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Il linguaggio come medio tra mente e corpo

Nel documento Il rapporto tra mente e corpo in Vico (pagine 106-116)

La mente dinamica della Scienza Nuova

3. Il linguaggio come medio tra mente e corpo

Il problema della nascita del linguaggio è una delle questioni principali della Scienza

Nuova. Questo, come si sa bene, non è un tema nuovo della filosofia vichiana. Basti

pensare al De Antiquissima che ricerca l'antica sapienza italica a partire da un lavoro etimologico dei termini latini.

Ciò che si vuole analizzare in questo paragrafo è il ruolo che il linguaggio svolge nello sviluppo della mente. La sua nascita e il suo sviluppo sono paralleli alle differenti età degli uomini. Infatti, Vico, come per le età degli uomini, individua tre lingue diverse corrispondenti alle prime: lingua divina, eroica e umana74. Ma ancor più importante è il ruolo di terzo, tra mente e corpo, che Vico assegna alla parola:

Insomma – non essendo altro l'uomo, propiamente, che mente, corpo e favella, e la favella essendo come posta in mezzo alla mente ed al corpo – il certo d'intorno al giusto cominciò ne' tempi muti dal corpo; dipoi ritruovate le favelle che si dicono articolate, passò alle certe idee, ovvero formole di parole; finalmente, essendosi spiegata tutta la nostra umana ragione, andò a terminare nel vero dell'idee d'intorno al giusto, determinate con la ragione dall'ultime circostanze de' fatti. Ch'è una formola informe d'ogni forma particolare75.

73 «Questa Degnità è 'l principio delle sentenze poetiche, che sono formate con sensi di passioni e d'affetti, a differenza delle sentenze filosofiche, che si formano dalla riflessione con raziocinî: onde queste più s'appressano al vero quanto più s'innalzano agli universali, e quelle sono più certe quanto più s'approppriano a' particolari» (Ivi, § 219).

74 «Tre spezie di lingue. Delle quali la prima fu una lingua divina mentale per atti muti religiosi, o sieno divine cerimonie […]. La seconda fu per imprese eroiche, con le quali parlano l'armi […]. La terza è per parlari, che per tutte le nazioni oggi s'usano, articolati» (Ivi, §§ 928-931).

Grazie al linguaggio si ha il passaggio dal certo al vero. Quando gli uomini si esprimevano solamente per atti muti, essi potevano stabilire solo il certo su ciò che è giusto. Con la nascita delle prime parole sono le idee a diventare certe. E queste ultime, infine, si approssimano sempre più al vero con il progressivo sviluppo della ragione. Proprio per questa sua capacità di esprimere prima il certo e poi il vero, il linguaggio diventa, da un lato, ciò che mette in comunicazione gli uomini tra loro, assumendo perciò un indubbio ruolo sociale; dall'altro lato, ed è ciò che il passo precedente in misura maggiore sottolinea, il linguaggio diventa ciò che mette in comunicazione corpo e mente dando perciò significato all'esperienza umana. Quindi il linguaggio, per l'uomo, è «tutta la sua esperienza in quanto consapevolmente vissuta, e quindi l'orizzonte, il mondo, entro cui questa sua esperienza si esplica»76.

Ma come nasce e come si sviluppa la parola nell'uomo? Vico, nella Logica Poetica, che non a caso è fra le più lunghe sezioni della Scienza Nuova del 1744, fa un'analisi molto dettagliata dello sviluppo del linguaggio. Poiché la parola compare in parallelo alla conoscenza umana, essa, nei suoi primi sviluppi, è fortemente legata alle immagini e al modo in cui l'immaginazione le elabora. Infatti «cotal primo parlare, che fu de' poeti teologi, non fu un parlare secondo la natura di esse cose […], ma fu un parlare fantastico per sostanze animate, la maggior parte immaginate divine»77. A tal proposito, nella Scienza Nuova del 1725, Vico sostiene, che una delle caratteristiche più importanti della lingua poetica sia proprio quella di innalzare la fantasia78. Il primo linguaggio, proprio perché muto, è essenzialmente fatto di immagini. In sostanza, l'uomo primitivo sviluppa nella propria mente l'immagine di ciò che vuole comunicare ed esprime questa attraverso un gesto. Infatti, mentre nell'età della razionalità gli uomini si personificano consapevolmente idee astratte a fini didascalici o mnemonici, nei primi tempi dell'umanità si proiettavano su corpi inanimati e vastissimi, attraverso il lavoro della fantasia, le stesse passioni e affetti provati da quei primi uomini. Questo, come abbiamo già visto, fa sì che ad ogni cosa del mondo reale corrisponda una divinità che rappresenta tale corpo79.

