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La citazione e l'allusione come pratiche antidogmatiche nei Saggi di Montaigne

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INDICE

INTRODUZIONE, p. 3.

I.IL PROBLEMA DEL LINGUAGGIO SCETTICO.

I.1. La riscoperta rinascimentale dello scetticismo pirroniano, p. 8. I.2. Il linguaggio come strumento antidogmatico, p. 12.

I.3. L’afasia come strumento antidogmatico, p. 18.

I.4. L’afasia come attitudine proposizionale non assertiva, p. 20.

II.L’ATTITUDINE SCETTICA DI MONTAIGNE: OSSERVAZIONE DI SÉ E INCOSTANZA DEL GIUDIZIO.

II.1. Oltre la «crisi scettica», p. 24.

II.2. L’incostanza del giudizio: da esperienza personale a considerazione antropologica, p. 29.

II.3. L’incostanza del giudizio umano: una qualità da favorire, p. 36. II.4. In cerca del nuovo linguaggio scettico, p. 40.

II.5. In cerca di una nuova cura antidogmatica, p. 45. II.6. Oltre il «Que sais-je?», p. 50.

III.LA CITAZIONE COME TECNICA DISCORSIVA ANTIDOGMATICA.

III.1. Un nuovo modo di citare: l’emprunt di Montaigne, p. 54.

III.2. La concezione critica del sapere e l’esigenza di un discorso antidogmatico, p. 61. III.3. L’effetto polifonico delle citazioni, p. 67.

III.4. Dall’esposizione delle opinioni all’esame critico della capacità di giudizio, p. 74. III.5. La scrittura polifonica come riproduzione dell’arte di conversare, p. 78.

III.6. L’osservanza delle norme comuni come punto di riferimento critico della prassi, 82. III.7. La citazione come punto di riferimento critico del pensiero, p. 87.

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2

IV. LO STILE ALLUSIVO E L’INTERTESTUALITÀ, COME MODI DI SCRIVERE SENZA AFFERMARE.

IV.1. Un modo allusivo di delineare il proprio stile, p. 93.

IV.2. Le citazioni non identificate e il «linguaggio spezzato», p. 98. IV.3. La concisione espressiva e la polivalenza degli enunciati, p. 104. IV.4. L’evocazione di intertesti non identificati, p. 108.

IV.5. La scrittura allusiva, come modo di selezionare i «lettori perspicaci», 112. IV.6. Un modo allusivo di delineare il nuovo linguaggio scettico, p. 116.

INDICE DEI CAPITOLI CITATI NEI SAGGI, p. 122.

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I

NTRODUZIONE

:

«Dobbiamo esortare i pigri di cui parlavamo a mettere insieme il resto da soli, una volta che l’intelligenza abbia fatto loro comprendere i punti essenziali, tenendo a mente quanto hanno ascoltato perché sia loro da guida nel proseguimento della ricerca e accogliendo la parola altrui come principio e seme da sviluppare ed accrescere. La mente non ha bisogno, come un vaso di essere riempita, ma piuttosto, come legna, di una scintilla che l’accenda e vi infonda l’impulso della ricerca e un amore ardente per la verità. Come uno che andasse a chiedere del fuoco ai vicini, ma poi vi trovasse una fiamma grande e luminosa e restasse là a scaldarsi fino alla fine, così chi si reca da un altro per prendere la sua parola ma non pensa di dovervi accendere la propria luce e la propria mente, e siede incantato a godere di ciò che ascolta, trae dalle parole solo un riflesso esterno, come un volto che s’arrossa e s’illumina al riverbero della fiamma, senza riuscire a far evaporare e scacciare dall’anima, grazie alla filosofia, quanto vi è dentro di fradicio e buio»1.

Come scrive Plutarco nel De recta ratione audiendi, colui che ascolta non ha minore responsabilità di colui che insegna. Allo stesso modo, colui che legge non ha oneri di intelligenza e di spirito critico minori di colui che scrive.

Dovremmo porre queste considerazioni all’inizio di ogni ricerca, come monito ed auspicio. A maggior ragione dobbiamo porle all’inizio del nostro studio, dal momento che, verosimilmente, Montaigne pensa anche a questo passo colmando i Saggi di accenni e di indizi, e esortando «i pigri a mettere insieme il resto da soli».

Speriamo, per questo, di porci fra quei «lettori perspicaci» che invoca Montaigne, capaci di intuire i contenuti nascosti dalle dichiarazioni superficiali. E non perché pensiamo di essere particolarmente lungimiranti, ma perché pensiamo che Montaigne abbia solo accennato a molte concezioni per non formularle in modo assertivo.

Uno dei temi più dibattuti fra gli studiosi di Montaigne è il suo orientamento pirroniano. Infatti, pur smentendo in modo pressoché unanime la «crisi scettica» seguita alla lettura degli Schizzi pirroniani, alcuni interpreti hanno attribuito il dubbio del filosofo francese al momento storico di generale crisi dei valori; altri al fideismo del periodo controriformistico; altri ancora alla sua nuova concezione antropologica.

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4 Per quanto ci riguarda, ci poniamo fra gli interpreti dell’ultimo gruppo; e poniamo la concezione dell’incostanza umana alla base del nuovo linguaggio scettico cui accenna Montaigne.

Nell’Apologia di Raimond Sebond Montaigne presenta il pirronismo come l’unica via percorribile, ma contesta a Sesto il mantenimento della forma assertiva. Pertanto, dopo aver giudicato insoddisfacente la metafora del linguaggio auto-purgativo, presenta la formula «Que sais-je?» come modello di nuove enunciazioni in forma interrogativa. Oltre a questa formula, però, il filosofo non articola la proposta; e la nostra ricerca tenta di comprendere i motivi di questa reticenza.

Esprimere principi, criteri e scopi dello scetticismo costituisce un problema fin dai primordi della tradizione pirroniana. Avendo a disposizione l’unica forma enunciativa dell’affermazione, infatti, gli scettici finiscono per stabilire canoni definitivi, contraddicendo la loro vocazione antidogmatica.

Pensiamo che Montaigne non voglia ripetere l’errore. E che passi sotto silenzio gli sviluppi del linguaggio interrogativo per non formulare una teoria del nuovo linguaggio scettico, e per invitarci a cercare, oltre questa dichiarazione esplicita, le concezioni cui accenna in modo allusivo.

