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Il rapporto tra mente e corpo in Vico

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Academic year: 2021

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DIPARTIMENTO DI

CIVILTÀ E FORME DEL SAPERE

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN

FILOSOFIA E FORME DEL SAPERE

TESI DI LAUREA

IL RAPPORTO TRA MENTE E CORPO IN VICO

CANDIDATO RELATORE

Tommaso Parducci Prof. Giovanni Paoletti

CORRELATORE

Prof. Alfonso M. Iacono

(2)

INDICE

SIGLE E ABBREVIAZIONI III

INTRODUZIONE V

CAPITOLO PRIMO: Il verum-factum come principio ontologico 1

1. Il verum-factum prima di Vico 1

2. Il verum-factum in Vico 8

3. Il cogito di Cartesio e la critica di Vico 14

4. La mediazione tra mondo metafisico e fisico: la matematica in Vico 22

CAPITOLO SECONDO: Facoltà della mente e metodo di conoscenza 35

1. Alcune definizioni: mente-corpo e animo-anima 35

2. Facoltà e arti umane 39

3. La geometria sintetica nelle prolusioni vichiane 47

4. Ritorno alla metafisica 55

5. Di nuovo su Cartesio e Vico 62

CAPITOLO TERZO: “Homo non intelligendo fit omnia”: la mente dinamica della

Scienza Nuova 69

1. Il conatus come risveglio della mente 71

2. L'immaginazione di una mente immersa nella corporeità 82

3. La nascita del linguaggio come medio tra mente e corpo 95

4. La mente nella storia 105

CAPITOLO QUARTO: Mente e corpo nella filosofia politica vichiana 115 1. La nascita del diritto: mente e corpo tra ius prius e posterius 116

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CONCLUSIONI 131 APPENDICE: L'immaginazione di Spinoza e il suo rapporto con Vico 134

1. Vico su Spinoza 134

2. L'immaginazione in Spinoza 141

3. Conclusioni su Vico e Spinoza 155

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SIGLE E ABBREVIAZIONI

CARTESIO

- AT = Oeuvres de Descartes, in 11 voll., a cura di C. Adam e P. Tannery, Vrin, Paris

1964-1974;

- OF = Opere filosofiche, in 4 voll., a cura di E. Garin, Laterza, Bari 1986;

- Regole = Regole per la guida dell'intelligenza, a cura di L. Urbani Ulivi, Bompiani, Milano 2000.

SPINOZA

- E = Etica, trad. it. a cura di P. Cristofolini, ETS, Pisa 2010;

- TTP = Trattato teologico-politico, trad. it. a cura di A. Droetto ed E. Giancotti

Boscherini, postfazione di P. Totaro, Einaudi, Torino 2007. VICO

- Orazioni = Le orazioni inaugurali I-VI, a cura di G. G. Visconti, Edizioni di Storia e

Letteratura, Roma 2013;

- De Ratione = De nostri temporis studiorum ratione, a cura di A. Suggi, con un saggio

di M. Sanna, ETS, Pisa 2010;

- De Antiquissima = De Antiquissima Italorum sapientia, a cura di M. Sanna, Edizioni

di Storia e Letteratura, Roma 2005;

- Risposta I = Prima risposta del Vico al «Giornale de' letterati d'Italia», in Metafisica e Metodo, a cura di C. Faschilli, C. Greco, A. Murari, postfazione di M. Cacciari,

Bompiani, Milano 2008, pp. 324-339;

- Risposta II = Seconda risposta del Vico al «Giornale de' letterati d'Italia», in Metafisica e Metodo, a cura di C. Faschilli, C. Greco, A. Murari, postfazione di M.

Cacciari, Bompiani, Milano 2008, pp. 353-384;

- Vita = Vita scritta da se medesimo, in Opere I, a cura di A. Battistini, Mondadori,

Milano 1990, pp. 5-86;

- De Mente= De mente heroica, a cura di E. Nanetti, postfazione di P. Cristofolini, ETS,

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- OG = Opere Giuridiche. Il Diritto Universale, intr. di N. Badaloni, a cura di P.

Cristofolini, Sansoni, Firenze 1974;

- SN25 = La Scienza Nuova 1725, in Opere II, a cura di A. Battistini, Mondadori,

Milano 1990, pp. 975-1222 (citata con il numero di capoverso);

- SN30 = La Scienza Nuova 1730, a cura di P. Cristofolini, con la coll. di M. Sanna,

Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2013;

- SN44 = La Scienza Nuova 1744, in Opere I, a cura di A. Battistini, Mondadori, Milano 1990, pp. 410-971 (citata con il numero di capoverso);

- Vici Vindiciae = Vici Vindiciae, in Opere filosofiche, intr. di N. Badaloni, a cura di P. Cristofolini, Sansoni, Firenze 1971, pp. 339-375;

- Epistole = Epistole, con aggiunte le epistole dei suoi corrspondenti, a cura di M.

Sanna, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2013.

(6)

INTRODUZIONE

Come è ben noto agli specialisti, la critica vichiana ha subito una forte spinta rinnovatrice durante gli anni 80 del secolo scorso. Grazie ai primi studi sul ruolo della fantasia nella filosofia di Vico, specialmente da parte di Donald Ph. Verene1 ed Ernesto Grassi2, tra i primi a dedicare lavori organici su tale argomento, il raggio d'indagine sul pensiero del filosofo napoletano si è allargato molto, aprendosi a temi che in precedenza venivano spesso lasciati cadere in secondo piano. Oggi, la maggior parte degli studi sul tema dell'immaginazione in Vico si rifanno in qualche modo a questi autori.

Verene con il suo Vico's Science of Imagination è stato tra i primi a far notare il ruolo centrale che, nella Scienza Nuova, è riservato agli universali fantastici, i quali sono all'origine della conoscenza umana. Infatti, egli li considera il caposaldo dell'ultima opera di Vico e li analizza secondo tre diverse prospettive: primo, come una teoria della formazione del concetto; secondo, come una teoria della metafora e infine, terzo, come teoria che sta alla base delle condizioni universali del pensiero. A partire da ciò ne mostra l'importanza per il raggiungimento della verità da parte degli uomini, i quali ritornano ad essere tali proprio grazie ai generi fantastici.

Nella stessa direzione si muovono anche i lavori di Grassi, i quali sono preziosi non solo dal punto di vista teorico, ma anche per quello storico. Da un lato, egli si concentra sul ruolo dell'ingegno nel suo rapporto con la fantasia. Esso, infatti, diventa la facoltà che riesce a dare significato alla conoscenza sensibile dell'uomo. Dall'altro lato, quello storico, egli mostra come la discussione di Vico sull'ingegno e sull'immaginazione debba essere collegata alla tradizione umanistica.

Sempre dal punto di vista di un inquadramento storico del problema, altrettanto

1 D. P. Verene, Vico's Science of Imagination, Cornell University Press, Ithaca-London 1981, ed. it. a cura di F. Voltaggio, pref. di V. Mathieu, Vico. La scienza della fantasia, Armando, Roma 1984. 2 Ernesto Grassi ha dedicato al tema diverse opere che tendono a inquadrare Vico nel contesto storico

dell'umanesimo. Tra i tanti lavori dell'autore di vedano soprattutto: E. Grassi, Die Macht der Phantasie. Zur geschichte abendländischen Denkens, Althenäum Verlag GmbH, Königstein 1979, trad. it. di C. Gentili e M. Marassi, Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, Guida, Napoli 1990; Id., Macht des Bildes. Ohnmacht der rationalen Sprache. Zur Rettung der Rhetorischen, Wilhelm Fink Verlag, München 1979, ed. it. a cura di L. Croce e M. Marassi, Potenza dell'immagine. Rivalutazione della retorica, Guerini, Milano 1989.

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importante è un saggio di Gustavo Costa3, il quale collega alla tradizione europea lo sviluppo, da parte di Vico, del concetto di fantasia. L'autore considera la meditazione vichiana sul tema a partire dalle Orazioni Inaugurali fino alla Scienza Nuova. Da questa indagine risulta come Vico si avvicini prima al concetto di fantasia che aveva sviluppato Malebranche, per poi allontanarsene progressivamente e avvicinarsi, nel De Ratione, a Bacone. Infine, è negli anni che portano all'elaborazione della Scienza Nuova, che riguardo al tema della fantasia, si ha, se non l'adesione, la conoscenza approfondita di quegli autori che venivano accostati al libero pensiero europeo. Scrive, infatti, Costa che «soltanto da una “filosofia empia”, […] poteva suggerire a Vico l'idea della fecondità delle barbarie, intesa come preminenza delle passioni e della fantasia sulla ragione, che si pone in diretto rapporto con una sovrabbondanza di energie puramente fisiche e sensuali»4.

