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La mediazione tra mondo metafisico e fisico: la matematica in Vico

Nel documento Il rapporto tra mente e corpo in Vico (pagine 33-46)

Il problema che si pone a questo punto è quello di come poter arrivare a una mediazione tra metafisica e fisica. Abbiamo già visto che, nonostante le possibilità umane siano minime in confronto a quelle di Dio creatore di ogni cosa, l'uomo dalla limitatezza della sua mente crea un vantaggio grazie alla matematica, più alta verità tra tutte le creazioni umane e madre di tutte le altre scienze. Si pone quindi la necessità di analizzare in che modo la mente umana, per Vico, si serva della matematica e in che senso quest'ultima vada intesa.

Giusto a titolo di premessa, le matematiche (aritmetica e geometria), attraverso l'uno e il punto, vengono considerate da Vico come il medio tra mondo metafisico e mondo fisico. «Il mezzo proporzionato per mirare nelle fisiche cose la metafisica luce sono le sole matematiche, che da cose formate e finite, dal corpo esteso astraggono l'infinito, l'informe, il punto, e 'l si fingono indivisibile e che non ha estensione alcuna, e dal punto così definito procedono a fare la loro verità»54.

È il caso però di entrare nel dettaglio senza creare confusione presentando troppe questioni tutte insieme, così da vedere e capire in che senso la matematica diventi mediazione di due mondi tra loro incommensurabili, stando alla tesi sviluppata nel famoso capitolo IV, §1 del Liber Metaphysicus55.

Per fondare la sua teoria e darle maggiore validità grazie all'appoggio di quelli che lui definisce «nomi grandi»56, Vico attua una generalizzazione, asserendo che nella storia della filosofia si sono avuti quattro tipi di filosofi57. Si hanno quelli che per spiegare i principi delle cose considerano il corpo così com'è (ad esempio quelli che nell'antichità stabilirono come principio delle cose l'acqua, il fuoco o l'aria). La loro indagine è stata però infruttuosa in quanto questi non hanno contribuito in niente alla spiegazione del mondo fisico. Per questo vengono lasciati in secondo piano senza essere minimamente

54 Risposta II, pp. 370-71.

55 Di recente pubblicazione, su questo capitolo, è l'articolo di T. Uemura, Vico's Zeno: reading Liber Metaphysicus, chap. IV: De essentiis, seu de virtutibus, in «BCSV», XLVI, 2016, pp. 53-73.

56 Risposta II, p. 370. Questa formula è inserita in una più ampia frase che testimonia la condivisione da parte di Vico della teoria zenonista. Per citare l'intero passo: «Che se finalmente non volete ricevere questa sentenza come di Zenone, mi dispiace di darlavi come mia; ma pur la vi darò sola e non assistita da nomi grandi» (Ibidem). È lo stesso Vico che nella sua autobiografia afferma di aver studiato con il gesuita Giuseppe Ricci «scotista di setta ma zenonista nel fondo, da cui egli [Vico] […] avesse a ragionare […] i punti di Zenone, come egli ha fatto nella sua Metafisica» (Vita, p. 8).

considerati da Vico. Sono le restanti tre categorie ad aver lasciato un segno molto maggiore nella storia. In primo luogo ci sono quelli che attraverso le ipotesi naturalistiche trattano i principi della fisica e tra questi il principale esponente è Pitagora. In secondo luogo si hanno quelli che prendono le mosse da Aristotele e che indagano la realtà senza fare ipotesi, cioè si occupano delle cose naturali seguendo i dettami della metafisica. E infine c'è la categoria che prende le mosse da Epicuro e che, ignorante di metafisica e geometria, si è servita del corpo semplice esteso per spiegare i principi della materia. Essi in questo modo hanno generato molti gravi errori nei principi generali mentre hanno compiuto buoni risultati in quelli particolari. In quest'ultima tipologia viene, in qualche modo, fatto rientrare anche Cartesio. Agli occhi di Vico, egli si avvicina alla teoria di Epicuro superandola e migliorandola in quanto rimedia ai suoi errori attraverso la formulazione dei principi del moto e della formazione degli elementi. Però, come Epicuro, Cartesio sbaglia nell'assegnare questi principi alle essenze delle cose, le quali, in quanto prive di forma, non possono essere spiegate attraverso un principio fisico.