«Plutarco, da quando è francese» costituisce una fonte di ispirazione e di emulazione fra le più proficue alla formazione di Montaigne, tanto che il filosofo dice di non poter fare a meno di «saccheggiare» i suoi testi e di provare enorme reverenza nei suoi confronti2. Tuttavia, le Opere morali non scampano alla sorte cui Montaigne destina tutte le proprie letture, interpretandole e dirottandone gli enunciati verso nuovi scopi e nuove tematiche. Nel De recta ratione audiendi Plutarco descrive il comportamento da tenere al cospetto di coloro che insegnano e di coloro che, semplicemente, parlano. A delineare la cornice pedagogica basta la dedica al giovane Nicandro, che ha perso la tutela dei propri maestri, e inizia a provvedere in modo autonomo alla propria formazione.

Nel capitolo Dell’educazione dei fanciulli Montaigne dimostra lo stesso interesse pedagogico, e adoperando - senza segnalarlo - la metafora plutarchea, paragona l’ottusità di coloro che memorizzano ma non assimilano le citazioni alla sprovvedutezza di coloro che si scaldano al fuoco altrui ma non si procurano la legna per scaldarsi a casa propria. Attraverso queste analogie, però, intravediamo un modo particolare di reinterpretare lo stile allusivo di Plutarco; e pensiamo che Montaigne lo intenda non tanto come un modo

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5 per sollecitare l’attenzione degli uditori-lettori, quanto per esprimere i principi dello scetticismo senza affermarli in modo univoco né imporli come veri.

Sotto questa nuova prospettiva, perciò, il nostro ruolo di lettori perspicaci cambia. E da scopritori di ricchezze impreviste dall’autore, diventiamo interpreti di accenni che l’autore ha orientato verso una precisa, sebbene inespressa, direzione.

«La parola è per metà di colui che parla, per metà di colui che l’ascolta. Questi deve prepararsi a riceverla secondo l’intonazione che essa prende. Così fra coloro che giocano a palla, quello che sta sulla difesa si sposta e si prepara secondo che vede muovere quello che gli lancia il colpo, e secondo la direzione del colpo»3.

Nel capitolo Dell’esperienza Montaigne - di nuovo, senza segnalarlo - preleva dal De

recta ratione audiendi l’immagine del gioco con la palla, che Plutarco ha usato per

rappresentare la sintonia collaborativa fra maestro e allievo. Anche se il filosofo francese sembra rappresentare la stessa reciprocità nella comunicazione in generale, in realtà sta segnalando il ruolo di preminenza che colui che formula il discorso esercita su colui che lo riceve.

Colui che riceve il colpo, infatti, deve adeguarsi alla forza e alla direzione che il lanciatore dà alla palla. Allo stesso modo, colui che ascolta un discorso deve seguire la piega che gli dà colui che lo enuncia; e, non di meno, noi che leggiamo i Saggi dobbiamo seguire la linea che Montaigne traccia nella trama discorsiva.

Seguire il tracciato dei pensieri di Montaigne, però, non è stata cosa facile. Come egli stesso afferma, la sua scrittura procede in modo «troppo conciso, disordinato, spezzato», ostacolando qualsiasi interpretazione che intenda individuare un tema portante fra i vari brani di discorso. Tuttavia, malgrado la difficoltà di trovare e di mettere insieme i passi dove egli accenna al nuovo linguaggio scettico, non abbiamo desistito. E, al contrario, abbiamo visto queste difficoltà come l’ammonimento a non fermarci alla superficie dei discorsi; a cercare di comprendere non cosa egli dice, ma come egli lo dice.

Sapendo che Montaigne ha rimproverato a Sesto la formulazione assertiva dei principi scettici, non possiamo pensare che, a sua volta, affidi la propria opinione a discorsi

3 Saggi III 13, p. 2029. Per la stessa immagine in Plutarco, «Quando si gioca a palla le mosse di chi riceve devono essere in sintonia con quelle di chi lancia: così in un discorso c’è sintonia tra chi parla e chi ascolta se entrambi sono attenti ai loro doveri», in PLUTARCO, De recta ratione audiendi, cit., p. 271.

(6)

6 altrettanto assertivi. Ma non possiamo nemmeno pensare che li affidi a discorsi interrogativi, perché, a parte il celebre «Que sais-je?», Montaigne li usa raramente nei

Saggi.

Abbiamo dunque confrontato gli Schizzi pirroniani e i Saggi, cercando una differenza di stile espressivo, che potesse guidarci a scoprire il modo nuovo in cui Montaigne esprime l’attitudine dubitativa. E abbiamo trovato che, a differenza di Sesto, Montaigne effettua citazioni, trascrivendole in lingua originale, lasciandole sprovviste di indicazione di autore, e isolandole tipograficamente.

Non meno dibattuto delle interpretazioni sulla sua attitudine pirroniana è il tema del suo modo di effettuare citazioni, per il quale pensiamo impossibile una soluzione definitiva. Tuttavia, fra i «lettori [evidentemente] negligenti», che hanno interpretato le citazioni di Montaigne come massime morali; e fra i «lettori perspicaci», che hanno visto il loro valore emblematico; valorizzato la loro natura di «formule»; sottolineato la loro polivalenza semantica, pensiamo di porci anche noi, per proporre una prospettiva ancora da approfondire.

Naturalmente, nei Saggi non ci sono passi in cui Montaigne parla degli effetti antidogmatici che noi vediamo nel suo modo di citare.

Ma questa reticenza non ci dissuade, bensì ci sprona a cercare accenni e indizi, come «semi da raccogliere e sviluppare» e «da mettere insieme da soli».

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7

I.

I

L PROBLEMA DEL LINGUAGGIO SCETTICO

.

I.1. La riscoperta rinascimentale dello scetticismo pirroniano.

La domanda sulla possibilità di comprendere, comunicare, insegnare i principi dello scetticismo è antica quanto lo scetticismo stesso.

I primi che considerarono lo scetticismo come oggetto di riflessione, infatti, riscontrarono fin da subito il problema di pensare e di scrivere enunciando le proposizioni in modo assertivo. E sentirono che, scrivendoli, avrebbero potuto teorizzare i principi scettici nell’atto stesso di perorare un’attitudine di pensiero antidogmatica.

Sesto e Diogene reagirono a questo problema in modo diverso. Negli Schizzi pirroniani, Sesto tracciò i lineamenti scettici per agevolare la loro comprensione anche da parte degli uomini che pensavano di poter conoscere la verità; e destituì le proprie affermazioni di ogni valore teoretico:

«Onde, ragionevolmente, pare che tre siano le filosofie principali, la dogmatica, l’academica, la scettica. Delle prime due si converrà ad altri parlare. Dell’indirizzo scettico diremmo sommariamente ora noi, premettendo che nulla di quanto sarà detto intenderemo affermare che sia proprio così come noi diremo, ma, con intento investigativo, intorno a ciascuna cosa riferiremo quello che al presente ci pare»4.