In generale, questi studi sono stati i semi di un dibattito che si è sviluppato a pieno nei primi anni del nuovo millennio. A tal proposito bisogna guardare al lavoro di Manuela Sanna5 che ha sviluppato e raccolto tale meditazione in un lavoro che ha saputo dare nuova linfa alla critica vichiana. Il suo libro, infatti, è uno dei capisaldi sul tema della fantasia, in quanto non si limita a indagare lo sviluppo del tema nella Scienza Nuova, ma considera la questione per quanto riguarda l'intera produzione vichiana. Questo lavoro risulta essere molto importante, a mio modo di vedere, non solo per il motivo suddetto, ma anche perché è a partire da questi anni, che la quasi totalità della critica vichiana accetta la stretta connessione tra i temi delle cosiddette opere giovanili e quelli della maturità. Infatti, prima si tendeva a separare il pensiero vichiano in due rami: da un lato, quello che inizia con le prolusioni accademiche e che si ferma al De

Antiquissima, dall'altro, un secondo ramo totalmente distinto dal primo che inizia con il Diritto Universale e finisce con le tre edizioni della Scienza Nuova6. Invece, nel suo libro Sanna mostra come in tutto il pensiero vichiano sia sempre centrale il ruolo

3 Mi riferisco a G. Costa, Genesi del concetto vichiano di fantasia, in Phantasia-Imaginatio. V colloquio internazionale, a cura di M. Fattori e M. Bianchi, Edizioni dell'Ateneo, Roma 1988, pp. 309-365.

4 Ivi, p. 355.

5 Le varie produzioni dell'autrice, da sempre molto incentrate sull'analisi di questo tema, hanno trovato sbocco in un importante volume: M. Sanna, La “Fantasia che è l'occhio dell'ingegno”. La questione della verità e della sua rappresentazione in Vico, Guida, Napoli 2001.

6 È necessario sottolineare che la convinzione che ci fosse una continuità nell'intera opera vichiana era già stata portata avanti a partire già dagli anni '60 soprattutto da Badaloni, il quale fin dai suoi primi lavori su Vico (Id., Introduzione a G.B. Vico, Feltrinelli, Milano 1961) ha sempre insistito su questa idea, trovando però l'ostilità di gran parte degli studiosi italiani (primo fra tutti P. Rossi).

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dell'immaginazione per la questione della verità. Interessante, in questo caso, è anche l'utilizzo, da parte dell'autrice, delle Epistole, importante strumento per osservare come si sviluppi la meditazione vichiana anche nella relazione con le persone con cui era in contatto.

Però, il limite di tale lavoro è che tende a mettere in secondo piano alcuni aspetti del

Liber Metaphysicus, considerandolo solo quando in esso si parla delle facoltà umane.

Questo fa sì che vengano lasciati fuori delle questioni essenziali, per il tema della verità, che sono al centro dell'opera del 1710. Mi riferisco in particolare alla teoria dei punti metafisici, a quella del conatus e al rapporto tra geometria sintetica e analitica. In questo modo, viene tralasciato l'aspetto prettamente metafisico che è invece il punto di partenza della filosofia vichiana.

Tale tema è stato maggiormente sviluppato da due autori: Stephan Otto e David R. Lachterman. Quest'ultimo, in due densi articoli7, analizza in modo ineccepibile il tema della matematica in Vico. Entrambi i lavori presentano tematiche simili, ma nel primo studio si svolge un confronto tra Vico e Doria, amico personale di Vico, a cui, tra l'altro, è dedicato il De Antiquissima. Questo primo lavoro ha il merito, quindi, di mettere in rapporto due autori che si sono influenzati a vicenda. Il secondo, invece, con una grande capacità ermeneutica dei testi vichiani e con altrettanta chiarezza, analizza il pensiero matematico del solo Vico. Il suo articolo si divide in tre parti principali. La prima è dedicata alla teoria dei punti metafisici e dei corrispettivi punti geometrici. Questi ultimi sono l'unica creazione umana in grado di far comprendere alla mente come Dio attraverso il punto metafisico generi la natura. La seconda parte, dedicata al ruolo didattico della matematica, spiega il motivo della preferenza di Vico per la geometria sintetica invece che per quella analitica. Nella terza ed ultima parte si mostra brevemente come il paradigma matematico del De Antiquissima possa essere scorto in alcune punti cardine della Scienza Nuova, cioè per la questione dell'ordine e per la storia ideale eterna che agisce sulla mente umana secondo quel principio del “dovette, deve, dovrà”.

In generale, il tema sviluppato da Lachterman risulta oggi un po' ai margini del dibattito sul filosofo napoletano e, invece, sarebbe meritevole di un maggiore approfondimento,

7 D. R. Lachterman, Vico, Doria e la geometria sintetica, in «BCSV», X, 1980, pp. 10-35 e Id., Mathematics and Nominalism in Vico's Liber Metaphysicus, in Sachkommentar zu Giambattista Vicos Liber Metaphysicus, a cura di S. Otto e H. Viechtbauer, München 1985, pp. 47-85.

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sia per l'argomento in sé, che ha una certa importanza nella filosofia di Vico, sia per quanto riguarda le fonti che lo hanno influenzato.

Come detto sopra, anche da parte di Stephan Otto sono stati fatti degli studi molto importanti sulla metafisica vichiana8. Egli parte dalla teoria dei punti metafisici e del

conatus del Liber Metaphysicus, facendo di questi le strutture portanti su cui viene

costruita la Scienza Nuova. Inoltre, attraverso questa interpretazione, l'autore allarga molto l'orizzonte della filosofia di Vico, instaurando confronti sia con Kant e con Hegel. Confronti che, va detto, sono ben lontani da quelli che, riprendendo Croce, risentono di una interpretazione storicistica9.

A mio modo di vedere, le diverse indagini ora presentate hanno contribuito in maniera decisiva ad allargare il panorama dell'indagine su Vico e, di conseguenza, sono elementi di confronto necessari per lo sviluppo di questa tesi. Questo studio, infatti, vuole mostrare, all'interno dell'intera produzione filosofica vichiana, il rapporto che intercorre tra la mente e il corpo e tra le facoltà ad essi riferibili.

Andando brevemente nel dettaglio della struttura della tesi, essa è suddivisa in quattro capitoli con l'aggiunta di un'appendice. Nel primo si indaga il concetto del

verum-factum, dopo averne brevemente illustrato gli antecedenti nella storia della filosofia

precedente a Vico. L'analisi, qui, si limita ad illustrare come tale principio venga sviluppato nella prima parte del Liber Metaphysicus. Si indagano i vari significati che il

verum-factum assume nella filosofia vichiana e anche quali siano i caratteri che lo

differenziano dal cogito di Cartesio. Al rapporto con il filosofo francese, limitandosi alla sola questione del primo vero, viene dedicato un paragrafo che ha il compito di chiarire quali siano le basi che portano il filosofo napoletano a prendere le distanze da Cartesio riguardo al tema dell'io penso. Infine, sempre sul verum-factum, lo iato insanabile che Vico pone tra conoscenza divina e umana, offre l'occasione di soffermarci sul tema della matematica. Quest'ultima è per Vico la disciplina che eccelle al di sopra delle altre, poiché non può mai essere falsa ed è per questo che assume, per l'autore, un carattere

8 Tra i molti lavori dell'autore cito solamente S. Otto, Giambattista Vico. Grundzüge seiner Philosophie, Stuttgart-Berlin-Köln 1989; trad. it. a cura di M. Romano e S. Caianiello, Giambattista Vico. Lineamenti della sua filosofia, Guida, Napoli 1992. Nei riferimenti bibliografici della presente opera si ritrovano tutti gli altri lavori di Otto.

9 «Nessuno vorrà peraltro disconoscere, per fare un solo rapido esempio, il valore degli studi vichiani di Stephan Otto, i quali da un lato si valgono con pieno diritto di strumenti ermeneutici hegeliani oltre che kantiani, in una prospettiva diversa da quella di Piovani, e dall'altro non si iscrivono, così mi pare, in una prospettiva storicistica» (P. Cristofolini, Discutendo Vico, «Historia Philosophica. International Journal», 2, 2004, pp. 139-151).

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divino. Inoltre essa, grazie alla teoria dei punti metafisici, diventa la sola a poter collegare tra di loro il mondo metafisico e quello fisico, poiché fa comprendere agli uomini il processo attraverso cui Dio crea il mondo.