Tra Cartesio e Aristotele Vico aderisce alla prima via di Pitagora, la quale è ripresa, dopo quest'ultimo, dal sommo metafisico Zenone, il quale «abbracciò l'ipotesi dei geometri e, così come Pitagora aveva fatto con i numeri, interpretò i princìpi delle cose per mezzo dei punti»58. È a Zenone, e non a Pitagora, che Vico si riferisce e sempre si riferirà come precursore della sua teoria59. Aristotele e Cartesio stabiliscono infatti una relazione non mediata tra metafisica e fisica. Il primo studia la fisica attraverso i principi fisici, il secondo fa il contrario trasportando la fisica nella metafisica, ma in generale «la ragion dell'errore di entrambi è una: perché amendue trattarono delle cose con regola infinitamente sproporzionata»60. Vico, invece, come già fece Zenone, inserisce tra i due la matematica. Qui non si ha propriamente a che fare con la matematica così come la intende Galileo. Infatti per quest'ultimo il mondo è scritto in caratteri matematici e perciò noi dobbiamo imparare il linguaggio in cui il mondo è scritto per potercelo rendere accessibile. Vico invece considera la matematica dal punto di vista metafisico come produzione umana, come astrazione della mente non adatta per

58 Ivi, p. 67.

59 Per un inquadramento storico dello zenonismo vichiano si vedano: R. Mazzola, Vico e Zenone, in M. Sanna e A. Stile (a cura di), Vico tra l'Italia e la Francia,, Napoli, Guida 2000, pp. 311-341; P. Rossi, I punti di Zenone: una preistoria vichiana e Id., Ritratto di uno zenonista da giovane, in Id. Le sterminate antichità e nuovi saggi vichiani, La Nuova Italia, Firenze 1999, pp. 55-107 e 109-154. 60 Risposta I, p. 335.

indagare il mondo fisico, il quale può essere conosciuto in qualche modo solo attraverso la meccanica, l'esperimento. La matematica, o meglio la geometria, come la intende Vico «è quella scienza che tratta infiniti ed eterni finiti»61 e perciò è direttamente collegata alla metafisica:

Tutti sanno che la geometria ordisce il suo metodo geometrico partendo dal punto, e direttamente fino alla contemplazione dell'infinito grazie a quei suoi numerosi postulati che permettono di produrre linee senza limiti. Però se mi si chiedesse attraverso quale via il vero, o almeno quell'apparenza di vero, derivi dalla metafisica alla geometria, risponderei: assolutamente attraverso nessun'altra via se non per quell'angusto passaggio del punto. Infatti, la geometria ha desunto dalla metafisica la virtù dell'estensione, e questa, in quanto virtù dell'esteso, viene prima dell'estensione ed è perciò inestesa.

Allo stesso modo l'aritmetica desume dalla metafisica la virtù del numero, ossia l'unità che, in quanto virtù del numero, non è un numero62.

Il punto di partenza della geometria è il punto attraverso il quale si crea la linea, lo stesso vale per l'aritmetica che crea il numero dall'uno. Ma in che senso il vero o la sua apparenza derivano dalla metafisica alla geometria? Qual è il rapporto che si instaura tra metafisica e matematica?

Per capirlo è necessario concentrarsi su ciò che deriva dalla metafisica. Se l'errore di Cartesio e di Aristotele è stato quello di basarsi su una filiazione diretta tra ciò che è metafisico e ciò che non lo è, questo significa che bisogna inserire un terzo che stia tra Dio e il corpo esteso63. Abbiamo già visto che il vero in Dio è un generare ad intra, mentre è un fare ad extra. Il problema è capire come Dio crei le cose fisiche, le quali presentano un ulteriore problema all'indagine umana: sono cioè capaci di moto. Il tema generale di Vico in questi capitoli del De Antiquissima è quindi quello di conciliare due

61 Ibidem. Su questo argomento cfr. D. R. Lachterman, Mathematics and Nominalism in Vico's Liber Metaphysicus, in S. Otto e H. Viechtbauer (a cura di), Sachkommentar zu Giambattista Vicos Liber Metaphysicus, München 1985, pp. 47-85; e Id, Vico, Doria e la geometria sintetica, in «BCSV», X, 1980, pp. 10-35. Queste analisi rimangono, secondo il giudizio di gran parte della critica, fra le migliori sul tema della matematica in Vico per la grande capacità di lettura dei testi vichiani da parte dell'autore.