76 G. Cantelli, Mente, corpo, linguaggio, op. cit., p. 90. 77 SN44, § 401.

78 «Queste sono le tre virtù più rilevanti della favella poetica: che innalzi e ingrandisca le fantasie; sia in brieve avvertita all'ultime circostanze che diffiniscono le cose; e trasporti le menti in cose lontanissime e con diletto le faccia come in un nastro vedere ligate con acconcezza» (SN25, §250).

Quindi, come la fantasia partorisce i generi fantastici, che sono le favole dei primi uomini, così le mitologie, grazie all'allegoria, diventano il modo attraverso cui tali favole sono espresse. Che i miti corrispondano a forme espressive umane, Vico lo sostiene già all'inizio della Logica Poetica quando, attraverso tre differenti sequenze, connette il termine lógos con: (1) il mito, (2) la parola e (3) il fatto80. Quest'ultima, instaurando l'identità tra lógos, verbum, fatto e cosa, sembra connettere al fatto non più il vero del De Antiquissima, ma il verbum, perché è con la parola che si fanno e comprendono le cose. La seconda, invece, si basa sulle capacità razionali del lógos, poiché lo connette alle parole, alle idee e ai sermoni, cioè ai linguaggi articolati. Nella prima, al contrario rispetto alle altre due, il lógos non è considerato come pensiero razionale, ma se ne evidenzia la continuità con il mhytos. Anzi, questi due, attraverso l'identità di favola e favella, sono considerati termini equivalenti. Qui lógos va inteso come il primo pensiero dell'umanità primitiva e al suo primo linguaggio, il quale fu un parlare per miti e anche un parlare muto (e Vico, in quelle righe, sottolinea anche la derivazione del termine mutus da mhytos), per segni.

Il mito, inoltre, in quanto è il linguaggio naturale dei primi uomini, si configura come narrazione vera. Questo è dovuto al fatto che il mito è espresso come allegoria. Quest'ultima è ciò che fa in modo che le cose siano comunicate per identità univoche e non analoghe. Essa si comporta nello stesso modo dell'immagine negli universali fantastici. Infatti, l'immagine, come si è visto prima, è il modello attraverso cui gli

additando, spiegarono esser esse sostanze del cielo, della terra, del mare, ch'essi immaginarono animate divinità, e perciò con verità di sensi gli credevano dèi: con le quali tre divinità, per ciò ch'abbiam sopra detto de' caratteri poetici, spiegavano tutte le cose appartenenti al cielo, alla terra, al mare; e così con l'altre significavano le spezie dell'altre cose a ciascheduna divinità appartenenti, come tutti i fiori a Flora, tutte le frutte a Pomona. Lo che noi pur tuttavia facciamo, al contrario, delle cose dello spirito; come delle facultà della mente umana, delle passioni, delle virtù, de' vizi, delle scienze, dell'arti, delle quali formiamo idee per lo più di donne, ed a quelle riduciamo tutte le cagioni, tutte le proprietà e 'nfine tutti gli effetti ch'a ciascuna appartengono: perché ove vogliamo trarre fuori dall'intendimento cose spirituali, dobbiamo essere soccorsi dalla fantasia per poterle spiegare e, come pittori, fingerne umane immagini» (SN44, § 402).

80 «“Logica” vien detta dalla voce λόγος, che prima e propiamente significò “favola”, che si trasportò in italiano “favella” – e la favola da' greci si disse anco μῦθος, onde vien a' latini “ mutus” – la quale ne' tempi mutoli nacque mentale, che in un luogo d'oro dice Strabone essere stata innanzi della vocale o sia dell'articolata: onde λόγος significa e “idea” e «parola». E convenevolmente fu così dalla divina provvidenza ordinato in tali tempi religiosi, per quella eterna propietà: ch'alle religioni più importa meditarsi che favellarne; onde tal prima lingua ne' primi tempi mutoli delle nazioni, […] dovette cominciare con cenni o atti o corpi ch'avessero naturali rapporti all'idee: per lo che λόγος o “verbum” significò anche “fatto” agli ebrei, ed a' greci significò anche “cosa” […]. E pur μῦθος ci giunse diffinita “vera narratio”, o sia “parlar vero”, che fu il “parlar naturale” che Platone prima e dappoi Giamblico dissero essersi parlato una volta nel mondo» (SN44, § 401). Su ciò cfr. P. Cristofolini, La Scienza Nuova di Vico. Introduzione alla lettura, Nuova Italia Scientifica, Roma 1995, pp. 115-120.