Nel secondo capitolo l'analisi è rivolta alle facoltà umane e al modo in cui esse possono essere sviluppate nel modo migliore, grazie alle loro arti regolatrici. Per questo motivo, la parte centrale del capitolo è dedicata al rapporto tra topica e critica, o geometria sintetica e analitica. La loro relazione è studiata, prima di tutto, a partire dalle prolusioni accademiche. Si indaga, quindi, il problema prettamente didattico della questione, che viene sviluppato tra la fine del '600 e i primi dieci anni del '700. Si vede, in questo caso, la preferenza per il metodo sintetico, in cui a risultare centrale è il ruolo giocato dalla fantasia e dal verosimile. Questi diventano le questioni principali che stanno alla base di una buona educazione, perché solo con il loro sviluppo i giovani possono accrescere e sviluppare in maniera corretta la loro conoscenza. Dopo questo, si ritorna di nuovo alla metafisica e a come in essa, il rapporto tra sintesi e analisi, subisca un necessario mutamento dovuto al carattere e alla finalità del De Antiquissima. Infine, dopo quello del primo capitolo, si ha un altro approfondimento sul rapporto tra Vico e Cartesio, incentrato stavolta sul tema del metodo sintetico e analitico.

Nel terzo capitolo si passa a indagare il rapporto tra mente e corpo nella chiave dinamica della Scienza Nuova. Si mostra, prima, il carattere genetico dell'opera attraverso una breve panoramica del concetto di conatus dal De Antiquissima fino all'opera principale dell'autore. Nell'opera metafisica di Vico, infatti, il conato è inteso come impulso al moto, ma nelle opere successive (in particolar modo nel Diritto

Universale e nella Scienza Nuova) esso acquista un significato più ampio, poiché

diventa il primo impulso che porta i giganti a riappropriarsi della propria mente. Si passa poi a indagare come i primi modi di conoscenza e anche il linguaggio siano legati essenzialmente alle funzioni del corpo. Sottolineando come Vico esponga la conoscenza umana all'interno di un percorso evolutivo, si cerca di far comprendere come tali conoscenze si sollevino dal loro carattere sensibile per diventare sempre più astratte. L'ultima parte di questo capitolo è incentrata sul rapporto tra la mente e la storia, spazio all'interno del quale la mente compie i propri progressi.

Nel quarto capitolo il rapporto tra la mente e il corpo è considerato in rapporto alla filosofia politica di Vico. Infatti, il tema politico nel filosofo napoletano è

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contraddistinto, come gli uomini, dallo stesso carattere evolutivo e, perciò, può essere visto anche in quest'ottica. In primo luogo, si analizza il tema del ius, esposto nel Diritto

Universale: come il passaggio dal diritto primo a quello secondo non sia altro che lo

spostamento da un diritto che ha a che fare con il corpo a uno che scaturisce dalla mente. In secondo luogo, facendo maggior riferimento alla Scienza Nuova, si esamina come il suddetto rapporto sia estendibile anche alla teoria delle forme di governo.

Infine, nell'appendice viene sviluppato un confronto tra Vico e Spinoza. Prima di tutto si analizzano i punti espliciti in cui il filosofo napoletano cita, sempre criticandolo, quello olandese. Poi, si passa ai motivi impliciti che mettono in contatto i due. Per quest'ultimo punto l'indagine è incentrata soprattutto sulla teoria dell'immaginazione di Spinoza, attraverso la quale, con risultati simili a quelli che successivamente saranno ottenuti da Vico, il filosofo olandese dà al corpo e alle sue facoltà un ruolo centrale nel raggiungimento della conoscenza adeguata.

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CAPITOLO PRIMO

Il verum-factum come principio ontologico

1. Il verum-factum prima di Vico

Nell'analizzare il verum ipsum factum di Vico può essere utile mostrare brevemente le sue linee di sviluppo precedenti1. Da un lato il principio è sviluppato nella filosofia vichiana con una forte originalità per i vari livelli concettuali che esso presenta in tutta la meditazione del filosofo; dall'altro, ha formulazioni antecedenti a quella dello stesso Vico e perciò non rappresenta una vera e propria novità nel panorama filosofico.

Si può dire che questo principio ha origine nell'antica Grecia con la distinzione tra homo

sapiens, indirizzato verso l'attività contemplativa e la scienza pura, e l'homo faber,

orientato invece verso una attività pratica e produttiva. In principio, nella cultura greca, il sapere si configura in rapporto a un saper fare inteso come un saper produrre. È il progresso della techne che permette all'uomo greco di cambiare la propria mentalità e abbandonare con il tempo i racconti mitici della successione delle diverse età umane governate dagli dèi, per mettere al centro l'uomo (spesso nella figura di Prometeo) e le sue decisive qualità nello sviluppo della condizione umana. Ma solo dopo aver raggiunto un adeguato benessere economico, a cui corrisponde anche un miglioramento delle condizioni di vita e soprattutto una migliore organizzazione politica, si arriva ad una vera e propria indagine sulla techne.

Una delle prime trattazioni sulla tecnica e in particolar modo sull'arte medica è quella fatta dalla scuola ippocratica, la quale aveva assimilato le tecniche ai processi naturali con la differenza che questi ultimi non possono essere davvero conosciuti perché «il pensiero degli dèi insegnò loro ad imitare le proprie funzioni sapendo ciò che fanno ma senza sapere ciò che imitano»2. Quindi l'uomo conosce solo ciò che fa e nel caso imiti i processi naturali, non li conosce. Il fare umano non è un procedere a caso, ma è un fare

1 Su questo tema si vedano in particolare i lavori di R. Mondolfo, Il «verum-factum» prima di Vico, Guida, Napoli 1969; M. Martirano, Vero-Fatto, Guida, Napoli 2007; J. M. Sevilla Fernandez, L'argomentazione storica del criterio verum-factum. Considerazioni metodologiche, epistemologiche e ontologiche, in «BCSV», XVI (1986), pp. 307-323.

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coscienzioso, raggiunto attraverso un progresso delle conoscenze che permette a chi esercita un'arte di sapere cosa è giusto o sbagliato. «Perché proprio questo io definisco l'assenza di un'arte, il non esserci né il corretto né il non corretto: ma un agire nel quale entrambi siano presenti, non esce più dall'ambito dell'arte»3. È importante comprendere che questo conoscere il corretto e lo scorretto viene raggiunto attraverso un procedimento logico che oggi potremmo definire metodo sperimentale: «perché da una profonda ignoranza essa [l'antica medicina] è giunta vicinissima alla certezza per forza logica, si debbono ammirare le sue scoperte, che sono state conquistate in modo giusto e corretto, e non secondo l'accidentalità del caso»4. Da un lato il medico ha consapevolezza perché viene educato e attraverso fatti e fenomeni osservabili effettua una determinata cura basata su determinate previsioni. Dall'altro lato il paziente si rivolge al possessore della tecnica medica in quanto lo ritiene capace di operare positivamente in quel determinato ambito5.

Si può vedere da questo esempio come nella cultura greca il sapere sia un saper fare, dove questo fare è connesso all'attività pratica, quindi in questo caso homo sapiens e

homo faber sono legati tra loro. Allo stesso modo in cui il conoscere è un fare vale

anche la concezione inversa che fa corrispondere il fare al conoscere. In poche parole:

verum et factum convertuntur.

Nei dialoghi platonici la techne è considerata molto positivamente in quanto permette di sapere ciò che è giusto fare (basti pensare all'elogio dei tecnici che Socrate fa nell'Apologia). Questa però viene con il tempo messa in secondo piano in quanto ogni tecnico è capace di agire nel proprio ambito di competenza ma non è in grado di fare altrettanto quando deve deliberare su qualcosa a lui estraneo, come la politica (sarà proprio la condanna di Socrate con i voti decisivi di molti dei tecnici da lui tenuti molto in considerazione a portare Platone a ragionare sui limiti delle tecniche cercando di individuare una tecnica sopra le altre). Tralasciando quest'ultimo problema, in molti dialoghi platonici le tecniche sono esemplificazioni di un sapere che, per essere tale, deve essere delimitato. Un sapere è tale perché ha un campo di competenza; questo è il criterio che permette di distinguere un “vero” tecnico da uno soltanto presunto.

Tra i dialoghi platonici più importanti per la trasmissione del principio del vero e del

3 Ippocrate, De arte, c. 5, in ivi, p. 464.

4 Ippocrate, Antica medicina, c. 12, in ivi, p. 173.

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fatto fino a Vico, e soprattutto per la divisione ontologica che il filosofo napoletano attuerà tra verum-factum divino e umano, si può senz'altro citare il Timeo, opera tra le più influenti nella filosofia occidentale. In questo dialogo si distingue tra il fare del demiurgo, il «più perfetto degli esseri intelligibili» (37a), che nel creare il mondo guarda a un modello eterno e il fare umano che è simile all'attività divina, in quanto l'uomo nel suo creare segue l'idea che ha nella propria anima. Questi due tipi di fare sono simili, ma non identici, in quanto Dio crea tutte le creature mortali, l'uomo invece attua un'attività mimetica creando rappresentazioni e producendo apparenze. La figura centrale del demiurgo porta a una forte svalutazione del rapporto tra virtù e tecniche, presente in molti dialoghi, inclinando il piatto della bilancia dalla parte della tecnica divina rispetto a quella umana. Tutto è subordinato al demiurgo in quanto l'uomo è inserito in un ordine che non ha prodotto: «il sapere umano, adeguandosi all'ordine divino, perfettamente espresso nel mondo degli astri, si muove all'interno del sapere divino»6.

