avvenire in certi contesti familiari o parentali, in cui il bacio sulla bocca tra parenti è solo un segno di affetto, privo di connotazioni sessuali penalmente rilevanti». Pertanto la Cassazione                                                                                                                

49

Basile, Immigrazione e reati culturalmente motivati, cit., p. 25.  

(28)

conclude: «In questi e in consimili contesti non erotici esula la nozione penale di atti sessuali, perché - secondo la nozione surrichiamata - la condotta dell'agente non è oggettivamente idonea a compromettere la libertà sessuale del soggetto passivo, o più esattamente del partner, indipendentemente dal consenso di quest'ultimo».

4. La violenza sessuale e il fattore culturale

4.1. Il delitto di violenza sessuale

L’art. 609 bis distingue la violenza sessuale in violenza per costrizione, commessa con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità (art. 609 bis, comma 1) e violenza per induzione, commessa abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica o ingannando la persona offesa mediante sostituzione di persona (art. 609 bis, comma 2)51.

Il primo comma dell'art. 609 bis richiede espressamente il requisito della costrizione, che indica che il fatto, per assumere rilevanza penale, deve avvenire contro la volontà del soggetto. Quindi se vi è il consenso al compimento degli atti sessuali non si ha una causa di esclusione dell'antigiuridicità, ma una causa di esclusione della tipicità del fatto.

La prima forma di violenza sessuale descritta dal primo comma è quella che impiega l'uso della violenza, concetto che gradualmente ha subito un considerevole ampliamento. Progressivamente, per esigenze di tutela, il concetto di violenza è stato dematerializzato a tal punto da essere diventato coincidente con la coartazione della volontà altrui.

Secondo le interpretazioni più recenti oggi si ritiene che la violenza non                                                                                                                

(29)

venga meno anche se la vittima cessi di resistere per porre fine ad una situazione di sofferenza; non è necessario che la violenza perduri durante l'intera consumazione, potendo essere sufficiente l'uso iniziale della violenza e la conseguente arresa della vittima all'aggressore. È stato considerato integrato il reato di violenza sessuale anche nel caso di comportamenti “collaborativi” della vittima, come nel caso della donna che, non riuscendo a sfuggire al suo aggressore, gli offre un profilattico per evitare gravidanze indesiderate o il contagio di gravi malattie. Quanto ai toccamenti “a sorpresa”, la giurisprudenza di legittimità ha ravvisato (con critiche della dottrina) la violenza, poiché la vittima è costretta a subire l’atto sessuale sgradito, repentino ed insidioso senza avere la possibilità di prevenirlo52.

La seconda modalità di costrizione, di cui al comma 1, è la minaccia, consistente nella prospettazione di un male futuro qualora la vittima non acconsenta al compimento degli atti sessuali. Non è necessario, ai fini dell’integrazione del reato di violenza sessuale, che la minaccia perduri durante tutto il periodo di esecuzione del delitto: è sufficiente che sia svolta solo nella fase iniziale e che abbia l’effetto di coartare la volontà della vittima, il cui eventuale atteggiamento passivo o collaborativo resta indifferente, a meno che non integri un consenso tacito.

La giurisprudenza sulla minaccia è scarsa; è stata ravvisata, ad esempio, nei casi: di chi manifesta alla donna, che ha rifiutato l’amplesso, il proposito di riferire al marito le prove della di lei precedente infedeltà (App. Bologna, 9/12/64); di chi minaccia alla donna l’invio ai parenti delle foto di precedenti incontri amorosi (Cass. 14/6/94); del datore di lavoro che minaccia il licenziamento (Cass. 20/9/06)53.

Per quanto riguarda l’elemento oggettivo della fattispecie, ossia la                                                                                                                

52  Cfr. Cass. 14/7/10: «la violenza (…) non consiste necessariamente

nell’esplicazione di una vis fisica (…) ma può concretarsi anche nella repentinità e nell’insidiosità dell’azione, che sorprenda e superi la contraria volontà del

soggetto».

(30)

condotta, sia in dottrina che in giurisprudenza si afferma quasi unanimemente che le ipotesi criminose previste dall’art. 609 bis siano reati di pura condotta, poiché il fatto si esaurirebbe nel compiere atti sessuali. Altri ritengono invece che si tratti di reati di duplice evento. La condotta, trattandosi di reato a forma vincolata, consisterebbe nel costringere taluno a compiere o a subire atti sessuali con il mezzo della violenza o della minaccia; gli effetti della condotta costrittiva sarebbero l’altrui stato psicologico di coazione o di induzione e il compimento o la passiva sopportazione degli atti sessuali54.

Secondo altri l’attività di costrizione o di induzione non può essere considerata un evento tipico, ma una condotta; l’evento quindi sarebbe esclusivamente il compiere o subire atti sessuali55.

La terza modalità di costrizione del soggetto passivo è l’abuso di autorità. Trattasi di reato proprio, nonostante il termine “chiunque”, poiché è necessario ai fini della rilevanza penale del fatto che il soggetto ricopra la posizione di autorità.

Rispetto all’abrogato art. 520 c.p. l’attuale fattispecie ha, per certi versi, una portata più ampia, poiché comprende qualsiasi forma di autorità esercitata dal soggetto attivo e non specifica le condizioni in cui si debbano trovare i soggetti passivi, essendo sufficiente che si trovino in uno stato di soggezione nei confronti dell’autorità. Per altro verso è invece più ristretta poiché, mentre l’art. 520 non prevedeva alcuna forma di abuso da parte dell’ufficiale, che era incriminato per il solo fatto di congiungersi con persona detenuta o arrestata, oggi la nuova fattispecie richiede l’abuso di autorità.

Il concetto di autorità è definito come «l’insieme dei poteri, conferiti dalla legge ad un soggetto, che lo pongono in una posizione giuridica di preminenza nei confronti di un altro soggetto56»; comprende sia l’autorità

                                                                                                               

54  Mantovani, Ivi, p. 396  

55  Palumbieri, Violenza sessuale, cit., p. 58. 56  Mantovani, Diritto penale, cit., p. 403.

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