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Facoltà e arti umane

Nel documento Il rapporto tra mente e corpo in Vico (pagine 50-58)

Facoltà della mente e metodo di conoscenza

2. Facoltà e arti umane

Che le facoltà siano legate al verum-factum si vede già dall'incipit del capitolo VII (De

12 De Antiquissima, p. 105. 13 Orazioni, I, p. 81.

Facultate) del De Antiquissima. Infatti queste sono un saper fare in modo celere e

consapevole. «La parola facultas equivale in qualche modo a faculitas, da cui poi

facilitas: nel senso di una capacità di fare spedita quanto pronta. Pertanto è quella

facilità per la quale una virtù si traduce in atto»14. Vico individua tre facoltà: il senso, la memoria accompagnata dalla fantasia e l'ingegno.

Riguardo al senso Vico si discosta da quella che lui definisce metafisica pagana per approdare a una cristiana. Le filosofie precedenti al cristianesimo non considerano possibile che la mente possa pensare liberamente senza dover essere collegata al corpo. Perciò qualsiasi operazione mentale per loro non è altro che senso, cioè avviene per un contatto con i corpi. È per questo che i latini chiamavano sensus non solo i sensi esterni come la vista e i sensi interni come dolore, piacere e fastidio, ma tra questi sensi includevano anche le deliberazioni, i giudizi e i desideri.

A differenza di questa, la metafisica cristiana insegna che la mente «è assolutamente incorporea, e i nostri metafisici confermano che, mentre gli organi corporei del senso sono mossi dai corpi, in quella stessa occasione la mente è mossa da Dio»15. Affermando ciò Vico non rifiuta affatto la connessione tra corpo e mente, né sostiene che le conoscenze della mente non abbiano nulla a che fare con quelle del corpo. La percezione ha chiaramente un'influenza sulla conoscenza umana. Anzi, si può dire che ai sensi spetti una prima forma di conoscenza poiché instaurano un primo rapporto diretto con le cose corporee. L'operazione che qui Vico compie non è altro che quella di ribadire l'indipendenza della mente rispetto al corpo dicendo che mentre i sensi derivano e riguardano il corpo, la mente è autonoma in quanto deriva da Dio e quindi non è per forza schiava della conoscenza sensibile.

Si hanno poi memoria e fantasia. La prima non è altro che una capacità di conservare e raccogliere le percezioni che derivano dalla sensazione. Vico riprende qui la distinzione aristotelica tra memoria e reminiscenza16. Per il filosofo greco la memoria è comune a tutti gli animali ed essa non è altro che una specie di recipiente che contiene le immagini. Invece la reminiscenza, in quanto capacità deliberativa, appartiene ai soli uomini17. Questa è una specie di illazione che coscientemente ricerca e fissa ciò che i

14 De Antiquissima, p. 113. 15 Ivi, p. 117.

16 Su ciò cfr. M. Sanna, La “Fantasia, che è l'occhio dell'ingegno”. La questione della verità e della sua rappresentazione in Vico, Guida, Napoli 2001, pp. 38-39.

17 «[…] della memoria partecipano molti altri animali, mentre della reminiscenza nessuno […] ad eccezione dell'uomo. Ciò perché la reminiscenza è una specie di illazione: chi rammemora fissa per

sensi hanno esperito precedentemente. Vico illustra allo stesso modo le due facoltà. Egli scrive che la memoria è sia la memoria propriamente detta che «conserva come in un raccoglitore le percezioni acquisite attraverso i sensi, sia la reminiscenza che le rappresenta all'esterno»18. In generale, attraverso la memoria ci formiamo le immagini delle cose e perciò essa corrisponde alla phantasia dei greci, detta anche immaginativa. Infatti gli uomini non possono rappresentare se non cose che ricordano e allo stesso tempo ricordano solamente le cose che percepiscono attraverso i sensi. La prova di ciò è che nessun pittore può dipingere oggetti di cui non ha potuto verificare il modello originale nella natura. Anche quando viene prodotto qualcosa di non esistente, il pittore non fa altro che unire insieme degli elementi di vero e di falso, o, e il risultato è lo stesso, mette insieme degli elementi veri che nel risultato producono qualcosa di falso. In ogni caso «la fantasia è senza ombra di dubbio una facoltà, perché quando la utilizziamo ci rappresentiamo le immagini delle cose»19.