Questa trattazione verrà rielaborata da Plotino, che con le sue tesi influenzerà fortemente le teorie filosofiche a lui posteriori. Plotino oppone nettamente il creare divino e quello umano, l'attività di Dio è infatti indipendente da ogni progettualità e decisione, non ha scopo. Tra l'altro quello di Dio non è nemmeno un creare ma un generare e inoltre egli, in quanto onnisciente, può conoscere tutte le cose. L'uomo generato da Dio è capace di una sorta di attività demiurgica, ma questa è in lui ridotta in quanto egli non può accedere ai livelli ultimi della realtà.

Nella filosofia medievale si tenderà a ribadire questa distinzione sulla scia del Timeo platonico. In Agostino, ad esempio, solo il fare divino è un vero creare mentre l'uomo è capace di esprimere giudizi validi grazie alla presenza della verità illuminante di Dio che è in lui. In generale si cerca comunque di riabilitare la conoscenza umana nonostante la sua distanza da Dio. L'uomo conosce in maniera limitata e parziale solo se attua un'indagine delle cause delle cose, provando così a coglierne la natura, anche se mai l'uomo riuscirà a penetrare nella natura assoluta delle cose.

L'identità tra fare e conoscere sarà ribadita anche da molti autori del Rinascimento con cui Vico ebbe sicuramente a che fare. Uno di questi è Marsilio Ficino: il quale, fa notare Mondolfo7, aveva probabilmente ripreso il principio del verum-factum dallo studio di

6 G. Cambiano, op. cit., p. 219. 7 R. Mondolfo, op. cit., pp. 23-26.

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Filone di Alessandria e del suo Quod Deus sit immutabilis8. Da un lato Ficino esalta le capacità conoscitive dell'uomo, dall'altro lato ribadisce la sua limitatezza in confronto a Dio. «Che cos'è l'arte umana? Una sorta di natura che opera sulla materia dall'esterno. Che cos'è la natura? Un'arte che ordina la natura dall'interno, come se il falegname ligneo fosse all'interno del legno»9. L'arte umana non è altro che un'attività superficiale. Solo la natura, in quanto si trova all'interno delle cose, può conoscere in maniera consapevole le cose che fa. L'azione umana, perfetta nella geometria, poiché il geometra disegnando le figure ne mette in opera le ragioni e così le conosce in quanto autore, non lo è altrettanto nelle cose della natura, chiaramente non create da lui. Ma anche qui si apre la possibilità di una conoscenza sperimentale della natura attraverso il ritrovamento della materia e degli strumenti tecnici:

Una cosa va in primo luogo sottolineata, che non tutti sono in grado di discernere con quale metodo o in quale modo sia stata compiuta l'opera realizzata ad arte da un abile artefice, ma soltanto chi possiede la medesima capacità artistica. Nessuno, infatti, potrebbe discernere il metodo seguito da Archimede per realizzare le sfere di bronzo e trasmettere ad esse movimenti simili a quelli celesti, se non fosse dotato della medesima capacità. Ma chi possiede tale capacità e fosse quindi in grado di capire [il metodo seguito da Archimede], di certo potrebbe costruire le medesime sfere, in quanto sa come fare, purché abbia a disposizione la materia adatta. Dunque, dal momento che l'uomo conosce l'ordine che regola il movimento dei cieli, il fine e le misure esatte di tale moto e gli effetti che produce, chi potrebbe negare che egli abbia, per così dire, quasi la stessa capacità che possiede anche l'autore dei cieli e sia dunque in grado di creare i cieli, avendo a disposizione gli strumenti e la materia celeste […]?10

Attraverso Ficino si vede come l'uomo cominci a essere consapevole delle forze che governano il mondo e possa, attraverso il proprio ingegno, conoscere e fare determinate cose. «La conoscenza vera della natura si può conquistare nei limiti in cui si raggiunga non solo l'intelligenza delle ragioni, ma anche il possesso della materia e degli strumenti per metterla in opera»11.

Per Cardano, a differenza di Ficino, non ci può essere conoscenza della natura in quanto l'uomo non può raggiungere la sostanza delle cose, ma si ferma alla superficie. «Invece

8 Scrive infatti Filone che «le realtà generate sono conosciute da chi dà loro vita; le realtà prodotte sono conosciute da chi le produce mediante la sua arte; e infine chiunque stabilisca un ordine ha anche conoscenza del medesimo» (Quod deus sit immutabilis, VI, 30). Come fa notare Mondolfo (op. cit., p. 15n), la trattazione di Filone è volta non tanto verso l'aspetto positivo dell'attività creativa ma al suo lato negativo, cioè come allontanamento dai beni inferiori, i quali impediscono di dedicarsi a Dio. 9 M. Ficino, Theologia platonica, Bompiani, Milano 2011, libro IV, cap.I, p. 247.

10 Ivi, libro XIII, cap. III, pp. 1231-1233. 11 R. Mondolfo, op. cit., p. 29.

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la scienza della mente che fa le cose è quasi la cosa stessa, come anche nelle cose umane la scienza del triangolo, che abbia tre angoli uguali a due retti, è certo identica alla stessa verità: onde è evidente che la scienza naturale è di altro genere che la scienza vera in noi»12. La matematica, dice quindi Cardano in modo simile a quello che farà Vico, è una produzione della mente umana che è creata dal nulla attraverso un processo di astrazione. Inoltre questa scienza si contrappone alla scienza fisica che rimane inaccessibile all'uomo.

È a partire da queste tesi che il discorso inizia a spostarsi sulla verità come ciò che si fa grazie alle scienze matematiche, le quali permettono un accesso più o meno totale alla natura. Si giunge a una rivalutazione della conoscenza sensibile in quanto capace di costituire una certezza scientifica. È grazie alla rivoluzione scientifica che si inizia a vedere un nuovo concetto di sapere che ha come principale bersaglio Aristotele ed è contro di lui che ci si scaglia, ritornando alle idee di Pitagora, di Democrito e Platone, per fondare un nuovo tipo di scienza che getta un ponte tra il mondo sensibile e il mondo intelligibile. Già con Cardano, come si è visto, la matematica come ciò che viene fatto, in quanto astrazione della mente umana, è collegata al vero. In quest'ottica si muoveranno le successive trattazioni del problema a partire da Galilei.

Quest'ultimo però, a differenza di Cardano, considera il libro della natura scritto in caratteri matematici. Perciò attraverso la matematica l'uomo può conoscere la natura ed in questo modo si riduce di molto la distanza tra la conoscenza umana e quella divina:

L'intendere si può pigliare in due modi, cioè intensive o vero extensive: e […]

extensive, cioè quanto alla moltitudine degli intelligibili, che sono infiniti,

l'intender umano è come nullo, quando bene egli intendesse mille proposizioni, perché mille rispetto all'infinità è come un zero; ma pigliando l'intendere intensive, in quanto cotal termine importa intensivamente, cioè perfettamente, alcuna proposizione, dico che l'intelletto ne intende alcune così perfettamente, e ne ha così assoluta certezza, quanto se n'abbia la stessa natura: e tali sono le scienze matematiche pure, cioè la geometria e l'aritmetica, delle quali l'intelletto divino ne sa bene infinite proposizioni di più, perché le sa tutte, ma di quelle poche intese dall'intelletto umano credo che la cognizione agguagli la divina nella certezza obiettiva, perché arriva a comprendere la necessità, sopra la qual non par che possa essere sicurezza maggiore13.

Mentre la conoscenza extensive è impossibile in quanto si ha a che fare con gli

12 G. Cardano, Tractatus de arcanis aeternitatis, cap. IV, citato in R. Mondolfo, op. cit., p. 40.

13 G. Galilei, Dialogo sopra i massimi sistemi del mondo in Id., Le Opere, Edizione nazionale, Barbèra, Firenze 1890-1909, vol VII, pp. 128-129.