Al contrario, nelle Vite dei Filosofi, Diogene dichiarò di avere un movente dossografico e un materiale documentario su cui lavorare:

«È possibile comprendere, dagli scritti che gli Scettici hanno lasciati, tutto intero il modo delle loro deduzioni conclusive. Pirrone, invero, non lasciò nulla di scritto, ma i suoi alunni e compagni nella ricerca Timone, Enesidemo, Numenio, Nausifane ed altri ancora, sì»5.

4 S

ESTO EMPIRICO, Schizzi pirroniani (d’ora in poi HP), a cura di A. Russo, Roma-Bari 2009, HP I 4. 5 D

IOGENE LAERZIO, Vite e dottrine dei più celebri filosofi (d’ora in poi DL), a cura di G. Reale, Milano 2005, DL IX 102.

(8)

8 Dunque, non condividendo i principi scettici che esprimeva, il dossografo sentì di poter tracciare il quadro complessivo dello scetticismo antico e di non doversi sentire in difficoltà come, invece, successe a Sesto6.

In modo simile all’autore delle Vite dei Filosofi, ci prefiggiamo un obiettivo storico-filosofico che ci legittima a parlare di scetticismo senza formulare in modo definitivo i suoi caratteri. A sua differenza, però, pensiamo che nemmeno la prospettiva storiografica autorizzi a produrre una visione d’insieme definitiva.

Infatti, parlando come Spinelli di Scetticismi antichi, vediamo nelle numerose versioni di scetticismo qualcosa di più di semplici variazioni su un tema, e focalizziamo gli orientamenti personalizzati che ogni pensatore scettico ha potuto sviluppare vista la mancanza di una dottrina programmatica cui identificarsi7. Dunque, respingiamo la tentazione di una spiegazione monolitica, e ci limitiamo a valutare la dimensione idiosincratica rappresentata, in particolare, da Pirrone. O, ancor più precisamente: ci limitiamo a valutare non tanto l’influenza del pensiero di Pirrone sullo scetticismo antico, bensì la ricezione della tradizione pirroniana da parte di Michel de Montaigne.

Anzitutto, distinguiamo la figura di Pirrone dal Pirrone storico, considerando che quest’ultimo ha poco a che fare con il personaggio che Enesidemo pone nel I sec. a.C. a rappresentare lo scetticismo zetetico, estraneo alla storia dell’Accademia e alla sua degenerazione dogmatica a partire da Arcesilao8.

E, pur ammettendone gli esiti mistificanti, poniamo la tradizione pirroniana alla base della nostra ricerca su Montaigne, visto che questi ha confermato la propria attitudine dubitativa proprio leggendo gli Schizzi pirroniani - inscritti nella tradizione suddetta9.

6 Per l’impossibilità di comunicare e di insegnare i principi di un’attitudine di pensiero, cfr. HP III 252-273. 7

Per la mancanza di un programma scettico, cfr. HP I 16-17, e DL I 8. Cfr. anche G.GIANNANTONI, Pirrone,

la scuola scettica e il sistema delle «successioni», in ID., Lo scetticismo antico, Atti del convegno organizzato

dal centro di studio del pensiero antico del C.N.R. (Roma, 5-8 novembre 1980), Napoli1981, pp. 11-34. Per la formula di Emidio Spinelli, cfr. le sue Questioni scettiche: letture introduttive al pirronismo antico, Roma 2005, p. 1. Per la convenienza di studi singoli per ogni pensatore scettico, cfr. F. DECLEVA CAIZZI,

Prolegomeni ad una raccolta delle fonti relative a Pirrone di Elide, in G. GIANNANTONI (a cura di), Lo

scetticismo antico, cit., p. 107. 8

E.SPINELLI, Questioni scettiche, cit., p. 3.

9 Per la ricostruzione filologica del pensiero di Pirrone, cfr. F. D

ECLEVA CAIZZI, Pirrone, pirroniani,

pirronismo, in W. BURKERT [ET AL.](a cura di), Fragmentsammlungen philosophischer Texte der Antike, Atti del seminario internazionale (Ascona, Centro Stefano Franscini, 22-27 settembre 1996), Göttingen 1998, pp. 336-53. Per un’edizione critica delle testimonianze sul pensiero e sulla vita di Pirrone, cfr. F. DECLEVA

(9)

9 Nei Saggi, infatti, individuiamo molti rimandi all’opera sestana, sia sotto forma di puntuali traduzioni dal latino al francese, sia come evocazioni concettuali più rarefatte10; ma pur riconoscendo rimandi e analogie, non possiamo non notare la grande originalità con la quale Montaigne riusa tropologia, conformismo, e centralità del linguaggio. Pertanto, tralasciando la rielaborazione anti-antropocentrica delle prime due tematiche, ci concentriamo, invece, sulle ragioni polemiche che Montaigne concepisce contro il linguaggio auto-purgativo degli scettici antichi.

Prima di farlo, però, pensiamo opportuno individuare quali furono le fonti scettiche disponibili a Montaigne, e quando le traduzioni di Henri Estienne e Gentian Hervet portarono i pensatori europei a conoscenza dell’opzione pirroniana dello scetticismo antico11.

Anzitutto, precisiamo che Montaigne lesse solo l’edizione di Estienne12, e che, come Sesto, pensa che Pirrone rappresenti l’unico modo valido di praticare lo scetticismo:

«Chi imprende una ricerca qualsiasi, conviene che metta capo o alla scoperta di ciò che cercava, o alla negazione di esservi riuscito e alla confessione che la cosa è incomprensibile, o alla persistenza della ricerca stessa. Così, anche, di coloro che le loro ricerche volsero alla filosofia, alcuni avrebbero affermato di aver trovato la verità, altri avrebbero dichiarato di trattarsi di cosa incomprensibile, altri persisterebbero tuttora a cercare. Ritengono d’averla trovata coloro che, con denominazione particolare, sono chiamati Dogmatici, come gli Aristotelici, gli Epicurei, gli Stoici ed altri. Ne dichiarano la incomprensibilità i seguaci di Clitomaco e Carneade ed altri accademici. Continuano a cercare gli Scettici. Onde, ragionevolmente, pare che tre siano le filosofie principali, la dogmatica, l’academica, la scettica»13.

