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4.2.2 (segue) Dolo ed errore sulla causa di giustificazione

4.3. Motivazione culturale e possibilità di conoscere l’illiceità del fatto

4.3.1. Dolo e coscienza dell’offesa

Secondo la moderna concezione del dolo è pacifico che l'oggetto del dolo sia il fatto oggettivo del reato.

Meno pacifico è il problema se il dolo abbracci anche la consapevolezza del disvalore del fatto, essendo la dottrina divisa tra coloro che ritengono sufficiente la mera coscienza e volontà del solo fatto materiale e coloro che avvertono la necessità che il dolo abbia ad oggetto anche il contenuto offensivo del fatto commesso.

Quest'ultima tesi si è affermata a partire dagli anni sessanta del secolo scorso, muovendo dall'esigenza di arricchire il dolo di una maggiore partecipazione psichica del soggetto al fatto e di superare la rigidità dell'art.                                                                                                                

5 c.p. che, prima dell'intervento della Corte Costituzionale del 1988, affermava l'assoluta irrilevanza dell'ignoranza incolpevole sul precetto. La premessa ideologica di tale ricostruzione è l'affermazione del principio di offensività, secondo cui un fatto non può costituire reato se ad esso non corrisponde anche una lesione dell'interesse tutelato.

L'aggancio normativo è individuato innanzitutto nell'art. 49, che stabilirebbe la non punibilità dell'azione inidonea a cagionare l'evento non in quanto “doppione negativo” dell'art. 56, ma in quanto espressivo di un principio generale di offensività.

Inoltre dall’art. 43 c.p., il cui termine «evento» è interpretato non in senso naturalistico, ma nel senso giuridico di «offesa all’interesse protetto», si evincerebbe che l'offesa è un requisito del fatto che deve costituire necessariamente anche l'oggetto del dolo. Quindi, come sul piano oggettivo non si punisce mancando l’offesa, così, sul piano soggettivo, non si punisce qualora l’offesa in concreto vi sia, ma il soggetto ritenga che sia assente. Pertanto l’agente deve avere la consapevolezza di realizzare un comportamento offensivo del bene giuridico corrispondente alla norma incriminatrice, altrimenti, in mancanza di tale coscienza, il dolo sarà escluso.

La tesi in questione va a toccare anche il profilo dell’errore sul precetto. A tale proposito, si riporta la tradizionale distinzione tra reati naturali e reati artificiali.

I primi non sono che le tradizionali incriminazioni presenti in tutte le legislazioni, che esprimono l’esigenza di tutelare interessi “universali”; tali reati sono immediatamente offensivi degli interessi tutelati dalla relativa fattispecie e il loro disvalore è immediatamente compreso dai consociati. La consapevolezza dell'offesa in questi casi sarebbe quasi sempre coincidente con la conoscenza dell'antigiuridicità, poiché l'intrinseco disvalore del fatto darebbe anche degli indizi sull'antigiuridicità: la commissione dolosa del fatto assorbe in sé anche la coscienza dell’offesa. Il discorso cambia per i reati artificiali, il cui disvalore non sarebbe visibile a tutti, poiché si tratta di fattispecie che puniscono interessi sganciati

dalla disapprovazione sociale. Diventa allora necessario conoscere l'antigiuridicità della condotta per poterne afferrare anche il disvalore; in mancanza della conoscenza dell’illiceità del fatto, «parrebbe difficile ipotizzare gli estremi di quella “decisione” consapevole di realizzare il fatto oggetto del divieto», che costituisce «il momento qualificante essenziale dell’atteggiamento soggettivo di chi agisca con dolo240».

Non essendo tuttavia possibile includere all’interno del dolo la consapevolezza dell’illiceità del fatto, a causa del limite posto dall’art. 5 c.p., il ricorso alla coscienza dell’offesa è parso l’unico modo per escludere il dolo.

La tesi in questione è stata considerata utile anche allo scopo di escludere il dolo, e quindi la punibilità, in relazione a fatti culturalmente motivati241. A tale proposito si è osservato come la distinzione tra reati artificiali e reati naturali diventi, in un contesto multiculturale, artificiosa ed espressiva di una concezione etnocentrica; può infatti accadere che certi fatti, che secondo la nostra cultura sono pacificamente considerati “naturali”, siano per certi autori, appartenenti ad una cultura diversa, artificiali.

