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LE MUTILAZIONI GENITALI (A SCOPO NON TERAPEUTICO)

2. Le mutilazioni genitali femminili

2.6. Aspetti critici della L 7/

Alla luce della casistica giudiziaria relativa al reato in esame, la circostanza che allo stato attuale essa si componga di un unico caso (quello sopra riportato), per giunta conclusosi con un’assoluzione in quanto “il fatto non                                                                                                                

149  Cass. Sez. III, 9 maggio 1996 (dep. 12 giugno 1996) n. 2149.

150  Cass. Sez. VI, 22 giugno 2011 (dep. 24 novembre 2011), K.S., n. 43646. Si

tratta del caso, che vede imputata una giovane madre nigeriana, di un intervento rituale sui genitali di un neonato. La Cassazione, nel riconoscere l’ignorantia legis, aveva tenuto in considerazione la provenienza della donna, di origine africana, e la sua situazione di scarsa integrazione nel Paese di accoglienza. Inoltre il basso grado di cultura dell’imputata e il forte condizionamento derivatole dal mancato avvertimento di un conflitto interno sono ritenute circostanze che «sfumano molto il dovere di diligenza dell’imputata finalizzato alla conoscenza degli ambiti di liceità consentiti nel diverso contesto territoriale in cui era venuta a trovarsi».

151  Basile, Il reato di “pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili”,

costituisce reato”, potrebbe apparentemente far ritenere che la nuova figura di reato abbia ottenuto l’effetto general-preventivo sperato grazie al quale sradicare le pratiche di Mgf dall’Italia. La legge potrebbe infatti aver contribuito alla diminuzione degli episodi di Mgf. Si tratta di capire se gli obiettivi che il legislatore si prefiggeva di conseguire con l’adozione della legge siano stati effettivamente conseguiti.

E’ opportuno affrontare prima la questione concernente i vantaggi e gli svantaggi dell’introduzione di una legge penale ad hoc.

Tra gli aspetti positivi, evidenziati da parte della dottrina, vi sarebbe quello di fornire alle madri e alle figlie un riferimento a cui aggrapparsi per sottrarsi alle pressioni dei padri, dei mariti, della comunità in generale, che richiedono loro di sottoporsi al doveroso intervento.

Alcuni riportano «indicazioni confortanti» sul progressivo abbandono della pratica che emergono dall’indagine svolta dall’Istituto Regionale di Ricerca della Lombardia; la ricerca mette in evidenza sia una diffusione del fenomeno inferiore a quella stimata nei Paesi di origine (ma si ritiene che sul risultato incida piuttosto l’esperienza migratoria che allontana le donne dalle pressioni della comunità), sia una opinione fortemente critica nei confronti delle pratiche (l’80% delle donne intervistate si direbbe non disponibile ad attuare le Mgf sulle proprie figlie)152.

L’intervento penale assumerebbe poi un significato simbolico che esprimerebbe in modo inequivoco la condanna e la disapprovazione delle Mgf, rendendo chiaro il loro disvalore e il fatto che tale pratica è incriminata.

Più in generale, la autonoma incriminazione viene vista come necessaria per garantire il benessere di tutti i membri del gruppo etnico minoritario da forme di violenza e oppressione nei confronti dei soggetti più deboli.

Infine viene evidenziato il dato che nelle stesse culture di origine le mutilazioni genitali femminili sono da anni oggetto di riprovazione.

                                                                                                               

152  Pecorella, Mutilazioni genitali femminili: la prima sentenza di condanna, in

Ben più numerosi sembrano però gli aspetti negativi dell’introduzione di una norma ad hoc. Innanzitutto vi è il rischio di una stigmatizzazione dei membri del gruppo etnico a causa della loro identità culturale: le comunità di minoranza potrebbero infatti percepire il divieto come una aggressione culturale. Ciò può comportare una ulteriore chiusura delle comunità di immigrati, con il rischio che, determinate a continuare la pratica, la svolgano in clandestinità; clandestinità che può uccidere, in mancanza di attrezzature e ambienti idonei e asettici.

In mancanza di un coinvolgimento delle dirette interessate e di una loro esplicita richiesta, la legge ad hoc diventerebbe una semplice “legge manifesto”, priva di efficacia. Il piano più problematico è infatti il rischio di ineffettività dell’incriminazione: in tutti i sistemi che hanno incriminato la pratica essa non è stata sradicata, né contenuta, ma rimasta occulta e clandestina.

Venendo poi all’analisi della l. 7/2006 nello specifico, in molti ne hanno evidenziato le incongruenze.

L’aspetto più criticato è il trattamento sanzionatorio, ritenuto unanimemente eccessivo: il legislatore sembra infatti aver «‘gonfiato i muscoli’, mettendo in campo tutte le armi disponibili nel suo arsenale sanzionatorio (rigorose pene principali; pena accessoria speciale; sanzione amministrativa per l’ente)153».