Entrambi gli autori, infatti, imputano all’Accademia di fondare l’atteggiamento scettico sull’affermazione dogmatica dell’incomprensibilità delle cose:

10 Montaigne non conosce il greco, e usa la traduzione latina degli Schizzi pirroniani edita da Henri Estienne nel 1562.

11

SESTO EMPIRICO, Pyrrhoniarum hypotyposeon libri tres, edita da Estienne nel 1562. Nel 1569, Hervet

riedita l’opera con l’aggiunta dell’Adversus Mathematicos, hoc est, adversus eos qui profitentur disciplinaS.. 12 P. V

ILLEY, Les sources et l’évolution des Essais de Montaigne, New York 1968, vol. I, p. 288., dove l’autore lo deduce dall’assenza nei Saggi di rimandi all’Adversus Mathematicos,

13

(10)

10 «Chiunque cerca qualcosa, arriva a questo punto: o dice che l’ha trovata, o che non si può

trovare, o che ne è ancora in cerca. Tutta la filosofia è divisa in questi tre generi. Il suo proposito è cercare la verità, la scienza e la certezza. I peripatetici, gli epicurei, gli stoici e gli altri hanno creduto di averla trovata. Hanno stabilito le scienze che abbiamo e le hanno trattate come conoscenze sicure. Clitomaco, Carneade e gli accademici hanno disperato della loro ricerca, e giudicato che la verità non potesse essere concepita con i nostri mezzi. La conclusione di costoro è la debolezza e l’ignoranza umana. Questo partito ha avuto il maggior seguito e i seguaci più nobili. Pirrone ed altri scettici o efettici, le cui opinioni parecchi antichi hanno ritenuto tratte da Omero, dai sette saggi, da Archiloco, da Euripide, e vi aggiungono Zenone, Democrito, Senofane, dicono di essere ancora in cerca della verità. Essi ritengono che coloro che pensano di averla trovata s’ingannano infinitamente; e che c’è anche una vanità troppo sfacciata in quella seconda posizione che afferma che le forze umane non sono capaci di raggiungerla. Poiché questo stabilire la misura della nostra forza, questo conoscere e giudicare la difficoltà delle cose, è una scienza grande e sublime della quale dubitano che l’uomo sia capace. Chi pensa che non si possa sapere nulla, non sa

nemmeno se si può sapere tanto da potere dire di non sapere nulla. L’ignoranza che si

conosce, che si giudica e che si condanna non è ignoranza totale: per esserlo bisogna che ignori se stessa»14.

Notiamo, tuttavia, che, anche se questo confronto dimostra l’uso dell’opera sestana a favore dello scetticismo pirroniano, non mancarono autori moderni che, come Giordano Bruno, trassero dal testo il materiale per esprimere il loro dissenso verso lo scetticismo in generale:

«SEBASTO.Questi poltroni per scampar la fatica di dar raggioni delle cose, e per non accusar la loro inerzia et invidia ch’hanno all’industria altrui, volendo parer migliori, e non bastandoli d’occultar la propria viltade, non possendoli passar avanti né correre al pari, né aver modo di far qualche cosa del suo, per non pregiudicar alla loro vana presunzione confessando l’imbecillità del proprio ingegno, grossezza di senso e privazion d’intelletto, e per far parer gli altri senza lume di giudicio della propria cecitade, donano la colpa alla natura, alle cose che mal si rapresentano, e non principalmente alla mala apprensione dei dogmatici: perché con questo modo di procedere sarebbono costretti di porre in campo al paragone la lor buona apprensione, la quale avesse parturito meglior fede, dopo aver generato meglior concetto ne gli animi di quei che si delettano delle contemplazioni di cose naturali. Or dumque essi volendo con minor fatica et intelletto, e manco rischio de perdere il

14 M.

DE MONTAIGNE, I Saggi (d’ora in poi Saggi) II 12, a cura di F. Garavini e A. Tournon, Milano 2012, p. 909. Il corsivo è traduzione di Lucrezio, De rerum natura, IV, 469.

(11)

11 credito, parer più savii che gli altri, dissero gli Efettici che nulla si può determinare, perché

nulla si conosce: onde quelli che stimano d’intendere e parlano assertivamente, delirano più in grosso che quei che non intendono e non parlano. Gli secondi poi detti Pirroni, per parer essi archisapienti, dissero chené tampoco questo si può intendere (il che si credeano intendere gli Efettici): che cosa alcuna non possa esser determinata o conosciuta»15.

Ad ogni modo, però, ciò che è certo è che l’edizione latina di Estienne costituì un evento epocale per la cultura europea, permettendole di prendere atto della natura eteroclita dello scetticismo antico, e di individuare al suo interno almeno due anime - quella accademica, promulgatrice dell’incomprensibilità delle cose; e quella pirroniana, sostenitrice della continuità della ricerca16.

15G.B

RUNO, La cabala del cavallo Pegaseo, in ID., Dialoghi filosofici italiani, a cura di M. Ciliberto, Milano 2000, p. 733. Segnaliamo p. 710, dove Sebasto chiede a Saulino di spiegargli la seconda delle tre specie di asinità elencate a p. 709, accomunando «Pirroniani, Efettici, e altri academici filosofi». Segnaliamo, però, che pur attribuendo agli «Academici» gli epiteti pirroniani elencati da Diogene in DL IX 70, Bruno distingue Academici da Pirroniani dal fatto che i primi affermano l’impossibilità di conoscere (cfr. ID.,p. 731).

16 C.B.S

CHMITT, Cicero scepticus:a study of the influence of the Academica in the Renaisseance, The Hague, 1972, pp.7 e sg., dove Schmitt allude a HP I 220-235.

(12)

12

I.2. Il linguaggio come strumento antidogmatico.

Anzitutto, precisiamo che le traduzioni di Estienne e di Hervet non costituirono un evento epocale dal punto di vista documentario, visto che manoscritti greci del corpus sestano circolavano già dal Quattrocento17, e il IX libro che Diogene dedica al pirronismo dal 1433. Nondimeno, però, segnaliamo che questo materiale suscitò, inizialmente, solo interessi filologici e nessuna rielaborazione filosofica degna di nota18.

Diversamente, e giovando della natura compendiaria e compilativa con cui furono scritti, gli Schizzi pirroniani tradotti nel 1562 trovarono molti interpreti, interessati a comprendere non solo la specificità dello scetticismo pirroniano, ma anche, e soprattutto, problematiche antidogmatiche fino ad allora rimaste trascurate - come, ad esempio, il linguaggio auto-purgativo.