L'ingegno è l'ultima delle facoltà della mente e il suo compito è quello di «unificare cose separate, di congiungere cose diverse»20. Il termine ha una grande importanza nella filosofia vichiana. È infatti, con i dovuti distinguo dovuti al contesto diverso dell'ultima opera vichiana, al centro anche della Scienza Nuova. In ogni caso questo è un concetto problematico e il suo uso ha radici provenienti da diverse fonti. Gensini21 in un suo saggio individua tre diverse tradizioni del termine ingegno:

1) un primo uso della parola è quello che deriva dal latino classico e della tradizione umanistica che ad esso si rifà. Questa accezione ha le sue basi nell'etimologia di ingenium, cioè in più gignere, generare. L'ingegno è in quest'ottica una capacità naturale distinta dalle capacità che sono conseguibili attraverso lo studio e l'esercizio. Questa concezione permette di dare all'ingenium un campo di applicazione più vasto rispetto a quello della teoria retorica che applicava il termine solo alla disposizione divina del grande oratore

illazione che prima ha veduto o udito o sperimentato qualcosa e ciò è, in sostanza una specie di ricerca. Quindi naturalmente spetta a quei soli che hanno capacità deliberativa, perché anche il deliberare è una forma di illazione» (Aristotele, Della memoria e della reminiscenza, 453a, in Id. Opere, vol. 4, ed. it. a cura di A. Russo, Laterza, Bari 1973).

18 Ivi, p. 117. 19 Ivi, p. 113. 20 Ivi, p. 119.

21 S. Gensini, Ingenium e linguaggio. Note sul contesto storico-teorico di un nesso vichiano, in J. Trabant (a cura di), Vico und die Zeichen. Vico e i segni, Gunter Narr Verlag, Tübingen 1995, pp. 237- 256, in particolare pp. 239-243.

o poeta.

2) La seconda accezione si sviluppa nel contesto filosofico-medico verso la metà del sedicesimo secolo. È collegata alla visione naturalistica dell'uomo, di derivazione ippocratica e galenica, che faceva discendere le differenti inclinazioni e disposizioni umane dalla combinazione di caldo, freddo, secco, umido. Così l'ingenium viene ad essere come una specie di disposizione naturale collocata in una zona intermedia tra realtà biologica e cultura. È proprio l'azione del mescolamento che permette di spiegare la varietà degli ingegni secondo la loro disposizione naturale. L'educatore, in questo senso, ha il compito di indirizzare le diverse inclinazioni verso quella disciplina a cui un uomo è più portato.

3) Infine, la terza accezione, come fa notare Gensini, è quella che viene sviluppata in età barocca e rimanda alle discussioni, che vengono portate avanti durante tutto il '600, sul concetto di metafora in relazione alla Retorica e alla Poetica di Aristotele. In questo dibattito l'ingegno è, in un primo tempo, ciò che scopre le relazioni tra le cose. In un secondo momento ne viene sempre più sottolineata la funzione creativa, grazie alle opere di Pellegrini, Pallavicino e Tasauro. Per cui l'ingenium non è più solo ciò che scopre, ma è anche ciò che fa, che crea qualcosa di originale e di vero.

Vico nel presentare questa facoltà unisce insieme queste tre diverse tradizioni. Questa molteplicità di temi, che il termine presenta, si può cogliere già dalle parole che lo stesso filosofo usa pel presentare il concetto di ingegno. Infatti

ingenium e natura sono in latino la stessa cosa: forse perché l'ingegno umano è la

specifica natura dell'uomo, dal momento che è proprio dell'ingegno – cosa negata ai bruti – scorgere la misura delle cose, quale sia adatta, quale conveniente, quale onesta, quale turpe? O forse perché, come la natura produce la fisica, così l'ingegno umano produce la meccanica, cioè come Dio è artefice della natura, l'uomo è dio degli artefici? Certo da qui viene il vocabolo scientia, e da “scienza” viene scitum che, con non minore eleganza, gli italici traducono “ben inteso” e “aggiustato”22.