Infatti la pena, che per le ipotesi più gravi del primo comma, se aggravate ai senti del comma 3, può arrivare fino a 16 anni di reclusione, sarebbe stata inferiore se le condotte fossero state incriminate dalle lesioni gravi o gravissime (punite rispettivamente da tre a sette anni o da sei a dodici anni); inoltre quest’ultime, data la loro assodata natura di circostanze aggravanti, sarebbero state bilanciabili ex art. 69 con eventuali attenuanti, cosa che non

                                                                                                               

153  Basile, Società multiculturali, immigrazione e reati culturalmente motivati

(comprese le mutilazioni genitali femminili), in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, rivista telematica, ottobre 2007, p. 56.

è possibile con l’attuale figura autonoma prevista dall’art. 583 bis154.

Inoltre alcuni sottolineano l’inutilità della disposizione, essendo le condotte già riconducibili al reato di lesioni gravi o gravissime. Ciò spinge a chiedersi quale sia quel quid pluris, rispetto alla lesione, che la pratica di Mgf avrebbe, tale da giustificare la sua autonoma incriminazione. In risposta a tale quesito alcuni hanno osservato come il «disvalore aggiunto» dei nuovi reati di mutilazione genitale femminile rispetto alle lesioni personali comuni risieda tutto «nella

motivazione culturale del fatto e non certo in una sua maggiore gravità lesiva155».

Si tratta dell’unica fattispecie penale nella quale il legislatore ha volto la sua attenzione al fattore culturale, non in modo favorevole o indifferente per il reo, bensì in modo sfavorevole, adottando una legge simbolica che secondo alcuni esprime un «chiaro atteggiamento di intolleranza, in quanto sceglie di punire di più il fatto che trova la sua motivazione in una cultura “diversa” dalla nostra»156.

A confermare l’efficacia meramente simbolica e non pratica della legge vi è il mancato riconoscimento dello status di rifugiate alle donne che intendano sottrarsi o sottrarre le loro figlie al rischio di subire queste pratiche. Il disegno di legge prevedeva inizialmente questa misura di protezione, che fu però soppressa su iniziativa del gruppo della Lega. L’art. 5 del disegno di legge era così formulato: «E’ concesso lo status di rifugiate alle donne che intendono sottrarsi o sottrarre le loro figlie minori al rischio di mutilazioni genitali, in quanto il paese di origine o di provenienza consenta tali pratiche». L’ultima formula della disposizione aveva un chiaro intento di restringere l’applicabilità dell’istituto, anche perché sono ormai pochissimi i Paesi africani nei quali la pratica non è punita. Ma neppure                                                                                                                

154  De Maglie, I reati culturalmente motivati, cit., p. 42.  

155  Palazzo, Considerazioni conclusive, in Bernardi (a cura di), Multiculturalismo,

diritti umani, pena, Giuffrè Editore, 2006, p. 191.

156  Basile, Società multiculturali, immigrazione e reati culturalmente motivati, cit.,

questa formula restrittiva è stata accolta.

Fu respinta anche la proposta di applicare le misure di assistenza e di protezione sociale previste dall’art. 18 del d. lgs. n. 268 del 1998 (Testo unico sull’immigrazione) a coloro che intendessero sottrarsi alla Mgf. L’art. 18 prevede la concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari «al fine di consentire allo straniero di sottrarsi alla violenza e ai condizionamenti dell’organizzazione criminale e di partecipare a un programma di assistenza e integrazione sociale».

Alcuni hanno tuttavia individuato alcuni strumenti giuridici alternativi di protezione attraverso una interpretazione orientata alla tutela delle donne in quanto perseguitate per la loro «appartenenza ad un determinato gruppo sociale» ai sensi dell’art. 1(A)2 della Convenzione di Ginevra. Si tratta peraltro di una interpretazione sostenuta dall’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati. In caso di diniego da parte dell’autorità amministrativa a concedere lo status di rifugiata, la donna può far ricorso al Tribunale ordinario competente per territorio157.

Inoltre la direttiva 2004/83/CE del Consiglio del 29 aprile 2004, attuata nell’ordinamento italiano dal Decreto Legislativo 19.11.2007, n. 251, precisa che gli atti di persecuzione ai sensi dell’art. 1° della Convenzione di Ginevra possono assumere la forma di «atti di violenza fisica o psichica, compresa la violenza sessuale» e di «atti specificamente diretti contro un sesso o contro l’infanzia»; si specifica poi che nell’espressione “particolare gruppo sociale” possono valere anche considerazioni di genere158.

Il riconoscimento delle Mgf come presupposto dello status di rifugiato, ai sensi del suddetto decreto, è stato sancito da due recenti pronunce, la prima della Corte d’Appello di Catania e la seconda del Tribunale di Cagliari, che hanno trattato la domanda di protezione internazionale di due donne nigeriane che era stata respinta dalle Commissioni Territoriali per il

                                                                                                               

157  Brunelli, Prevenzione e divieto delle mutilazioni genitali femminili, cit., p. 583 ss.

riconoscimento della protezione internazionale159.