Infatti, pur ammettendo che anche Diogene abbia accennato al modo scettico di esprimersi, notiamo che Sesto, considerandolo lo strumento principale per realizzare il proprio progetto antidogmatico, dedica al linguaggio molto più spazio ed attenzione19.

Leggendo gli Schizzi pirroniani, pertanto, osserviamo che l’atto di parlare non solo precede la condizione sospensiva e dubitativa, ma è ciò che la genera. Notiamo, infatti, che, ammettendo di sospendere il giudizio solo dopo essersi sentiti incapaci di scegliere fra opinioni contrarie sebbene riferite ad uno stesso oggetto, i saggi ammettono di avere bisogno di qualcuno che esibisca loro tali opinioni grazie all’uso del linguaggio.

Per questo motivo, Sesto dichiara l’abilità di contrapporre discorsi di uguale valore persuasivo come la dynamis peculiare degli Scettici:

17

G.M.CAO, The Prehistory of Modern Scepticism: Sextus Empiricus in Fifteenth-Century Italy, «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», LXIV (2001), pp. 229-280, cfr. soprattutto pp. 238 e sgg. Qui Cao porta come termine di riferimento le citazioni sestane nelle Commentationes Florentinae de exilio. Ulteriori fonti sono le lettere che Filelfo manda tra il 1441 e il 1462, grazie alle quali possiamo identificare il manoscritto greco in suo possesso nel ms. Laur. Plut. 85.19 (a p. 241 Cao cita la lettera che Filelfo invia a Palla Strozzi nel maggio 1462, cruciale per tale identificazione). Cfr. anche R. H.POPKIN, Storia dello

scetticismo, trad. it. di Rodolfo Rini, Milano 2000, p. 30. Popkin stabilisce come prima testimonianza della

circolazione del corpus sestano una lettera che Francesco Filelfo invia a Giovanni Aurispa nel 1441. La lettera è pubblicata in C.SCHMITT, An unstudied Fifteenth century latin translation of Sextus Empiricus by Giovanni Lorenzi, in C.H. CLOUGH (a cura di), Cultural aspect of the italian Reanaisseance. Essays in

honour of Paul Oscar Kristeller, Manchester 1976, pp. 245 e sg, cui rimando. Unico a retrodatare il

manoscritto greco di Filelfo al 1427 è M. Di Loreto in ID., La fortuna di Sesto Empirico tra Cinque e

Seicento, «Elenchos», fasc. 2 (1995), pp. 331-74; cfr. soprattutto p. 334. 18M.D

I LORETO, La fortuna di Sesto Empirico tra Cinque e Seicento, cit., p. 334. Cfr. ancheG.M.CAO, The Prehistory of Modern Scepticism, cit., pp. 248 e sgg, e p.263.

19 Per Diogene, cfr. DL IX 74-76; per Sesto, cfr. HP 187-209. Spinelli parla di necessità scettica di un’«autogiustificazione linguistica», cfr. E.,SPINELLI, Questioni scettiche, cit., p. 119.

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13 ‹‹Lo Scetticismo esplica il suo VALORE nel contrapporre i fenomeni e le percezioni

intellettive in qualsivoglia maniera, per cui, in seguito all’ugual forza dei fatti e delle ragioni contrapposte, arriviamo, anzitutto, alla sospensione del giudizio, quindi, all’imperturbabilità››20.

Pertanto, Sesto considera la legittimazione del linguaggio una questione necessaria, e «pregiudiziale» come quella del diritto ad investigare21.

Non possiamo, infatti, fare a meno di notare che i due diritti all’investigazione e all’espressione si costituiscono in modo complementare, e che, pertanto, lo scettico debba premettere ad ogni ricerca la loro difesa dall’accusa di dogmatismo:

«I filosofi dogmatici polemizzano con loro sostenendo che non è affatto vero che gli Scettici non COMPRENDONO o non dogmatizzano, perché nel momento stesso in cui credono di confutare pervengono ad una COMPRENSIONE delle cose e, nello stesso tempo, asseverano e dogmatizzano. Così, quando dicono che non definiscono nulla e che ad ogni proposizione se ne contrappone un'altra, essi non solo definiscono, ma dogmatizzano»22.

Almeno fin da Diogene Laerzio, gli scettici hanno sempre dovuto difendersi dalla duplice accusa con la quale i Dogmatici, usando in modo equivoco il termine katalambanein (comprendere), contestano loro di indagare e di contrastare le opinioni altrui. A parere dei Dogmatici, infatti, coloro che indagano un’opinione devono averla prima compresa e riconosciuta come vera; e coloro che proferiscono un’idea devono necessariamente concepirla come un giudizio di verità.

Pensiamo, a questo proposito, che Sesto divida in due momenti la propria difesa. Accenniamo brevemente alla difesa del diritto ad investigare, cui Sesto dedica i paragrafi HP II 4-12, salvo poi concentrarci in modo più approfondito sul diritto di parlare23.

20 HP I 8. A. Russo traduce dynamis con valore, riproponendo la versione di O. Trescari nei suoi Schizzi pirroniani in tre libri, Bari 1926, cui si riferisce per tutta la propria edizione. Russo stesso, però, suggerisce

la traduzione alternativa abilità. Ho ritenuto opportuno riproporre il termine greco per la ricchezza semantica che vi è implicata.

21M.D

AL PRA,Lo scetticismo greco, Roma-Bari 1975, vol. II, p. 477. 22 DL IX 102.

23Per una trattazione approfondita della difesa del diritto ad investigare, vd. M.D

AL PRA, Lo scetticismo

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14 Come abbiamo detto, i Dogmatici sfruttano l’equivocità del termine «comprendere». Per questo motivo, Sesto intende disambiguare tale equivocità, e distingue i suoi due significati: l’uno, di «avere la nozione di qualcosa ed affermare contemporaneamente l’esistenza delle cose di cui si discorre»; e l’altro, di «avere semplicemente la nozione di qualcosa, senza affermare recisamente l’esistenza di ciò di cui ragioniamo». Pertanto, dichiara che l’ammissione della verità compresa riguarda chiunque intenda il verbo «comprendere» nel suo primo significato, quindi anche lo stoico che comprende e contesta le tesi epicuree:

«Poiché, se per «comprendere» intendono, nel loro discorso, assentire alla rappresentazione

«catalettica», - in quanto la rappresentazione catalettica proviene dalla cosa esistente, con l’impronta e il sigillo conforme alla cosa esistente, - quale non potrebbe derivare da una

cosa non esistente -, in tal caso, nemmeno essi vorranno, probabilmente, non essere in grado d’investigare intorno a ciò che non hanno compreso in sì fatta maniera. Per esempio, quando lo Stoico imprende una ricerca contro l’Epicureo, che afferma che l’essere è diviso, oppure che il dio non provvede alle cose del mondo, o che il bene è il piacere, ha compreso o non ha compreso? Se ha compreso queste dottrine, affermandone l’esistenza, sovverte dalle fondamenta la Stoa; se non ha compreso, non è in grado di parlare contro di esse»24.