L'ingegno è una facoltà che contraddistingue gli uomini dai “bruti” e da tutti gli altri animali. Che questo sia un principio naturale si vede anche dal fatto che esso può essere di due tipi: ottuso o acuto. Chi è in possesso di un ingegno acuto ha la capacità di congiungere più celermente le cose tra loro. Chi, al contrario, ha un ingegno ottuso solo

con molta lentezza riesce a comprendere profondamente le cose con il risultato di riuscire a unirle tra loro solo dopo molto tempo. Quindi l'ingegno è una facoltà naturale con la quale «l'uomo compone le cose, le quali, a coloro che pregio d'ingegno non hanno, sembrano non aver tra loro nessun rapporto. Onde l'ingegno umano nel mondo delle arti è, come la natura nell'universo è l'ingegno di Dio»23.

Dopo quanto visto fino ad ora, se volessimo un po' semplicisticamente mostrare le facoltà umane secondo una catena potremmo dire che la conoscenza sensibile è come il primo anello di questa. All'ultimo sta invece l'ingegno che congiunge i vari oggetti che sono passati dai sensi prima e dalla memoria e fantasia poi. La conoscenza umana è perciò progressiva, non in un senso teleologico, ma nel senso che si sviluppa a partire dalle esperienze reali che l'uomo compie o subisce fino ad elevarsi a un livello più puro attraverso la facoltà ingegnosa; dove con più puro non si deve intendere il dirozzamento della Scienza Nuova e l'uscire fuori della mente dal corpo, bensì una purificazione, una limatura di quegli elementi della percezione che hanno a che fare prettamente con il corpo e che non possono essere concepiti in un'operazione coscienziosamente mentale come quella dell'ingegno. Con ciò, ribadisco, la conoscenza corporea non è affatto eliminata, ma Vico è consapevole che per raggiungere un certo livello di sapere non si può prescindere da un preciso sviluppo delle capacità della mente, la quale agisce sì anche in relazione al corpo, ma allo stesso tempo è separata e distinta da esso.

Se le facoltà umane sono naturali nell'uomo, cioè se tutti le possiedono, diventa naturale domandarsi se tutti conoscono le cose in maniera e in proporzione eguale agli altri. Quindi tutti possiamo conoscere le cose allo stesso modo? Questa probabilmente non è la domanda giusta da porci. Naturalmente se queste capacità, così come Vico le indica, sono comuni a tutti gli uomini, questi ultimi potenzialmente hanno le stesse capacità e gli stessi limiti. Ci saranno sicuramente quelli più predisposti alla conoscenza e quelli meno, vista anche la differenza tra ingegno acuto e ottuso. In generale vale infatti il principio che ciò che viene fatto dall'uomo è vero ed egli ne ha conoscenza. Perciò, se si volesse dare una risposta a quella domanda, si deve convenire che sostanzialmente le nostre possibilità sono più o meno le stesse.

La questione che in questo caso acquista importanza, a mio modo di vedere, non riguarda tanto le possibilità della conoscenza, ma è rivolta al merito della conoscenza

stessa. Mi spiego meglio. Se le nostre possibilità sono le stesse, come possiamo fare in modo che esse si sviluppino il più possibile? In che modo l'uomo può arrivare a una conoscenza che, nelle varie discipline di cui egli è capace, sia più vicina possibile alla verità? La questione è quindi metodologica: si tratta cioè di capire e mostrare qual è il metodo migliore per permettere alla mente di rivolgersi in modo adeguato a tutte quelle possibilità di cui essa è capace, facendo in modo che essa si allontani il meno possibile dalla retta via del sapere.

Se infatti torniamo all'interno del testo vichiano leggiamo che l'uomo «percepisce, giudica, ragiona: ma spesso percepisce cose false, spesso giudica avventatamente, spesso ragiona male»24. In questa frase c'è qualcosa di non completamente vero o comunque qualcosa che può trarre in inganno. La possibilità di avere una percezione falsa. È lo stesso Vico che nella Seconda Risposta al Giornale de' Letterati ritorna sull'argomento spiegando meglio la sua posizione. Egli chiarisce infatti che la percezione non può essere falsa perché il falso legato alla sensazione è nulla e perciò impercettibile. I sensi, anche quando traggono in inganno, svolgono comunque i loro compiti e perciò le idee legate ad essi hanno una qualche verità. Queste sono «false, in quanto sono urti e spinte al precipizio dalla mente in giudizi falsi»25. È il concorso di queste facoltà a portare l'uomo all'errore. In particolar modo sono gli interventi del giudizio e del ragionamento errati, uniti alla percezione, a produrre conoscenze false. Perciò, è necessario che queste operazioni umane vengano regolate così da non percepire, giudicare o ragionare in modo errato.