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intelligibili che possono essere anche infiniti, nell'intendere intensive, che è secondo perfezione, si ha assoluta certezza. Come detto prima, c'è però una distinzione tra la conoscenza divina, che si attua attraverso un'intuizione immediata, e conoscenza umana che invece «procede con discorsi e con passaggi di conclusione in conclusione»14. Come dice giustamente Mondolfo15, si ha qui la conversione del vero con il fatto nella matematica umana, poiché questa è creata dall'uomo attraverso passaggi e dimostrazioni. È nella formulazione del metodo sperimentale che si coglie la vicinanza tra Galilei e Vico, ribadita tra l'altro dallo stesso filosofo napoletano che si proclamerà discepolo dello scienziato pisano. Affinità ma anche distanza, come avremo modo di vedere, nelle diverse conclusioni a cui porta la medesima premessa. Infatti, mentre per Vico non si può avere conoscenza completa della natura poiché si ha una distanza incolmabile tra Dio e uomo, in Galilei l'intendere intensive porta ad assimilare conoscenza umana e divina, per cui «il matematico, nella misura in cui conosce con necessità le sue verità, non solo non imita Dio; non ha neppure nulla da invidiargli»16. In Hobbes si può invece leggere un brano che sembra precorrere in tutto e per tutto il

verum-factum vichiano non solo dal punto di vista epistemologico, ma anche da quello

della filosofia civile:

Delle arti, alcune sono dimostrabili, altre indimostrabili; e dimostrabili sono quelle in cui la costruzione dell'oggetto d'indagine è in potere dell'artista stesso, il quale, nel corso della sua dimostrazione, non fa altro che dedurre le conseguenze della sua personale operazione. La ragione è che la scienza di ogni oggetto deriva da una precognizione delle cause, della generazione e della costruzione del medesimo; e, di conseguenza, dove le cause sono conosciute v'è posto per la dimostrazione, ma non ve n'è là dove le cause sono da ricercare. Pertanto la geometria è dimostrabile, poiché le linee e le figure a partire dalle quali ragioniamo sono tratte e descritte da noi stessi; e la filosofia civile è dimostrabile, perché noi stessi facciamo la comunità. Tuttavia dal momento che non conosciamo la costruzione dei corpi naturali, ma la ricerchiamo negli effetti, non si può affatto dimostrare quali siano le cause da noi ricercate, ma soltanto quali possano essere17.

Questa formulazione include nelle arti dimostrabili tutte quelle che l'artista ha in potere di fare attraverso le sue dimostrazioni ed esclude quelle che non può fare e che, ed è lo stesso, non può concepire con la propria mente in quanto non ha cognizione delle cause.

14 Ibidem.

15 R. Mondolfo, op. cit., pp. 45-53.

16 A. Ferrarin, Galilei e la matematica della natura, ETS, Pisa 2014, p. 32.

17 T. Hobbes, Six lessons to the Professors of the Mathematics, Id., The English Works of Thomas Hobbes of Malmesbury, ed. by W. Molesworth, London 1839, Vol. VII, p. 183.

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Attraverso questo metodo si lasciano fuori dalla conoscenza umana i corpi naturali poiché non sappiamo come vengono prodotti. Al contrario geometria e filosofia civile, così come dirà anche Vico nel De Antiquissima e nella Scienza Nuova, sono dimostrabili in quanto siamo noi a farle. Della geometria noi possiamo dimostrare le cause e perciò possiamo conoscerla poiché siamo noi a disegnare le figure e le linee da cui partono le nostre dimostrazioni. Perciò «che la geometria sia ritenuta e sia dimostrabile dipende dal fatto che noi stessi creiamo le figure»18. Questo non vuol dire che la realtà empirica non può essere conosciuta poiché Hobbes, da buon discepolo di Galilei, crede che per fondare una conoscenza di questo tipo sia necessario mettere in pratica un rigoroso metodo deduttivo. Un'indagine sulla natura è concepibile solo come indagine delle sue possibilità, nel senso che non si può avere la pretesa, in fisica, di conoscere con certezza le cause dei fenomeni, ma solo indicare quelle più probabili.

Si può trovare una forte affinità tra la tesi della logica di Hobbes e i tratti essenziali del

Trattato sull'emendazione dell'intelletto di Spinoza. Entrambi affermano che noi

possiamo capire solamente ciò che è prodotto dal nostro intelletto, perciò «una scienza della natura esterna, e così pure della realtà politica e sociale, è possibile […] quando facciamo sorgere da principi di pensiero originari un determinato complesso di problemi e di fatti»19; per cui scrive Spinoza:

Per svolgere questa indagine osserviamo qualche idea vera, il cui oggetto sappiamo con la massima certezza dipendere dalla nostra capacità di pensare, non esistendo in natura: in tale idea, come appare evidente da ciò che è stato detto, potremo investigare più facilmente ciò che vogliamo. Ad esempio, per formare il concetto di sfera fingo a piacere una causa, ossia che un semicerchio ruoti intorno al centro e che dalla rotazione nasca per così dire la sfera. Certamente quest'idea è vera e, benché sappiamo che in natura nessuna sfera è mai nata così, questa è tuttavia una percezione vera e è un modo facilissimo di formare il concetto di sfera20.

Anche se questo passo va inserito in un contesto metafisico diverso da quello hobbesiano si può vedere come anche nel caso in questione la verità abbia a che fare con ciò che è prodotto interamente dall'intelletto umano poiché solo in questo caso siamo noi a fare, a concepire l'oggetto come nel caso della sfera.

Attraverso questo breve excursus si è visto come il criterio di convertibilità di vero e

18 T. Hobbes, De homine, X, 5, trad. it.a cura di A. Pacchi, Laterza, Roma-Bari 1984, p. 114.

19 E. Cassirer, Das Erkenntnisproblem in der Philosophie und Wissenschaft der neuen Zeit, 1909, trad. it. a cura di A. Pasquinucci, Storia della filosofia moderna, Einaudi, Torino 1952, vol. II, tomo I, p. 123. 20 B. Spinoza, Trattato sull'emendazione dell'intelletto, § 72, in id. Opere, a cura di F. Mignini,

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fatto sia presente in vari modi nella storia della filosofia anteriore a Vico. Quest'ultimo si inserisce in questa tradizione e sviluppa il proprio principio, più o meno consapevolmente, a partire dalle analisi precedenti. Come si vedrà fin da subito il filosofo napoletano, a differenza degli autori precedenti che tendevano a privilegiare un aspetto soltanto del verum-factum, svilupperà questo criterio su vari livelli mettendolo così al centro della sua metafisica.

2. Il verum-factum in Vico

Nella conclusione del suo Liber Metaphysicus Vico traccia in un capoverso i punti fondamentali che la sua metafisica ha messo in luce. Questo poche righe mostrano come il principio del verum-factum, su cui è impostato tutto questo trattato vichiano, possa essere concepito almeno sotto tre differenti aspetti, che nel corso dell'opera vanno ad intersecarsi tra di loro. Si può parlare del verum-factum come:

a) Criterio gnoseologico o epistemologico, infatti questa è «una metafisica degna

dell'umana limitatezza, che certo non permette all'uomo di raggiungere tutte le verità né gli nega di conoscerle tutte, ma magari qualcuna sì».

b) Principio ontologico, o come direbbe Löwith21 onto-teologico, poiché è «una metafisica conforme alla religione cristiana, che distingue il vero divino dal vero umano e pone la scienza divina come regola di quella umana e non viceversa».

c) Criterio metodologico o didattico che pone la «metafisica a servizio della

fisica sperimentale, che ora viene studiata con profitto considerevole dal genere umano, dal momento che grazie ad essa riconosciamo come vero in natura quello che possiamo riprodurre tramite esperimenti»22.

Questa divisione non si vuol porre come assoluta: infatti, come già accennato poco fa, i vari criteri individuati si intersecano tra di loro e, a mio avviso, il ruolo di raccordo tra i

21 K. Löwith, «Verum et factum convertuntur»: le premesse teologiche del principio di Vico e le loro conseguenze secolari, in P. Piovani (a cura di), Omaggio a Vico, Morano, Napoli 1968, pp. 73-112. 22 De Antiquissima, p. 143. Anche Sevilla Fernandez nel suo saggio (L'argomentazione storica del

criterio verum-factum, op. cit.) parla di una divisione del verum ipsum factum dividendolo però secondo quattro differenti aspetti. Ai tre sopra indicati aggiunge anche il principio genetico che credo possa essere inserito nel criterio gnoseologico in quanto per Vico il conoscere corrisponde a una conoscenza delle cause in quanto c'è sapere e perciò verità solo se sappiamo come una cosa viene fatta e quindi come essa nasce. Ecco quindi che il principio genetico rientra tranquillamente nel verum-factum come criterio gnoseologico.

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tre è dato dal primo (criterio gnoseologico), in quanto è l'uomo, inteso e studiato per le sue capacità conoscitive insieme a tutto ciò che ne consegue, ad essere al centro dell'intera filosofia vichiana e non solo del trattato del 1710.

Focalizzando l'analisi sul De Antiquissima, si vede come il secondo e il terzo criterio siano da Vico inseriti nel discorso in rapporto al primo. Infatti, da una parte, all'inizio dell'opera viene trattata la differenza che c'è tra la conoscenza divina e quella umana per arrivare a parlare del facere umano e del suo rapporto con il vero; dall'altra parte, il criterio gnoseologico viene definito anche in rapporto a quello metodologico che è fatto derivare dal primo e perciò vengono analizzate le facoltà della mente umana, di come questa conosce e astrae e di come le sue capacità vengono messe in atto. Per riassumere, si possono desumere dalla tripartizione precedente due linee di indagine: la prima che vede l'accostamento tra i punti a e b, la seconda che vede l'unione tra i punti a e c. È quindi indubitabile che la teoria del verum-factum sia il nucleo centrale dell'intero

Liber Metaphysicus da cui si diramano le varie tematiche trattate nell'opera. D'altronde è

lo stesso Vico che dà fondamento a questa tesi quando nell'incipit dell'ultimo capitolo scrive che «abbiamo fin qui discusso di verum e factum»23.