Notiamo, peraltro, che Sesto rivendica di usare i termini nel loro significato debole non solo per difendersi, ma anche per delineare i caratteri principali dello scetticismo antico25. In particolare, l’autore degli Schizzi pirroniani dichiara di usare nel loro significato debole26 le principali espressioni scettiche, e in modo talmente «improprio e indifferente»27

24 HP II 4.

25 Per l’uso del valore debole dei termini come strategia difensiva, cfr. HP I 13, per dogma; HP I 19-20 per phainomenon; HP I 21 per criterion. Per il suo uso per delineare i caratteri dello scetticismo, cfr. HP I 4 e HP

I 14, come premesse a tutte le affermazioni che verranno.

26 HP 188-191: Dell’espressione «non più»; HP I 192-193: Dell’afasia; HP I 194: Delle espressioni «forse», «è possibile», «è ammissibile»; HP I 196: Dell’espressione «sospendo»; HP I 197: Dell’espressione «nulla do per determinato»; HP I 198-199: Dell’espressione «tutte le cose sono indeterminate»; HP I 200: Dell’espressione «tutte le cose sono incomprensibili»; HP I 201: Dell’espressione «mi riesce incomprensibile», «non capisco»; HP I 202-205: Dell’espressione «ad ogni discorso si oppone un discorso uguale».

27

Sesto dichiara in modo quasi programmatico di fare un uso catacrestico (improprio e indifferente) del linguaggio. Pertanto, il paragrafo HP I 4 non costituisce solo la cautela antidogmatica verso le successive affermazioni, bensì presenta tale modo catacrestico di parlare come principio fondamentale dello scetticismo. Dopo la dichiarazione generale e preliminare in HP I 4, Sesto ripete tale concezione applicandola ad ogni espressioni scettica; cfr. HP I 188, I 191, I 195, I 207.

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15 da poter esprimere attitudini interrogative28 e imperative29 pur non potendo fare a meno di enunciarle in forma assertiva.

A questo proposito, ci concentriamo sull’espressione scettica «afasia», che i Dogmatici giudicano impossibile da attuare non meno dell’inattività che pensano conseguente alla rinuncia di scegliere i comportamenti da eseguire30.

Anzitutto, Sesto sembra ammettere l’obiezione relativa all’impossibilità umana di agire senza un criterio di riferimento31. Dunque, distingue due significati del termine criterio:

««Criterio» si dice in due maniere: quello che fa fede dell’esistenza e inesistenza di una cosa, del che diremo quando lo confuteremo, e quello che riguarda la condotta, per cui, riferendoci ad esso, durante la nostra vita, alcune cose facciamo, altre no»32.

E presenta le norme di regolamentazione comportamentale che l’uomo può usare per decidere quali azioni compiere, e scongiurare l’inattività senza condividere necessariamente l’assiologia che tali norme delineano:

«Attenendoci, pertanto ai fenomeni, viviamo senza dogmi, osservando le norme della vita comune, ché non possiamo vivere senza far niente del tutto. Questa osservanza delle norme

della vita comune pare essere quadripartita, e consistere, parte, nella guida della natura, parte nell’impulso necessario delle affezioni, parte, nella tradizione delle leggi e delle

28 HP I 189-191, in riferimento all’espressione scettica ou mallon. In questa allusione all’opzione interrogativa dell’espressione potrebbe radicarsi la proposta montaigniana del nuovo linguaggio scettico rappresentato dal «Que sais-je?» in Saggi II 12, p. 961.

29«Alcuni proferiscono l’espressione «ad ogni discorso opporsi un discorso uguale», intendendo di esprimere imperativamente questo: «ad ogni discorso che prova dogmaticamente qualche cosa, si opponga un discorso che dogmaticamente indaghi, uguale per quel che concerne la credibilità o non credibilità, e contrastante con quello», e intendono indirizzare il loro discorso allo Scettico; e adoperano l’infinito «opporsi» in luogo dell’imperativo «si opponga». E questa esortazione rivolgono allo Scettico, perché, alle volte, turbato dal Dogmatico, non rinunzi all’indagine sopra di lui, e, affermando con precipitazione, non perda quella che, secondo loro, è la imperturbabilità, la quale credono andar compagna alla sospensione del giudizio in ogni cosa, come sopra abbiamo esposto», HP I 204-5. In ogni caso, Sesto non esprime mai alcunché affermando che la realtà sia effettivamente come descritta nell’opinione che pronuncia. Per la rinuncia ad ogni intenzione semantica «ontologizzante», cfr. E.SPINELLI, Questioni Scettiche, cit., p. 119 e sg.

30 Per l’accusa dei Dogmatici contro l’impossibilità dell’afasia, cfr. DL IX 102 (riportato a p. 7). Per l’accusa contro l’impossibilità di apraxia (inattività), cfr. DL IX 104-107, dove Diogene enuclea l’accusa dogmatica e la difesa scettica. Segnaliamo che Sesto e Diogene usano lo stesso argomento dell’osservanza delle norme comuni.

31 HP I 21-24; cfr. anche M VII 29-30 e M XI 162-167. 32

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16

consuetudini, parte, nell’insegnamento delle arti. Nella guida della natura, in quanto siamo

per natura forniti di senso e d’intelligenza; nell’impulso necessario delle affezioni, in quanto la fame ci conduce verso il nutrimento, la sete verso la bevanda; nella tradizione delle consuetudini e delle leggi, in quanto consideriamo la pietà come un bene, l’empietà come un male rispetto alla vita comune; nell’insegnamento delle arti, in quanto non siamo inattivi nelle arti che apprendiamo. Ma tutto questo diciamo lontani da ogni affermazione dogmatica»33.

Al contrario rispetto all’obiezione d’ambito pratico, però, Sesto non ammette l’accusa relativa all’impossibilità di praticare l’afasia. E invece di replicare, dimostra di considerare l’afasia come lo strumento antidogmatico da impugnare piuttosto che come l’esito scettico da giustificare.