Questa argomentazione di Vico ricorda molto la teoria dell'errore, esposta da Cartesio nella IV Meditazione. Per il filosofo francese, Dio non vuole ingannare l'uomo e quindi quest'ultimo se usa bene la facoltà di giudicare donatagli da Dio, non potrà sbagliare. L'errore umano non sta tanto, come sarebbe immediato pensare, nel fatto che io uomo non partecipo dell'infinità divina. L'errore non può essere individuato nella mancanza di perfezione e tra le altre cose, considerando la natura di Dio, non è possibile pensare che egli «m'abbia dato qualche facoltà che sia imperfetta nel suo genere, cioè che manchi di qualche perfezione che le sia dovuta»26. Ciononostante se considero le cause che determinano i miei errori, vedo che sono due: la facoltà di conoscere e facoltà di

24 De Antiquissima, p. 121. 25 Risposta II, p. 377. 26 AT VII p. 55; OF II, p. 52.

scegliere (o libero arbitrio), cioè l'intelletto e la volontà. Ma, se con l'intelletto io concepisco le idee delle cose, le quali possono essere affermate o negate, «si può dire che non si trova mai in esso alcun errore, purché si prenda la parola errore nel suo proprio significato»27. L'errore, quindi, sta nella volontà. Non nella volontà in sé, ma quando la utilizzo in maniera scorretto, estendendola oltre i limiti dell'intelletto verso quelle cose che non intendo. In questo senso, io non sono esente da errori. Perciò, per evitarli, devo astenermi dal giudicare quando la verità di una cosa non mi è manifesta. Di conseguenza, potrò raggiungere la verità «se fermerò sufficientemente la mia attenzione su tutte le cose che concepirò perfettamente, separandole da quante non comprenda se non con confusione ed oscurità»28.

Dopo questa breve parentesi, si può tornare a Vico, il quale per prevenire errori, sostiene che, accanto alle facoltà peculiari alla conoscenza, vadano poste delle arti che le indirizzino, regolino e assicurino29. Queste arti sono topica, critica e metodo e ognuna di esse corrisponde a una facoltà: «cioè, la facoltà di percepire è propria della Topica, quella di giudicare della Critica e infine quella di ragionare del Metodo»30. Partendo da quest'ultimo Vico sostiene che non è necessario esaminare il metodo, perché la sua trattazione è essenzialmente superficiale. Infatti, se guardiamo gli scritti di dialettica, riguardo al metodo non ci è stato tramandato alcun precetto «perché i fanciulli lo apprendono più che a sufficienza nell'uso pratico, quando si applicano allo studio della geometria»31. Inoltre Vico parla del metodo soprattutto per criticare i cartesiani, i quali avevano contribuito a estendere inutilmente a moltissime scienze il metodo geometrico. Questo ha contribuito a creare solo danni poiché ha immesso il metodo geometrico in campi del sapere a cui non va applicato. Infatti «il metodo va variando e multiplicandosi secondo la diversità e multiplicazione delle materie proposte»32.

Il dibattito su quale arte serva a regolare le facoltà peculiari alla conoscenza può perciò essere ridotto a soli due rami: topica e critica, o anche arte della scoperta (ars

inveniendi) e arte del giudizio (ars judicandi). Questa scelta dei termini “topica” e

27 Ivi, p. 55; ivi, p. 53. 28 Ivi, p. 62; ivi, p. 58.

29 « […] perché la facultà è quella che indrizzata, regolata ed assicurata dall'arte» (Risposta I, p. 332). 30 De Antiquissima, p. 121.

31 Ibidem.

32 Risposta II, p. 379. Tra l'altro questa frase, in cui si presuppone che ci siano tanti metodi quante sono le materie, sembra anticipare la famosa Degnità CVI della Scienza Nuova: «Le dottrine debbono cominciare da quando cominciano le materie che trattano» (SN44, §314).