62 De antiquissima, pp. 61-63.

63 In queste pagine Vico cercherà di attutire la distanza con le tesi di Aristotele. Infatti dirà che riguardo al problema dei punti non c'è disaccordo tra Aristotele e Zenone perché si occupano di due cose diverse, «infatti, uno parla di atto, l'altro di virtù» (De Antiquissima, p. 69). Inoltre Vico concorda con l'affermazione aristotelica che i corpi estesi sono divisibili all'infinito. Al contrario con Cartesio Vico non cerca nessuna mediazione ed anche l'impostazione stilistica di certi passi delle risposte (ma riferisco a quando egli riporta sue teorie e subito dopo anticipa una possibile confutazione da parte del recensore) sembra strutturata come una conversazione con Cartesio o in generale, anche se non è la stessa cosa, con i cartesiani. Comunque questo nulla toglie alla stima che Vico sempre riconoscerà al filosofo francese.

caratteristiche del mondo reale che sono in sostanza distinte: l'immobilità dell'estensione con il fenomeno del moto. E ciò che qui è necessario fare è trovare un principio che sia ontologicamente e logicamente più primitivo di corpo esteso e moto e possa servire come loro fondazione esplicativa e terreno della loro possibilità64. È qui che entrano in gioco le virtù o essenze, cioè il punto metafisico e il conatus:

In natura esistono le cose estese: prima di ogni natura c'è la realtà che rifiuta ogni estensione, Dio; dunque, fra Dio e le cose estese vi è una realtà intermedia, inestesa eppure capace di estensione, costituita dai punti metafisici. E non c'è davvero altro modo per stabilire migliore simmetria o, come si dice, “proporzione” fra le cose: da una parte quiete, conato, moto; dall'altra Dio, materia e corpo esteso.

Dio, motore di tutte le cose, è in sé nello stato di quiete, la materia agisce attraverso i conati, i corpi estesi vengono mossi, e come il moto è modo del corpo e la quiete è attributo di Dio, così il conato è qualità del punto metafisico. E come il punto metafisico è indefinita virtù dell'estensione, che sottostà, uguale, a estensioni diseguali, così il conato è indefinita virtù del movimento, che suscita moti diseguali65.

Ecco qui la mediazione tra Dio e il mondo esteso: cioè la materia, il punto metafisico. Allo stesso modo in cui questa da Dio genera le cose, il conatus, qualità del punto metafisico e che quindi è all'interno di esso, determina il moto dei corpi66. Perciò il punto metafisico come sede del conato diventa il medio tra due estremi altrimenti inconciliabili. In quanto i punti metafisici (e con essi il conatus) sono delle virtù essi non appartengono al mondo fisico, ma contribuiscono comunque a crearlo così come noi lo vediamo.

Gli oggetti hanno delle grandezze che i punti in quanto essenze metafisiche non hanno. Come scrive nella prima Risposta: «l'uno, virtù del numero, genera il numero e non è

64 Lachterman (Mathematics and Nominalism..., op. cit., p. 54) fa notare come questo sia un tema che preoccupa sia Spinoza, Leibniz e con loro molti altri filosofi dell'età moderna nella discussione che essi pongono con e contro Cartesio.

65 De Antiquissima, p. 73.

66 È il caso di sottolineare che in queste pagine il conatus è usato in un contesto diverso rispetto ai suoi usi successivi. Infatti Vico lo considera in una prospettiva meramente metafisica come ciò che determina il moto nel mondo fisico. Badaloni ha molto insistito sul fatto che Vico consapevolmente riprenda e pensi di completare le analisi galileiane sul moto trasportandole appunto dalla fisica alla metafisica (N. Badaloni, Introduzione a Vico, Laterza, Roma-Bari, 1988, in particolare pp. 19-26). Contro questa tesi si è sempre scagliato P. Rossi. Giusto per fare un esempio: P. Rossi, Devozioni vichiane, in «Rivista di Filosofia», LXXXVI, 1995/2, pp. 387-428. Al di là di questo dibattito nelle prossime pagine ci sarà modo di concentrarsi sul conato e soprattutto si vedrà come nelle opere successive (già a partire dal Diritto Universale fino ad arrivare alla Scienza Nuova) il conato diventi – senza però dimenticare la sua provenienza metafisica – ciò che contribuisce a risvegliare la mente degli uomini inselvatichiti tenendo a freno i loro smodati desideri. Il conatus viene quindi inserito in un contesto legato alle passioni che può facilitare anche un confronto con l'uso dello stesso termine da parte di Spinoza.