A questo proposito, ricordiamo, inoltre, che la tradizione pirroniana è molto distante dalle idee e dalla vita del vero Pirrone; e che, perciò, non dobbiamo ricondurre la concezione neopirroniana dell’afasia strumentale alla testimonianza di Aristocle - certamente più vicina al Pirrone storico -, dove l’afasia è, invece, indicata come il primo effetto che consegue alla rinuncia a conoscere la realtà:

«È necessario prima di tutto indagare sulla nostra conoscenza; se infatti per natura non conosciamo nulla è superfluo indagare sul resto. Anche tra gli antichi vi furono alcuni che affermarono ciò, ai quali replicò Aristotele. Particolare forza nel dire ciò ebbe anche Pirrone di Elide, che però non lasciò nulla di scritto; ma il suo discepolo Timone afferma che colui che vuole essere felice deve guardare a queste tre cose: in primo luogo, come sono per natura le cose; in secondo luogo quale deve essere la nostra disposizione verso di esse; infine che cosa ce ne verrà, comportandoci così. Egli dice che Pirrone mostra che le cose sono egualmente senza differenze, senza stabilità, indiscriminate; perciò né le nostre sensazioni né le nostre opinioni sono vere o false. Non bisogna quindi dar loro fiducia, ma essere senza opinioni, senza inclinazioni, senza scosse, su ogni cosa dicendo: ‘è più che non è’, oppure ‘è e non è’, oppure né è, né non è’. A coloro che si troveranno in questa disposizione, Timone dice che deriverà per prima cosa l’afasia, poi l’imperturbabilità»34.

33

HP I 23-4. Segnaliamo che Sesto ha rimandato a HP II 14-79 la confutazione del criterio di verità. 34 E

USEBIO, Praeparatio evangelica XIV 18, 1-4. Mi sono riferita alla versione citata da Decleva Caizzi in

Pirrone. Testimonianze, cit., p. 104, dove la fonte è registrata T 53. Aristocle usa le voci verbali periestati e periesesthai per riferirsi agli effetti che seguono l’atteggiamento scettico. Tali verbi denotano l’idea di

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17 E non come una espressione scettica:

«Circa l’afasia diciamo così: «Fasi» dicesi in due sensi: l’uno generico, l’altro proprio. In

senso generico, «fasi» è una voce significante affermazione o negazione, come, «è giorno,

non è giorno». In senso proprio, è una voce significante, soltanto, affermazione, e in questo

significato un’espressione negativa non si chiama «fasi». Dunque «afasia» vale rinunzia alla

«fasi», intesa nel suo significato comune, e in essa diciamo esser compresa l’affermazione e la negazione; di modo che «afasia» è una nostra affezione interna, per cui diciamo che né affermiamo né neghiamo. Dal che è manifesto, anche, che non assumiamo l’afasia come se le cose fossero per loro natura tali da dover assolutamente indurre all’afasia, ma vogliamo significare che in noi, in quel momento in cui facciamo dichiarazione di afasia, proviamo quest’affezione sul conto della cosa indagata. Anche, bisogna ricordarsi di ciò, che noi diciamo di non affermare né di negare nulla di quanto viene dogmaticamente asserito circa le cose non-evidenti»35.

Tuttavia, confrontando questi passi, non constatiamo solamente l’inconciliabilità delle due prospettive, ma anche una certa consonanza fra la definizione sestana di afasia come modo non assertivo di produrre il discorso e una delle disposizione pratiche che Timone ritiene necessarie al raggiungimento dell’afasia:

«Non bisogna dar loro - alle nostre sensazioni e opinioni - fiducia, ma essere senza opinioni, senza inclinazioni, senza scosse, su ogni cosa dicendo: ‘è più che non è’, oppure ‘è e non è’, oppure ‘né è, né non è’. A coloro che si troveranno in questa disposizione, Timone dice che deriverà per prima cosa l’afasia, poi l’imperturbabilità»36.

In ogni caso, però, come abbiamo detto, Montaigne ha avuto gli Schizzi pirroniani come testo scettico di riferimento, dunque ad esso e alla concezione strumentale di afasia anche noi ci riferiamo.

Testimonianze, cit., T 53, pp. 54 e sg. Per l’eterogeneità delle concezioni dell’afasia nel pirronismo primitivo

e nel Neopirronismo sestano, cfr. J.BRUNSCHWIG, L’aphasie pyrrhonienne, in C.LÉVY-L. PERNOT, Dire

l’évidence: philosophie et rhétorique antique, Parigi 1997, pp. 297-320. 35

HP 192-193 36 Cfr. n. 31.

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18

I. 3. L’afasia come strumento antidogmatico.

Oltre al confronto fra i passi che Aristocle e Sesto dedicano in modo specifico all’afasia, pensiamo di poter suffragare l’ipotesi del valore strumentale dell’afasia citando anche la fonte laerziana:

«Ma i Dogmatici obbiettano che gli Scettici lungi dall'eliminare il giudizio aggiungono ad esso nuovo vigore. Gli Scettici, dunque, si servivano delle parole solo come mezzi ausiliari, ché non era possibile che un giudizio non fosse eliminato con un altro giudizio. Così quando siamo soliti dire che lo spazio non esiste, dobbiamo tuttavia assolutamente usare la parola 'spazio' non in senso dogmatico, ma costretti dal processo dimostrativo. Così pure, quando diciamo che nulla accade per necessità, dobbiamo necessariamente adottare la parola 'necessità'. In tal modo all’incirca spiegavano le cose»37,

Per comprendere la pertinenza di questo passo, pensiamo opportuno ritornare all’atto di nascita dello scetticismo stesso.

Prima di delineare i suoi caratteri, Sesto indica nel conseguimento dell’imperturbabilità il «principio causale» dello scetticismo. E racconta che i primi saggi, turbati dall’incapacità di scegliere fra rappresentazioni opposte sebbene riferite ad uno stesso oggetto, provarono a cercare un criterio per distinguere le rappresentazioni vere da quelle false. Tuttavia, per quanto possa sorprenderci l’iniziale attitudine dogmatica dei primi saggi scettici, essi non tardarono a rinunciarci. Infatti, non trovando l’agognato criterio, sospesero presto il loro giudizio rispetto alle rappresentazioni in reciproco conflitto e, per caso, conseguirono l’imperturbabilità:

«Chi, invece, dubita se una cosa sia bene o male per natura, né fugge né persegue nulla con ardore: perciò è imperturbato. Pertanto allo Scettico è accaduto quel che si narra del pittore Apelle. Dicono che Apelle, dipingendo un cavallo, volesse ritrarne col pennello la schiuma.