oggetti della sensibilità sono interpretati come oggetti reali. Nel linguaggio mitico dei primi uomini, l'allegoria «è il trasferimento di un'immagine sensibile, più precisamente visiva, dalla sfera dell'espressione soggettiva, a un oggetto la cui realtà, diversa dal soggetto percipiente, viene riconosciuta e interpretata come corrispondente all'immagine che su di essa è stata trasferita»81. In questo senso il parlare allegorico è composto solamente da un'azione immaginativa della mente e perciò è totalmente scevro da razionalità.

Ma se il linguaggio mitico è determinato da un'azione della fantasia, esso sarà anche fortemente legato al corpo. Difatti «'n tutte le lingue la maggior parte dell'espressioni d'intorno a cose inanimate sono fatte con trasporti del corpo umano e delle sue parti e degli umani sensi e dell'umane passioni»82. Siccome il primo linguaggio dell'umanità è un linguaggio poetico, legato al corpo, ai sensi e alle passioni, esso si manifesta attraverso quattro figure retoriche: metafora, sineddoche, metonimia e ironia.

Tra queste quattro «la più luminosa e, perché più luminosa, più necessaria e più spessa è la metafora, ch'allora è vieppiù lodata quando alle cose insensate ella dà senso e passione»83. Tutte le metafore hanno inizio proprio in questi tempi e sono collegate in particolar modo al mondo contadino dei primi uomini84. Si hanno poi sineddoche e metonimia, che sono i tropi che danno i nomi alle cose. La prima, per nominare gli oggetti, parte dalle idee più particolari e considera una parte per il tutto, la seconda, invece, partendo dalle idee più sensibili, considera il concreto per l'astratto85. Infine, l'ironia come tropo si afferma solamente nell'età della razionalità, perché essa, attraverso la riflessione, quindi con cognizione di causa, asserisce il falso presentandolo come vero. Infatti, sostenere il falso è un'azione che ha a che fare con la razionalità. Si ha esperienza della falsità di una cosa, e quindi si può affermare ciò che essa non ha,

81 G. Cantelli, Mente, corpo, linguaggio, op. cit., p. 90. 82 SN44, §405.

83 Ivi, § 404.

84 «Quindi se ne dà questa critica d'intorno al tempo che nacquero nelle lingue: che tutte le metafore portate con somiglianze prese da' corpi a significare lavori di menti astratte debbon esser de' tempi ne' quali s'erano incominciate a dirozzar le filosofie. Lo che si dimostra da ciò: ch'in ogni lingua le voce ch'abbisognano all'arti colte ed alle scienze riposte hanno contadinesche le lor origini» (Ivi, § 404). 85 «Per cotal medesima logica, parto di tal metafisica, dovettero i primi poeti dar i nomi alle cose

dall'idee più particolari e sensibili; che sono i due fonti, questo della metonimia e quello della sineddoche. Perocché la metonimia degli autori per l'opere nacque perché gli autori erano più nominati che l'opere; quella de' subietti per le loro forme ed aggiunti nacque perché […] non sapevano astrarre le forme e la qualità da' subietti […]. La sineddoche passò in trasporto poi con l'alzarsi i particolari agli universali o comporsi le parti con le altre con le quali facessero i lor intieri» (Ivi, §§ 406-407).

solamente quando la si conosce in modo veritiero, cioè per le qualità che essa ha. Ma se il falso è da collegare alla riflessione, allora, ancora una volta, si dimostra e si può affermare la totale verità dei miti dei primi uomini, che, essendo dotati solamente di fantasia e di nessuna riflessione, non potevano che affermare il vero riguardo a ciò che vedevano86. La verità delle prime favole non va intesa come verità della parola in conformità alla cosa, così come quest'ultima è stata creata da Dio, che, si sa, è l'unico a conoscerla in modo assolutamente vero. La verità delle favole va qui collegata a ciò che la parola determina in quanto esperienza dell'uomo. Anche se il significato del linguaggio mitico è completamente intriso di elementi fantastici esso ha verità, perché «con e nella parola la cosa si manifesta sempre per mezzo dell'interpretazione che ne viene data. Questa interpretazione è il significato della parola; e dunque l'autonomia della parola nella sua verità è autonomia nella sua semanticità. Significare una cosa è farla, e facendola renderla vera»87.