numero; così il punto, virtù dell'estensione, fa il disteso, né è disteso. […] 'l conato, virtù del moto, produce il moto, né però è moto»67. Ecco qui la funzione del punto come mediazione (ma lo stesso dicasi del conatus e dell'uno): crea il corpo esteso ma estensione non è nella misura in cui è un principio che deriva da Dio, essere che non ha estensione.

Anche il conatus come ciò che sottintende a movimenti diseguali pone un problema metafisico non adeguatamente risolto in passato. Infatti tutto ciò che appartiene alla realtà esterna si pone sotto forma di grandezze diverse e si muove secondo moti diversi. Ed è in questa considerazione, che segna la differenza fra virtù metafisiche e ciò ce appartiene al mondo fisico, che sta l'errore di Cartesio.

Vico si riferisce qui al secondo discorso de La Diottrica dove il filosofo francese tratta della rifrazione. Egli è sostanzialmente d'accordo con la spiegazione di Cartesio per cui il movimento e la sua determinazione sono diversi poiché sotto quest'ultima può esserci una maggiore quantità di moto. Bisogna perciò dare ragione a Cartesio quando dalla sua spiegazione conclude che ci sono più moti sotto una stessa determinazione. Il problema sta però nel fatto che egli non spiega la ragione che sta dietro a questa diversità. L'errore del filosofo francese è quello di non considerare la sostanza, la quale viene prima e genera il movimento. Egli, a differenza di Zenone, trascura «che sotto la linea diagonale e quella laterale vi sia uguale virtù dell'estensione, così un'uguale virtù del movimento sottostà al moto retto e al moto obliquo»68.

In Vico la molteplicità che caratterizza il mondo fisico viene ricondotta sotto un'unica virtù metafisica sempre identica a se stessa che però determina fenomeni che si manifestano in forme differenti. Questo porta Lachterman a chiamare la metafisica vichiana come equalization of the unequal69, una concezione che è appunto resa possibile dal fatto che in Vico infinità, indivisibilità e unità sono concetti identici, cioè appartenenti tutti a Dio. Infatti «in ogni parte distesa, atto finito, in ogni moto, atto terminato, siavi sotto virtù o potenza di estensione e di moto sempre uguale a se stessa, cioè, in tutti gli attuali distesi ed attuali movimenti, infinita»70.

A questo punto e dopo quanto è stato esposto fin dall'inizio si può porre una domanda: come può la limitata mente umana conoscere una questione metafisica così importante?

67 Risposta I, p. 335. 68 De Antiquissima, p. 75.

69 D. R. Lachterman, Mathematics and Nominalism..., op. cit., p. 56. 70 Risposta II, p. 374.

Se l'uomo conosce come vero solo ciò che ha fatto, non è impossibile che egli possa comprendere la fondazione del creato dal momento che è qualcosa di generato da Dio? Come riesce l'uomo a rendersi chiara la questione della creazione divina? E inoltre, è veramente chiaro questo processo?

Qui entra in gioco la matematica, o meglio la geometria. Vico, così come fanno i filosofi zenoniani tra cui va annoverato lui stesso, presta alla geometria la capacità di creare un modello dei fondamenti metafisici dei fenomeni fisici. Il punto geometrico creato dalla mente umana viene ad essere un corrispettivo del punto metafisico che realmente crea i corpi estesi. Tutti e due presentano le stesse caratteristiche perché entrambi pur non essendo estesi per sé sono allo stesso tempo capaci di estensione: «ma l'uno e 'l punto sono indivisibili, e pure fanno il diviso; quello il numero, questo la linea, e tutto ciò nel mondo degli astratti»71. Infatti il punto così come viene pensato nella mia testa è un qualcosa che non ha parti, è cioè un principio infinito legato all'estensione astratta. Ma appena viene tracciato diventa qualcosa di esteso e perde lo statuto di punto. «Come il punto, che non è disteso, con un escorso faccia l'estension della linea, così vi sia una sostanza infinita che con un suo come escorso, che sarebbe la generazione, dia forme alle cose finite»72. È in questo senso che si ha un'analogia tra la creazione divina e quella umana ed è solo in questo caso che il fare umano è sommamente vero. Entrambi infatti creano (è da notare il fatto che per la sostanza infinita si continua a parlare di generare) attraverso un escorso. Questo termine viene italianizzato dal latino excursus, perfetto di