In questo primo capitolo verrà analizzata la definizione del principio vichiano e delle limitazioni che il filosofo pone alle capacità umane rispetto all'infinita potenza di Dio e di come si possa creare un collegamento tra mondo metafisico e mondo fisico attraverso la matematica intesa come verità più alta che l'uomo è in grado comporre in quanto totalmente staccata dal mondo corporeo. Successivamente si analizzeranno le facoltà umane e il tipo di conoscenza che è preferibile per l'uomo. Qui si ritornerà di nuovo sulla matematica (geometria sintetica) come metodo educativo migliore in quanto solo con essa si può veramente progredire nella conoscenza.

Fin dall'inizio il vero come corrispondente a ciò che viene fatto è indagato ponendo una differenza tra vero secondo Dio e vero secondo l'uomo. Si crea da subito uno iato incolmabile tra vero divino e vero umano. Solo a Dio appartiene l'intelligenza, cioè la capacità di leggere tutti gli elementi di una cosa, siano questi intrinseci o estrinseci, poiché solo lui in quanto primo vero e primo facitore, può contenerli e disporli tutti. L'uomo non potrà mai cogliere gli elementi di una cosa, ma dovrà accontentarsi di

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coglierne solo gli aspetti esteriori. È per questo che si dice che gli uomini partecipano della ragione, ma non possono esserne padroni e quindi per essi si parla di pensiero e non di intelligenza. Per usare le parole di Vico: «il vero divino è l'immagine solida delle cose, come una creazione di rilievo, mentre il vero umano è un monogramma o un'immagine piana, quasi una pittura»24. Questa differenza è data anche dal fatto che il

verum di Dio non è corrispondente a un factum e viceversa, ma è equivalente a un genitum. Infatti subito dopo la distinzione tra immagine solida delle cose e

monogramma Vico dice che «il vero divino è quello che Dio dispone e genera nel momento stesso in cui conosce, così il vero umano è quello che l'uomo compone e fa mentre apprende»25. Questo concetto verrà ribadito e meglio argomentato nella prima Risposta al Giornale de' Letterati d'Italia del 1711:

perché i filosofi della cieca gentilità stimarono il mondo eterno ed Iddio sempre operante ad extra, essi convertivano assolutamente il vero col fatto. Ma perché noi il credemo creato in tempo, dobbiamo prenderlo con questa distinzione: che in Dio il vero si converta ad intra col generato, ad extra col fatto; e che egli solo è la vera intelligenza, perché egli solo conosce tutto, e che la divina Sapienza è il perfettissimo Verbo, perché rappresenta tutto, contenendo dentro di sé gli elementi delle cose tutte, e, contenendogli, ne dispone le guise o siano forme dall'infinito, e, disponendole, le conosce ed in questa sua cognizione le fa26.

Si ha qui una presa di posizione contro la filosofia degli antichi che equiparava vero e fatto senza porre uno scarto tra fatto divino ed umano. Vico invece rivendica l'integrità cristiana del suo principio parlando di fatto in Dio non solo come vero che si converte

ad extra cioè come creato, ma anche come vero che ad intra, cioè increato, è convertito

con il generato27. Il genitum non è altro che la sapienza divina, il Verbo «che contiene in sé le idee di tutte le cose e parimenti gli elementi di tutte le idee, perché in esso il vero e la comprensione di tutti gli elementi che compongono l'universo sono la stessa cosa»28. Questa distinzione tra vero, generato e fatto che viene da Vico introdotta come principio derivato dalla religione cristiana, la quale professa “un mondo creato dal nulla nel tempo”, non è importante in quanto segno della sua ortodossia ma lo è perché libera il principio vichiano dal panteismo, poiché tra verum e factum divino viene inserita la

24 De Antiquissima, p. 17. 25 Ibidem.

26 Risposta I, p. 328.

27 Su questo tema cfr. G. Severino, Principi e modificazioni della mente in Vico, Il Melangolo, Genova 1981. In particolare pp. 14-17.

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mediazione del genitum così da separare nettamente il mondo metafisico da quello fisico.

Il mondo fisico a cui appartiene anche l'uomo è generato da Dio e solo lui ha di quello una conoscenza completa perché ha in sé tutti gli elementi delle cose. L'uomo, a cui appartiene una mente limitata, può avere una conoscenza solo superficiale e piatta delle cose e il suo modo di apprendimento non crea un sapere unitario come quello di Dio. Il sapere umano si determina più che altro come un'anatomia della natura che invece di unire tende a dividere e chiaramente conoscere per divisione porta a scoprire gli oggetti del pensiero in maniera diversa rispetto a quando essi sono uniti. L'uomo non potrà quindi raggiungere una conoscenza completa del mondo fisico perché non ha in sé gli elementi che contribuiscono a creare le cose materiali. Si vede qui, come è stato mostrato in precedenza, tutta l'influenza sul pensiero vichiano esercitata dalla scolastica e anche dal neoplatonismo rinascimentale29. Questo debito si può evincere anche dalla metafora della luce, che Vico riprende per mostrare lo scarto tra mente divina e mente umana, tra il vero corrispondente a Dio e il vero umano:

La luminosità del vero metafisico è in tutto la medesima di quella della luce, della quale abbiamo percezione solo in relazione ai corpi opachi. Se, infatti, guardiamo attentamente e per lungo tempo attraverso una finestra chiusa con delle sbarre che fanno filtrare la luce nella stanza, e subito dopo volgiamo lo sguardo su un corpo completamente opaco, non ci sembrerà di vedere la luce ma le sbarre illuminate30.

Se Dio è luce che riempie ogni spazio, l'uomo comprende la presenza di Dio nel mondo solo grazie agli oggetti, i quali, illuminati dalla luce, ce la rendono presente. Si collega a ciò, il fatto che la conoscenza umana non sarà mai una conoscenza d'insieme ma potrà essere diretta solo verso cose specifiche. L'uomo nel mettere in primo piano un oggetto è perciò costretto a tralasciare lo sfondo che lo accompagna, perché, che lo voglia o no, non può comprendere ciò di cui è partecipe in maniera unitaria. Infatti «le cose create

29 Sul debito di Vico verso il tomismo si veda C. Vasoli, Vico, Tommaso d'Aquino e il tomismo in «BCSV», IV, 1974, pp. 5-35. L'autore si sofferma soprattutto sull'influenza esercitata da Suarez su molti temi centrali del pensiero vichiano anche se per l'autore dell'articolo non si ha in Vico una filiazione diretta dalla scolastica. D'altra parte è ben nota la conoscenza da parte di Vico del pensatore spagnolo in quanto egli stesso ne parla nella sua autobiografia dicendo che «si chiuse un anno in casa a studiare il Suarez» (Vita, p.8) In contrapposizione alla tesi di Vasoli sembra andare, anche se non troppo esplicitamente, M. Lollini nel suo saggio Vico e il pensiero dell'infinito in Studi sul De Antiquissima sapientia di Vico, a cura di G. Matteucci, Quodlibet, Macerata 2002, pp. 49-68 (su Suarez in particolare pp. 57-58).

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sono dell'ente»31, mentre solo Dio è il vero ente.

Gli uomini e tutto ciò che appartiene al mondo fisico sono fatti, si potrebbe dire, a immagine contraria di Dio. Prima di tutto questi, a differenza di Dio che è immortale, muoiono. Inoltre tutto ciò che appartiene al mondo fisico è formato da un corpo e perciò è misurabile, occupa uno spazio ed è caratterizzato da un moto. Al contrario il vero ente è infinito, immenso e immobile e perciò non rientra in quelle categorie che appartengono al mondo fisico. Inoltre, come si vede dalla metafora precedente la sua ragione contiene in sé tutte le cose e soprattutto non avendo nessun fine, o meglio, essendo egli stesso il suo fine, ha una volontà immutabile, che è come dire che non ha volontà mentre l'uomo è caratterizzato da una incostante volontà. Sembrerebbe che questo scarto insanabile tra Dio e le cose create renda quasi inutile la possibilità di azione dell'uomo. Ma non è così, perché, nonostante l'evidente limitazione, una possibilità di accedere a una qualche modalità di vero è data anche all'uomo:

Questo insieme delle cause, in cui sono contenuti tutti i generi ossia tutte le forme dalle quali vengono prodotti tutti gli effetti […] costituisce il primo vero, perché comprende tutte le cause, nelle quali sono contenute anche le ultime. E dal momento che le comprende tutte è infinito, giacché non ne esclude nessuna. Ancora, poiché le comprende tutte, viene prima del corpo, del quale è causa, e di conseguenza è una sostanza spirituale: vale a dire che è Dio, e proprio quel Dio che noi cristiani professiamo. Le verità umane si devono misurare proprio sulla norma di questo vero sono cioè verità umane quelle delle quali noi stessi ci rappresentiamo gli elementi, quelle che conteniamo dentro di noi, quelle che possiamo produrre a piacimento all'infinito.