Nella misura in cui la lingua è legata al modo di conoscere essa sarà vera. È vera perché fa, perché crea e perciò è poetica. Quindi la metafora, il tropo più magnifico di tutti, non è solamente un modo di espressione, ma è anche un modo di cui si serve la mente per conoscere il mondo. Vico, riprendendo la Poetica aristotelica, sostiene che «il vero de' poeti è in un certo modo più vero del vero degli storici, perché è un vero nella sua idea ottima, e 'l vero degli storici sovente è vero per capriccio, per necessità, per fortuna»88. Il vero metaforico dei primi uomini è tale perché non ha alle sue spalle secondi fini. Esso è vero proprio in quanto spontaneo, perché dettato dalla meraviglia e dalla curiosità, le quali sono i sentimenti che stanno alla base di un conoscere che, per la sua assenza di calcoli razionali, può essere definito puro. Ecco, quindi, che a partire da ciò l'uomo fa esperienza del mondo e così facendo lo conosce e lo crea secondo le proprie possibilità. Come ha scritto Blumenberg: «se la natura è un libro, noi abbiamo scritto questo libro nella nostra lingua meno con la nostra conoscenza che con la nostra

86 «L'ironia certamente non poté cominciare che da' tempi della riflessione, perch'ella è formata dal falso in forza d'una riflessione che prende maschera di verità. E qui esce un gran principio di cose umane, che conferma l'origine della poesia qui scoverta: che i primi uomini della gentilità essendo stati semplicissimi quanto i fanciulli, i quali per natura son veritieri, le prime favole non poterono fingere nulla di falso; per lo che dovettero necessariamente essere, quali sopra ci vennero deffinite, vere narrazioni» (Ivi, § 408). Alla luce di tali parole si può sostenere che che le figure retoriche, attraverso cui si manifestano i primi linguaggi umani, non sono quattro, ma tre, perché gli uomini primitivi, privi di razionalità, non erano capaci di ironia, cioè di affermare il falso.

87 D. Di Cesare, Parola, lógos, dabar: linguaggio e verità nella filosofia di Vico, «BCSV», XXII-XXIII, 1992-1993, pp. 251-287, p. 279.

immaginazione»89.

Riguardo al linguaggio mitico dei primi uomini, è importante tenere presente un'altra cosa: cioè che esso è una forma di espressione muta, che, quindi, non si esprime attraverso la parola vocale, ma attraverso i segni. Questi sono i modi attraverso cui le favole vengono narrate. I segni nella comunicazione non verbale dei primi uomini, sono espressi in maniera duplice: sotto forma di gesti corporei e sotto forma di caratteri, di geroglifici. Il primo modo è sostanzialmente il parlare muto, di cui si è già detto. Il secondo è invece la prima forma di scrittura dell'umanità, cioè un'immagine che ha un rapporto diretto con la cosa che rappresenta. Vico, infatti, condanna la pratica comune, attuata dagli studiosi moderni, di separare origine delle lingue e delle lettere. Tutto è invece strettamente collegato e quando egli parla di lingua va tenuta sempre a mente la contemporanea presenza della scrittura. Come il pensare dei primi uomini è per universali fantastici, così il loro modo di parlare fu per favole e quello di scrivere per geroglifici.

La nascita della comunicazione verbale è perciò successiva al modo di esprimersi muto e corporale dei primi uomini. La prima forma di comunicazione verbale, sostiene Vico, nasce solamente dopo questo primo necessario stadio. Inoltre quando i giganti emettono i primi suoni, non lo fanno attraverso un parlare prosaico, ma per canti. A tal proposito si vedano due celebri degnità:

[LVIII] I mutoli mandan fuori i suoni informi cantando, e gli scilinguati pur cantando spediscono la lingua a prononziare.

[LIX] Gli uomini sfogano le grandi passioni dando nel canto, come si sperimenta ne' sommamente addolorati e allegri.