Nella sentenza 27.11.2012 la Corte d’Appello di Catania ha definito la MGF “una forma di violenza, morale e materiale, discriminatoria di genere, legata cioè alla appartenenza al genere femminile”, e, come tale, riconducibile ai motivi di persecuzione rilevanti ai sensi del D. Lgs. 251/07. Inoltre il rifiuto di sottoporre se stessa o le proprie figlie alla pratica può esporre la donna al rischio di essere considerata dal suo Paese di origine «un oppositore politico ovvero come un soggetto che si pone fuori dai modelli religiosi e dai valori sociali, e quindi essere perseguitata per tale motivo». La Corte riconosce quindi i presupposti per concedere alla donna lo status di rifugiata.

Il Tribunale di Cagliari nell’ordinanza 3.4.2013 ha affermato che «a rappresentazione della mutilazione genitale femminile quale atto di persecuzione per motivi di appartenenza ad un determinato gruppo sociale è palesemente compatibile con la tutela degli interessi costituzionalmente protetti contenuta negli articoli 2 e 3 della Costituzione, con particolare riguardo alla tutela dei diritti inviolabili dell'uomo e al principio di uguaglianza e di pari dignità sociale, senza distinzioni di sesso, alla stessa stregua dei motivi di razza, religione, nazionalità o di opinione politica». Il Tribunale ha quindi riconosciuto che la mutilazione genitale femminile può rappresentare un atto di persecuzione rilevante ai fini del riconoscimento dello status di rifugiata.

Un altro meccanismo di protezione è l’art. 19 del Testo unico sull’immigrazione, che afferma: «In nessun caso può disporsi l'espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero                                                                                                                

159  Cattelan, Due recenti pronunce riconoscono negli atti di mutilazione genitale femminile

il presupposto per il riconoscimento dello status di rifugiato, in Questione Giustizia online,

2013, www.questionegiustizia.it  

possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione» e vieta in ogni caso l’espulsione degli stranieri minori di anni diciotto (comma 2, lett. a)»160.

Infine non va dimenticato l’art. 3 CEDU, secondo cui «Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti», che in alcuni casi è stato applicato dalla Corte di Strasburgo in materia di espulsione.

Si cita la decisione 1.7.2003, Sez. IV, n. 33692/02, Abraham Lunguli vs. Svezia: la ricorrente era entrata illegalmente in Svezia per timore che il padre, che aveva già sottoposto le figlie minori a Mgf, costringesse anche lei a subire l’intervento. Le sue richieste di asilo e di permesso di soggiorno erano state respinte, con conseguente ordine di espulsione. Presentata una nuova richiesta di soggiorno, con certificato medico che attestava l’operazione delle sorelle, le veniva concesso il permesso di soggiorno, comportando la chiusura del procedimento di fronte alla Corte di Strasburgo per il venir meno del rischio di sottoposizione ad un trattamento inumano e degradante di cui all’art. 3 CEDU161.

Un ultimo aspetto critico della nuova fattispecie incriminatrice riguarda il comma 4 dell’art. 583 bis, aggiunto con la legge 1 ottobre 2012, n. 172 (di rettifica ed esecuzione della Convenzione di Lanzarote del 2007 “per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale”), che prevede la decadenza dall’esercizio della potestà del genitore e l’interdizione perpetua da qualsiasi ufficio attinente alla tutela, alla curatela e all’amministrazione di sostegno, qualora il fatto sia commesso dal genitore o dal tutore.

Alcuni hanno osservato come tale misura accessoria finisca per ricadere sulla vittima del reato, poiché il minore rischia di perdere i contatti sia con il padre che con la madre. Non va infatti dimenticato che l’istituto della potestà genitoriale si fonda sull’obbligo dei genitori di assicurare ai figli un                                                                                                                

160  Ibidem   161  Ibidem

completo percorso educativo, garantendo loro il benessere, la salute e la crescita anche spirituali; la decadenza dalla potestà si giustifica in quanto il genitore non sia in grado di assicurare ai figli quanto appena detto.

Pare che la decisione di sottoporre le figlie a Mgf non sia automaticamente indicativa di detta incapacità genitoriale: non è infatti detto né che i genitori non siano idonei ad assolvere il loro ruolo genitoriale, né che la decadenza sia conforme all’interesse delle minori. Sembra anzi che nella maggior parte dei casi i genitori possano essere le persone migliori per allevarle162.

Alcuni non escludono quindi un contrasto con i principi costituzionali, soprattutto alla luce della sentenza 31 del 2012 con cui la Corte Costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 569 c.p., «nella parte in cui prevede che, in caso di condanna pronunciata contro il genitore per il delitto di alterazione di stato di cui all’art. 567, secondo comma, c.p., debba conseguire automaticamente la perdita della potestà genitoriale, così precludendo al giudice ogni possibilità di valutazione dell’interesse del minore nel caso concreto»; vi è quindi chi ritiene che una conclusione analoga possa valere anche per le mutilazioni genitali femminili163.  

3. Il trattamento giuridico della circoncisione maschile