E poiché le componiamo, rendiamo vere quelle cose che conosciamo nel comporle; e in virtù di questo possediamo il genere o la forma con la quale le facciamo32.

Ecco quindi la necessità per Vico di insistere tanto su Dio e la sua potenza. Un discorso sulla metafisica deve partire da Dio, il solo che ha la capacità di generare, in quanto da lui deriva il vero umano, o meglio quest'ultimo è misurato sul vero divino. Di conseguenza, le verità umane nascono dalla rappresentazione degli elementi, dal fatto che li conteniamo in noi e dal produrli all'infinito. In poche parole nascono in quanto le facciamo e proprio per questo le rendiamo vere.

Da cosa nasce quindi il sapere? Da cosa nasce la scienza? Essa si sviluppa traendo vantaggio dal difetto della mente umana. È attraverso l'astrazione che gli uomini creano due enti: l'uno e il punto. Questi sono finzioni della mente che possono essere collegati

31 De Antiquissima, p. 21. 32 De Antiquissima, p. 39.

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al mondo materiale, poiché l'uno può essere moltiplicato formando così il numero mentre il punto può essere disegnato creando le forme. Partendo dal punto e dall'uno l'uomo procede verso l'infinito e verso la comprensione dell'universo. Quindi l'astrazione è la madre delle scienze e in particolar modo la matematica è la scienza operatrice che allo stesso tempo risolve problemi ed elabora gli stessi teoremi che si risolvono attraverso la contemplazione:

Difatti, quando la mente raccoglie gli elementi di quel vero che contempla, non può non verificarsi che renda vere le cose che conosce. Quindi poiché il fisico non è in grado di definire le cose secondo verità, attribuendo cioè alle cose la loro propria natura e facendole secondo verità – cosa che di fatto è concessa a Dio ma è impossibile per l'uomo –, allora definisce i nomi e, così come Dio, senza alcun sostrato e come dal nulla crea, come fossero cose, il punto, la linea, la superficie […].

In tal modo, allorché all'uomo è negata la possibilità di cogliere gli elementi delle cose, dai quali le cose stesse ricevono certo esistenza, egli si finge elementi di parole, dai quali scaturiscono idee che non generano alcuna controversia33.

La mente può rendere vere le cose che conosce raccogliendo gli elementi di quel vero che contempla. Questo non vuol dire che definisce le cose secondo la loro intima verità, però definisce i nomi creando dal nulla linea, punto e superficie. È da qui che ha inizio il sapere, perché è dall'aritmetica e dalla geometria che nascono tutte le altre scienze. Inoltre i nomi hanno una certa oggettività e non vengono scelti a caso. Infatti la parola che serve a definire qualcosa deve suscitare l'idea del termine nella maggioranza degli uomini. Un nome è quindi tale quando fa leva sul senso comune. Oltre a questo le scienze saranno tanto più vere quanto più tenderanno alla scienza divina. Solo nelle scienze più alte si è veramente creatori e quindi solo in esse vero e fatto si convertono. Le matematiche, in quanto scienze astratte saranno quelle più vere e in esse «gli uomini si acquetano alle sue dimostrazioni; perché in quelle essi sono l'intera causa degli effetti che operano, essi comprendono tutta la guisa come operano, e si fanno il vero in conoscerlo»34.

Questo sembrerebbe chiudere definitivamente le porte alla conoscenza del mondo fisico. Ma io non credo, e mi sembra che nemmeno Vico lo dica, che esso debba essere abbandonato in quanto non possiamo conoscerlo secondo verità. Forse è anche in questo senso che Vico afferma di appartenere alla scuola galileiana. Sicuramente le scienze

33 De Antiquissima, p. 25. 34 Risposta I, p. 333.

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sono sempre meno certe quanto più hanno a che fare con la materia corporea. Però solo attraverso il metodo sperimentale si può pensare di fare qualcosa e perciò possedere una qualche verità del mondo fisico. Questa verità non sarà sicuramente indubitabile poiché potrà anche essere confutata o aggiornata da un altro esperimento. Anche se probabilmente è sbagliato parlare di verità nel senso in cui la intende Vico, l'indagine sul mondo fisico, attraverso l'esperimento, che sempre un fare è, contribuisce comunque ad aumentare le proprie conoscenze, le quali sono sempre tali, anche se non necessariamente fisse o esaustive. Infatti, dice Vico, «raccolgono il maggior consenso quelle idee sulle cose naturali che vengono confortate da esperimenti con i quali riusciamo a fare qualcosa di simile a quel che fa la natura»35.

Si può inoltre conoscere una cosa anche senza per forza possederne la verità. Si può conoscere la mente senza avere una verità di essa in quanto non tutte le cose che conosciamo le abbiamo fatte e perciò le conosciamo solo parzialmente. Questa asserzione di Vico è il punto di partenza della sua critica al cogito cartesiano e all'idea chiara e distinta della mente. Ed è proprio da qui che si ha la confutazione del primo vero di Cartesio, indirizzata a rendere più saldo il verum-factum. Si pone quindi la necessità di vedere cosa ha detto il filosofo francese riguardo a questi temi e su cosa viene criticato da Vico.

3. Il cogito di Cartesio e la critica di Vico

Cartesio è un autore sempre presente all'interno dei testi vichiani. Egli è citato esplicitamente molte volte e altrettanti sono i casi in cui il riferimento è implicito e maggiormente nascosto all'interno del discorso. Grande fu l'impatto che il filosofo francese ebbe sulla cultura napoletana di quegli anni, la quale ebbe modo di conoscere le sue opere grazie alla mediazione di Tommaso Cornelio36. Vico si inserisce nel dibattito che si crea intorno a Cartesio, il quale, pur restando ai suoi occhi sempre degno di ammirazione, diverrà uno dei suoi principali bersagli polemici. Come si vedrà più avanti il movente che spinge i due filosofi a scrivere riguardo al vero è in qualche modo

35 De Antiquissima, p. 29.

36 Per il dibattito su Cartesio nella Napoli del '700 si veda l'articolo di M. T. Marcialis, Il cogito e la coscienza. Letture cartesiane nella Napoli settecentesca, in «Rivista di storia filosofia», LI (1996), pp. 581-612.

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identico, cioè entrambi hanno come bersaglio lo scetticismo, solo che lo sviluppo della loro metafisica si svolgerà su piani diversi che portano Vico a riprendere polemicamente la filosofia di Cartesio. Inoltre credo si possa dire che il filosofo francese non scompaia affatto dall'orizzonte vichiano dopo il 1710, ma questi rimane sempre un punto di riferimento costante. Si può sicuramente citare a titolo di prova testuale dell'indiscussa presenza del filosofo francese e non come semplice ipotesi, la Riprensione delle

metafisiche di Renato Delle Carte, di Benedetto Spinosa e di Giovanni Locke che si

trova nelle Correzioni, Miglioramenti e Aggiunte terze della Scienza Nuova del 1730, “riprensione” che sarà poi espunta dall'edizione finale del 1744.

Se si va nel dettaglio della disputa tra i due filosofi si può sostenere che ad un primo livello, la critica vichiana, soprattutto nel primo capitolo del De Antiquissima ed anche in alcuni passi delle Risposte, ha come bersaglio il cogito cartesiano e l'esistenza di Dio. È quindi il caso vedere cosa effettivamente dica Cartesio riguardo a ciò, così da poter meglio contestualizzare l'opinione di Vico.