Queste due Degnità, supposto che gli autori delle nazioni gentili eran andat'in uno stato ferino di bestie mute; e che, per quest'istesso balordi, non si fussero risentiti ch'a spinte di violentissime passioni, <danno a congetturare ch'essi> dovettero formare le prime loro lingue cantando90.

Con la nascita del linguaggio verbale si entra in una nuova dimensione rispetto a quella del segno. Infatti, mentre con i segni si rappresenta direttamente l'oggetto, con il linguaggio c'è un riferimento verso gli oggetti. Anche se Vico fa rientrare il segno sotto la categoria del linguaggio, esso non è propriamente tale. Pur essendo una forma di comunicazione, rimane non verbale e, perciò, il rapporto tra il corpo che esercita i sensi

89 H. Blumenberg, Die Lesbarkeit der Welt, Suhrkamp, Frankfurt 1981, tr. it. di B. Argenton, a cura di R. Bodei, La leggibilità del mondo. Il libro come metafora della natura, Il Mulino, Bologna 1984, p. 179. 90 SN44, §§ 228-230.

e la mente che li rielabora con la fantasia è ancora diretto. Solo con la nascita della locuzione poetica, la parola diventa veramente il medio tra la mente e il corpo, poiché essa, indirettamente, risveglia nella mente dei primi uomini, l'esperienza che è collegata a tale termine. Si ha perciò un primo spostamento da una forma di linguaggio visiva, cioè il parlare muto dei miti, a una di tipo uditivo, che è quella dei primi canti.

Sia chiaro, questo passaggio non è immediato ma molto lento e non si arriva direttamente al linguaggio articolato. Infatti «le lingue debbon aver incominciato da voci monosillabe»91. Queste prime espressioni si formano, dopo la scoperta di Giove, grazie all'azione delle passioni sui primi uomini:

Seguitarono a formarsi le voci umane con l'interiezioni, che sono voci articolate all'émpito di passioni violente, che 'n tutte le lingue son monosillabe. Onde non è fuori del verisimile che, da' primi fulmini incominciata a destarsi negli uomini la maraviglia, nascesse la prima interiezione da quella di Giove, formata con la voce «pa!», e che poi restò raddoppiata «pape!», interiezione di maraviglia, onde poi nacque a Giove il titolo di «padre degli uomini e degli dèi»92.

Praticamente, il suono “pa” prodotto dallo scarico a terra del fulmine, come segno di meraviglia, viene con il tempo raddoppiato, attraverso un processo naturale, in “pape”. E questo “pape”, che è riferito al cielo da cui è scaturito il fulmine e perciò a Giove, viene poi mutato in “padre”.

Lo schema della nascita delle parole, perciò, prende avvio dal monosillabo e da questo passa ai nomi, alle particelle e infine ai verbi, i quali vengono declinati prima al solo imperativo e poi secondo tutte le altre forme.

Finalmente gli autori delle lingue si formarono i verbi, come osserviamo i fanciulli nomi, particelle e tacer i verbi. Perché i nomi destano idee che lasciano fermi vestigi; le particelle, che significano esse modificazioni, fanno il medesimo; ma i verbi significano moti, i quali portano l'innanzi e 'l dopo, che sono misurati dall'indivisibile del presente, difficilissimo ad intendersi dagli stessi filosofi93.

Nomi e particelle sono fondamentali, perché servono a risvegliare le idee degli oggetti impresse nella memoria. Ma il vero e proprio passaggio a un linguaggio articolato si ha con l'introduzione dei verbi all'interno della frase, i quali servono a esprimere un'azione e i suoi moti. I verbi, sostiene Vico, vengono prima pronunciati come imperativi. Questo

91 Ivi, § 231. 92 Ivi, § 448. 93 Ivi, § 453.

perché è solo attraverso l'imperativo che i padri delle famiglie possono trasmettere l'ordine ai “famoli” e inoltre perché esso è un tempo che si esprime soprattutto al presente. Infatti, i primi uomini non sono ancora coscienti del passato e del futuro. Ecco perché tutti gli altri modi e tempi verbali sono successivi all'imperativo. Quando si iniziano ad usare i verbi al passato e al futuro, gli uomini diventano pienamente coscienti della temporalità che li circonda. Perciò, comprendere e comunicare che il tempo influisce sulle cose del mondo, richiede il possesso di un linguaggio articolato e

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