Un esempio è il reato di Mgf: è stato osservato come i genitori che sottopongono a mutilazione le figlie non pensino di far loro del male, ma siano convinti di agire per il bene delle stesse, poiché le ragazze non mutilate rischierebbero di essere escluse dalla comunità e di non trovare marito.

Ancora, si è portato ad esempio il caso di una vietnamita immigrata a Roma che, al fine di curare il mal di testa della figlia di sette anni, ricorre alla tecnica del coining, consistente nello sfregare il bordo di una moneta sul dorso dell’interessato. La bambina riporta tuttavia lividi ed escoriazioni guaribili in tre settimane, comportando la denuncia della donna per lesioni. Questi reati, sostanzialmente “artificiali” per colui che commette il fatto, dimostrerebbero come l'autore culturale possa ben essere a conoscenza                                                                                                                

240  De Francesco, Diritto penale, cit., p. 421.  

dell'antigiuridicità del fatto, senza tuttavia avere la consapevolezza del disvalore della sua condotta, proprio perché essa, secondo la sua cultura, è giusta e non offensiva.

L'adesione all'orientamento che considera la coscienza dell'offesa elemento del dolo permetterebbe allora di escludere quest'ultimo in relazione ad una condotta culturalmente orientata nella quale mancherebbe la finalità di offendere l’interesse protetto. Nella vicenda del coining il comportamento della madre non sarebbe finalizzato a provocare delle lesioni, ma avrebbe il mero scopo di cura, che ha portato la giurisprudenza americana addirittura a risolvere la questione escludendo la tipicità242.

La tesi della coscienza dell’offesa è stata oggetto di critiche.

Si è osservato innanzitutto come l'offesa non sia elemento del fatto tipico e l'art. 49 c.p. non esprima un generale principio di inoffensività. Si è già affrontata la critica alla tesi della dissociazione tra fatto tipico e offesa, che viene superata attraverso l'interpretazione teleologica della fattispecie (v. supra, § 2), tramite la quale è possibile ricostruire lo scopo perseguito dall'incriminazione ed escludere la tipicità di quelle condotte che non rientrano nel relativo tipo criminoso.

Sulla base di tali premesse, come sul piano oggettivo si esclude la tipicità del fatto mancando in concreto determinati requisiti, così, sul piano soggettivo si esclude il dolo qualora il soggetto sia in errore proprio su quei requisiti che in concreto erano esistenti ma che se fossero mancati avrebbero dato luogo ad una esclusione della tipicità243.

Quanto al rapporto tra coscienza dell'offesa ed errore sul precetto, va osservato come, dopo l'intervento della Corte Costituzionale sull’art. 5 c.p., il ricorso alla coscienza dell'offesa diventi privo di effetti pratici rilevanti. In relazione ai reati naturali, rispetto ai soggetti intranei all'ordinamento sarà difficile escludere la consapevolezza dell'illiceità del fatto.

Il problema potrebbe porsi soltanto nelle ipotesi-limite riguardanti fatti                                                                                                                

242  Ibidem  

commessi da soggetti appartenenti ad una cultura estranea da quella del nostro ordinamento, di cui non hanno ancora conosciuto e assimilato i valori.

Rispetto a simili casi si è avvertita l'esigenza di richiedere la consapevolezza da parte dell'agente di recare un pregiudizio ad interessi percepiti nella loro dimensione sociale e non strettamente giuridico-penale. In tal modo sarebbe superato il limite posto dall'art. 5 c.p. Ma alla luce dell’intervento della Corte sull’articolo, qualora risulti che l’autore è incapace di apprezzare l'illiceità del proprio comportamento, è possibile scusarlo in ragione della sua ignoranza inevitabile, senza la necessità di scomodare il requisito della coscienza dell’offesa, che rischia di dar luogo a conseguenze pericolose; esso si presta infatti ad offrire un motivo di scusa a coloro che violino la legge penale consapevolmente, adducendo la giustificazione di averlo fatto non con il fine di arrecare un’offesa all’interesse tutelato dalla norma, bensì con lo scopo di perseguire un interesse alternativo. Una simile soluzione finirebbe per avallare la sostituzione delle valutazioni alternative dell’individuo a quelle dell’ordinamento penale244.