“critica” è ripresa da Cicerone33, ma mentre nei Topica la distinzione ha come tema il modo di proporre un discorso, cioè l'eloquenza e la retorica, qui la questione è più ampia poiché riguarda un contrasto tra due metodi di apprendimento e nello specifico va rimandata alla divisione cartesiana tra il metodo geometrico della sintesi (topica) e quello dell'analisi (critica).

A questo punto vediamo in dettaglio come le due arti vengono definite:

1. La critica «non è che un ammasso di precetti ad un certo fine ordinati […]. Ed è tanto vero che quest'arte di giudicare è una gran parte della logica, che gli stoici, i quali stavano tutti sopra di questa, con quel loro fasto, la chiamarono “dialettica” col nome del tutto»34. La sua funzione è quella di servire alla comprensione delle regole che sono prescritte nella logica circa il criterio di verità.

2. La topica invece «è l'arte di apprender vero, perché è l'arte di vedere per tutti i luoghi topici nella cosa proposta quanto mai ci è per farlaci distinguer bene ed averne adeguato concetto»35. L'arte della scoperta ci permette di vedere il maggior numero possibile di elementi di una cosa così da poterla conoscere bene evitando allo stesso tempo di farci elaborare giudizi sbagliati su di essa, in quanto derivanti da rappresentazioni errate, perché superficiali e sbrigative. Si può quindi riassumere così:

...il dividere e 'l diffinire sono lavori della seconda operazion della nostra mente; e questi sono regolati dalla critica, nella quale, perché con essa hassi a dividere, prevagliono gli uomini d'acre ingegno: sì come andar componendo una cosa con tutte le altre che vi hanno attacco o rapporto (che è l'altra spezie di metodo, che s'appella “sintesi”, che in fatto è ritrovare) è opera della semplice percezione, che fassi regolar dalla topica: la qual via tenne Aristotele, che non scende quasi mai a diffinir cosa, se non prima ha visto quanto in quella o dentro o fuori vi sia. La topica ritruova ed ammassa; la critica dall'ammassato divide e rimuove: e perciò gl'ingegni topici sono più copiosi e men veri; i critici sono più veri, ma però asciutti36.

33 «Se il retto criterio di ogni discussione implica due momenti – quello dell'invenzione, quello del giudizio –, Aristotele fu a mio modo di vedere la guida principe nell'uno e nell'altro. Gli stoici inveri s'applicarono con impegno sul secondo; investigarono infatti attentamente i metodi del giudizio, con la teoria definita dialettica, ma trascurarono del tutto l'arte dell'invenzione, che è detta Topica, la quale era preferibile in vista dell'uso e nell'ordine naturale era indubbiamente la prima» (M. T. Cicerone, Topica, 2, 6, in Id, Tutte le opere di Cicerone, vol. 17, ed. it. a cura di G. G. Tissoni, Mondadori, Milano 1973, pp. 200-202).

34 Risposta II, p. 378. 35 Ivi, p. 377. 36 Ivi, p. 379.

La critica regola il giudizio, le cui operazioni sono quelle di definire e dividere le cose. Il suo è un procedimento che tende a dividere ciò che è dato insieme. Invece la topica o sintesi, che governa la percezione, conosce mettendo insieme tutti quegli elementi che possono essere rapportati alla cosa che si sta indagando. Mentre gli ingegni che utilizzano la topica sono più produttivi ma meno veri, quelli che si servono dell'analisi sono più veri ma poveri di contenuto. Anche Aristotele, secondo Vico, è un sostenitore della topica poiché prima di definire una cosa la indaga in ogni suo aspetto. Questo, visto la preferenza di Vico per il metodo sintetico, è un altro segno, insieme alla conciliazione vista prima tra i punti di Zenone e di Aristotele, della forte influenza che il filosofo greco ha esercitato su Vico, nonostante egli si dichiari essenzialmente un platonico.

Come si sa, il dibattito tra topica e critica, tra sintesi e analisi non trova spazio solo nel

Liber Metaphysicus. Questo tema si sviluppa fin dalle prime Orazioni Inaugurali e si

mostra nella sua forma compiuta nel De nostri temporis studiorum ratione. Perciò è necessario vedere come il tema venga sviluppato anche all'interno di tali opere.

Nel documento Il rapporto tra mente e corpo in Vico (pagine 50-58)