excurro, cioè un correre fuori o in senso figurato uscire fuori. Così come le cose

generate da Dio è come se uscissero dalla sua mente nel momento stesso in cui le pensa, in modo simile, riguardo alla geometria, non si può parlare della linea come una serie infinita di punti ma come una specie di flusso. Attraverso questa immagine dell'escorso, Vico rende bene l'idea di come la matematica possa essere così fortemente legata alla metafisica73.

Inoltre è importante capire, per rispondere alla domanda precedente – cioè se il processo metafisico che porta alla creazione sia veramente chiaro – che questo è solamente un modello matematico che è sicuramente vero in quanto permette di comprendere la struttura della transizione che dal metafisico va al mondo fisico, ma allo stesso tempo

71 Ivi, p. 357. 72 Vita, p. 41.

non si può avere, per dirla con Cartesio, una conoscenza chiara e distinta di questo passaggio. La creazione attraverso il punto geometrico rimane solo un'immagine del modello divino. Questo non è da poco perché ci permette di comprendere come avviene la creazione divina ma allo stesso tempo non ci consente di conoscere le cose in sé poiché l'uomo non ha fatto il mondo della natura. Se non si può parlare di una via diretta per conoscere la natura (e da questa Dio), rimane solo una via indiretta attraverso la matematica, la sola che ci permette di far discendere la fisica dalla metafisica: «l'unica ipotesi, per la quale dalla metafisica nella fisica discender giammai si possa, sieno le matematiche»74. Per cui quello che a Vico preme di mostrare sono i principi secondo cui il mondo naturale funziona e insieme a ciò far vedere come questi derivino tutti da Dio. È a partite da queste conclusioni che Vico muove nelle due risposte al De Antiquissima una polemica verso Galilei. Il filosofo pisano ha il merito, agli occhi di Vico, di aver inserito la geometria tra la metafisica e la fisica aprendo così la strada alla verità. Il problema è che Galilei non si spinge fino alla metafisica ma si ferma ai problemi fisici indagandoli attraverso la geometria e per questo motivo è arrivato a considerare come diversi gli indivisibili e l'infinito, postulando allo stesso tempo l'esistenza di più infiniti. Se guardiamo l'ultima opera galileiana possiamo infatti leggere per bocca di Salviati: «l'infinito è per sé solo da noi incomprensibile, come anco gl'indivisibili» e poco oltre continua dicendo che queste sono le difficoltà che nascono dal trattare degli infiniti con il nostro intelletto finito arrivando così a dare loro gli attributi che spettano alle cose finite; «il che penso che sia incoveniente, perché stimo che questi attributi di maggioranza, minorità ed egualità non convenghino agl'infiniti, de i quali non si può dire, uno esser maggiore o minore o eguale all'altro»75. Risulta perciò chiaro, anche alla luce di quanto è stato detto prima riguardo all'equalization of the unequal, il motivo del rifiuto di questa concezione galileiana da parte di Vico. «Non sono più infiniti, ma uno in tutte le sue finite parti, quanto si voglia inuguali, uguale a se stesso. Uno è l'indivisibile, perché uno è l'infinito, e l'infinito è indivisibile, perché non ha in che dividersi, non potendo dividerlo il nulla»76.

Spesso la teoria dei punti metafisici è stata ingiustamente additata come una tesi

74 Risposta II, p. 369.

75 G. Galilei, Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, in G. Galilei, Le Opere, op. cit., vol VIII, pp. 76-78.

strettamente nominalista, cioè convenzionale e finzionalista77. Ad una prima lettura questo potrebbe anche sembrare vero poiché lo stesso Vico scrive che

quando il geometra definisce il punto come qualcosa privo di parti, ne fornisce solo una definizione nominale, dal momento che non si offre cosa alcuna che, pur priva di parti, possa essere tracciata con la mente o con una penna. Ugualmente si tratta

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