Cartesio tratta del cogito principalmente nella quarta parte del Discorso sul metodo, nelle Meditazioni sulla filosofia prima ed anche nella prima parte dei Principi di

filosofia. La scoperta del pensiero, o meglio la sua validità, viene tradizionalmente fatta

risalire all'inflazionata frase cogito, ergo sum. Questa espressione è però pronunciata solo nel Discorso e nei Principi. Nelle Meditazioni l'esistenza, come ben si sa, è resa a partire dalla formula ego sum, ego existo. Questa differenza ha suscitato in passato un ampio dibattito sulla natura inferenziale del cogito cartesiano. Però come dice credo giustamente G. Mori37 l'ergo della frase del discorso non ha la pretesa di rendere il cogito frutto di una conoscenza discorsiva o sillogistica. Questo, infatti, potrebbe essere detto anche per la frase delle Meditazioni. Se ne può infatti ritrovare la natura inferenziale nel necessariamente posto dopo l'affermazione dell'esistenza del meditante. Scrive infatti Cartesio che «io trovo qui che il pensiero è attributo che m'appartiene: esso solo non può essere distaccato da me. Io sono, io esisto: questo è certo [necessario

esse verum]; ma per quanto tempo? Invero, per tanto tempo per quanto penso»38. Cartesio non vuole fondare il cogito attraverso un sillogismo, al contrario egli vuole sottolinearne la natura intuitiva. Questo principio viene a configurarsi come l'unica

37 G. Mori, Cartesio, Carocci, Roma 2010; in particolare p. 117 e sgg. 38 AT VII, p. 25; OF II, p. 26

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certezza contro ogni tipo di dubbio. Viene definito come primo vero non in quanto è il primo principio, ma perché è il primo tra le nozioni semplici e perciò da questo bisogna partire per arrivare alle nozioni complesse. Il cogito è perciò indubitabile sia in quanto è appartenente alla dimensione del soggetto sia in quanto prima verità nell'ordine della conoscenza e perciò non può affatto essere confutato dalle argomentazioni degli scettici. Esso «è un'esperienza esistenziale immediata, che riunisce pensiero ed essere in un nesso inscindibile»39. Infatti, analizzando l'argomentazione del Discorso, è possibile osservare la natura immediata del cogito:

Ma subito dopo mi resi conto che nell'atto in cui volevo pensare così, che tutto era falso, bisognava necessariamente che io che lo pensavo fossi qualcosa. E osservando questa verità, penso dunque sono, era così salda e certa da non poter vacillare sotto l'urto di tutte le più stravaganti supposizioni degli scettici, giudicai di poterla accettare senza scrupolo come il primo principio della filosofia che cercavo40.

In questa argomentazione, nonostante il passo risenta chiaramente di un'esposizione più frettolosa rispetto a quella delle Meditazioni (Cartesio proprio per questo motivo, in una lettera del 1638, si dichiara insoddisfatto della parte del Discorso in cui tratta di metafisica), non sembrano esserci sostanziali differenze con la successiva esposizione della seconda Meditazione.

Invece, se vogliamo trovare dei cambiamenti nell'argomentazione cartesiana, nei tre anni che passano tra le due opere, bisogna guardare ad alcune argomentazioni che vengono sviluppate subito dopo la scoperta dell'esistenza del cogito. Se infatti si osserva il capoverso immediatamente successivo a quello appena citato si possono vedere delle differenze rispetto all'esposizione successiva del 1641.

Poi, esaminando attentamente che cosa ero, vedendo che potevo fingere di non avere un corpo, e che non esistesse il mondo, né luogo alcuno in cui mi trovassi, ma non per questo potevo fingere che io non fossi; al contrario, dal fatto stesso di pensare a dubitare delle altre verità delle altre cose seguiva con grande evidenza e certezza che io esistevo […]. Dimodoché questo io, cioè l'anima [mens] in forza della quale sono ciò che sono, è interamente distinta dal corpo, e addirittura è più facile a conoscersi del corpo, e, anche se esso non fosse, l'anima, nondimeno, sarebbe tutto ciò che è41.

39 G. Mori, op. cit., p. 118. 40 AT VI, p. 32; OF I, p. 312. 41 AT VI, pp. 32-33; OF I, p. 312.

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Qui, è possibile vedere come si abbia nozione dei corpi. Si parla della loro non esistenza solo a titolo di ipotesi, ma, in realtà, una volta ammesso il cogito come primo principio il resto viene dato come reale anche se più difficile a conoscersi rispetto alla mente. È solo grazie all'immediata comprensione della mente che si può dire che sono vere tutte quelle cose che siamo in grado di concepire in modo chiaro e distinto. La mente mantiene un'indiscussa preminenza rispetto a tutto il resto. Solo affermando la sua esistenza, si può dire che il corpo esiste e che è di tutt'altra natura rispetto alla mens. Cambia, nelle Meditazioni, questo rapporto quasi immediato tra mente e corpo, perché a mutare, prima di tutto, è il livello di dubbio che viene posto da Cartesio riguardo le cose che lo circondano. Mentre nel Discorso si può ipotizzare che non esista un corpo, il mondo circostante e i suoi luoghi, ora il dubbio è praticamente totale e si manifesta sotto forma di un “Dio ingannatore”. Con la figura del “genio maligno” non si dubita solo di ciò che ha a che fare con la realtà, e cioè tutto quello che si riceve dai sensi o mediante essi. Il dubbio è esteso ora anche alle verità matematiche. Da una parte questo è dovuto al fatto di mettere in discussione le nature semplici, di cui fanno parte estensione e figure. Ciò contribuisce a far crollare questa verità che sembrava incrollabile. Dall'altra parte «se più correttamente si riconosce la loro indifferenza all'esistenza, il dubbio aggredisce il “senso” stesso delle nozioni e delle connessioni matematiche spostandosi sul soggetto, ovvero sull'affidabilità delle sue facoltà conoscitive»42.

Tale è il motivo che, nella II Meditazione, porterà Cartesio ad affermare che solo il mio pensiero, cioè il pensiero di me stesso che nasce dal dubbio, è inseparabile da me meditante.

Ma io non conosco ancora abbastanza chiaramente ciò che sono, io che son certo di essere; di guisa che, oramai, bisogna che badi con la massima accuratezza a non prendere imprudentemente qualche altra cosa per me, e così a non ingannarmi in questa conoscenza che io ritengo essere più certa e più evidente di tutte quelle che ho avute per lo innanzi.

[…]

Ma io, chi sono io […]? Posso io esser sicuro di avere la più piccola di tutte le cose, che sopra ho attribuito alla natura corporea? Io mi fermo a pensarvi con attenzione, percorro e ripercorro tutte queste cose nel mio spirito, e non ne incontro alcuna che posso dire essere in me43.

A questo punto non si ha affatto alcuna idea chiara e distinta dei corpi in quanto

42 S. Di Bella, Le Meditazioni metafisiche di Cartesio. Introduzione alla lettura, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1997, p. 53.

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nemmeno si sa se essi esistano. Si renderà necessario proseguire nella meditazione e prima di poter asserire una qualche realtà dei corpi si dovrà passare dal provare l'esistenza di Dio.

C'è una frattura epistemologica tra la sostanza pensante e il mondo corporeo. La prima permette di affermare la mia esistenza e sarà la base da cui partire per dimostrare se Dio esiste, il secondo rimane ancora sostanzialmente un mistero. Mentre nel Discorso la

mens è assolutamente distinta e si conosce meglio del corpo, ma l'esistenza di

quest'ultimo non sembra affatto dipendere dall'esistenza dell'anima; nelle Meditazioni la validità dell'esperienza sensibile e della res extensa dipendono dalla mente come mostra l'esperimento del pezzo di cera.

Si può perciò dare ragione ad Alquié quando dice che c'è una differenza tra il problema del Discorso e quello delle Meditazioni44. Il cogito del Discorso riguarda problemi prettamente scientifici. Qui non si pone affatto il problema ontologico perché la verità, cioè l'io penso, è assolutamente chiara e solo così essa può servire da criterio per tutte le altre verità. Alquié parla di cogito come verità matematica in quanto il Discorso vuole affermare l'autonomia della scienza, la quale trova la sua validità nella sua evidenza. Il cogito, in quanto idea più chiara e distinta diventa il modello per tutte le altre idee. Invece le Meditazioni pongono un problema metafisico il quale può essere riassunto nella domanda: il reale corrisponde alle mie idee? Per risolvere questo quesito Cartesio pone in questione l'intera scienza. Il cogito è qui il soggetto (essere) di tutte le idee. L'essere di tutte le idee è l'ego sum nel senso che è a partire da questo che si potrà dimostrare l'esistenza delle altre idee.

Infine, un'altra differenza che si ha tra il Discorso e le Meditazioni, e che penso sia importante sottolineare per il confronto con Vico, è la domanda che Cartesio si pone, cioè: che cosa è il pensiero? La risposta a questa domanda non viene data in realtà all'interno delle sei Meditazioni, ma è espressa nelle II Obiezioni:

Col nome di pensiero io comprendo tutto ciò che è talmente in noi, che ne abbiamo immediatamente conoscenza. Così tutte le operazioni della volontà, dell'intelletto, dell'immaginazione e dei sensi, sono dei pensieri. Ma io ho aggiunto immediatamente, per escludere le cose che seguono e dipendono dai nostri pensieri: per esempio, il movimento volontario ha, sì, in verità, la volontà per suo

44 Cfr. F. Alquié, Leçons sur Descartes. Science et métaphysique chez Descartes. La Table Ronde, Paris 2005; trad. it. a cura di T. Cavallo, Lezioni su Descartes. Scienza e metafisica in Descartes, ETS, Pisa 2006. Mi riferisco in particolare alla Quinta Lezione (pp. 81-98) intitolata Dal cogito del «Discorso» al cogito delle «Meditazioni».

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