37 DL IX 77. Brunschwig sembra non considerarla, ritenendo sufficiente il confronto fra la testimonianza di Aristocle e HP I 192-3. A questa fonte rimanda, invece, anche Spinelli in ID., Questioni scettiche, op. cit., p. 118 n. 24. Spinelli, però, manifesta un interesse legato solo al valore strumentale del linguaggio, e non rimanda ad un eventuale valore strumentale dell’afasia. Direi, anzi, che Spinelli sta considerando il linguaggio non come strumento curativo contro le affermazioni dogmatiche, ma come strumento preventivo all’afasia, intesa come effetto impossibile da attuare, cfr. «Nel far questo [nell’ intendere il linguaggio come

espressione delle proprie affezioni interiori] da una parte egli [Sesto] cerca di non cadere nella superba

precipitazione o propeteia dei dogmatici, e dall’altra di non assumere alcuna posizione di a-dialogico silenzio». Il corsivo fra parentesi quadre è mio.

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19 Non riuscendovi in nessun modo, vi rinunziò, e scagliò contro il dipinto la spugna, nella

quale astergeva il pennello intinto di diversi colori. La spugna, toccato il cavallo, lasciò un’impronta che pareva schiuma. Anche gli Scettici speravano di conseguire l’imperturbabilità dirimendo la disuguaglianza ch’è tra i dati di senso e quelli della ragione; ma non potendo riuscirvi, sospesero il giudizio, e a questa sospensione, come per caso, tenne dietro l’imperturbabilità, quale ombra al corpo»38.

Dunque, Sesto pone all’origine dello scetticismo il conseguimento insperato e casuale dell’imperturbabilità seguita alla sospensione del giudizio, che fu a sua volta esito casuale e disperato dell’insoddisfazione dogmatica. Ciononostante, però, non pretende dai Dogmatici la stessa rinuncia spontanea a cercare la verità, e raccomanda agli scettici di contrapporsi ad ogni loro affermazione.

Tornando, finalmente, a DL IX 77, leggiamo che gli scettici rispondono a coloro che li accusano di formulare giudizi ammettendo di formularli solo per adempiere ad una missione antidogmatica39.

Infatti, gli scettici sembrano pensare che l’unico modo per contrastare una tendenza degenerativa sia opporle una forza di uguale natura diretta in modo contrario, e, in particolare, che l’unico modo per contrastare la tendenza dogmatica a formulare giudizi sulle cose non evidenti sia formulare discorsi ad essi contrapposti. Perciò, pensiamo che quando Diogene dichiara che gli scettici usano le parole come «mezzi ausiliari»40, e quando dichiara che «non è possibile che un giudizio non sia eliminato con un altro giudizio», egli intenda proprio affermare che gli scettici considerano il linguaggio come lo strumento indispensabile per guarire «presunzione e temerarietà»41 dei dogmatici.

38 HP I 28-9.

39 Cfr. p. 12. 40

In DL IX 77 Diogene usa la locuzione diakonois echronto tois logois. Il ricorso strumentale alle parole - anche in questo caso, preferiremmo non ridurre ad una traduzione univoca la polisemia del termine logos

(parole) - è rappresentato in modo rafforzativo dalla combinazione della voce verbale di chraomai con

l’aggettivo predicativo diakovos. 41

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20

I.4. L’afasia come attitudine proposizionale non assertiva.

Fin da Diogene e da Sesto, lo scetticismo sovrappone le concezioni strumentali del linguaggio e dell’afasia. Pertanto, affermando con Russo che «tutte le altre espressioni sono determinazioni particolari dell’afasia»42

, possiamo addirittura pensare che le concezioni strumentali di linguaggio e di afasia coincidano.

A causa della loro vocazione antisistematica, però, non possiamo pretendere di rintracciare negli Schizzi pirroniani l’identificazione esplicita e argomentata di linguaggio e afasia come strumenti antidogmatici. Perciò, tentiamo di rintracciarla, almeno ad un livello implicito, comparando i passi di HP I 195, I 197 e I 201:

«E di nuovo, anche qui, non facciamo questione di parole, né cerchiamo se questo sia il naturale significato di tali espressioni, ma le assumiamo, come ho detto, indifferentemente. Però, che queste espressioni siano INDICATRICI di afasia è, parmi, chiaro».

«A questa maniera, forse, si troverà che lo Scettico non dà per determinato nulla, nemmeno quando dice: «nulla do per determinato», perché non si tratta d’un’opinione dogmatica, cioè, di un assenso prestato a cosa oscura, ma di un’espressione INDICATRICE di una nostra affezione interiore».

«Anche le espressioni «mi riesce incomprensibile», «non capisco», sono INDICATRICI di una propria affezione interna, per la quale lo Scettico si astiene, per il momento, dall’affermare o negare alcuna delle cose oscure indagate, com’è chiaro da quanto è stato sopra detto da noi intorno alle altre espressioni».

Notiamo, anzitutto, che Sesto usa lo stesso aggettivo per definire le espressioni scettiche come enunciazioni indicatrici delle affezioni interiori e come enunciazioni indicatrici di

42

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21 afasia43. E che, sebbene uniformi i paragrafi dedicati ad «afasia» a quelli dedicati alle altre espressioni, il filosofo le assegna un ruolo centrale44.

In HP I 192-3, infatti, Sesto indica in «afasia» l’espressione che trasmette la rinuncia ad affermare e negare dopo aver preso coscienza di non potere conoscere le cose non evidenti. Perciò, in modo implicito, indica che con essa gli scettici non trasmettono solamente un’affezione temporanea45, bensì l’atteggiamento antidogmatico determinante di tutte le

altre espressioni scettiche.

Pertanto, possiamo affermare che «afasia» comprende tutte le espressioni scettiche, senza intendere che essa manifesti in una volta sola tutte le affezioni che determinano le singole espressioni, ma intendendo, piuttosto, che essa manifesti l’attitudine antidogmatica con cui tutte le espressioni scettiche sono proferite.

E affermando che Sesto considera ogni espressione come indicatrice dell’affezione specifica che l’ha determinata, e come indicatrice della rinuncia a formulare discorsi assertivi, possiamo supporre che egli consideri «afasia» come l’espressione totale dell’attitudine antidogmatica, e come l’espressione che indica il modo di parlare adatto a dissuadere l’uomo dal ritenere vere le opinioni che contrae46

.

Sesto, infatti, legittima gli scettici ad usare il linguaggio esclusivamente per guarire l’uomo dalla tendenza a ritenere vere le opinioni contratte, perciò sembra preoccuparsi di non relegare le espressioni scettiche al semplice ruolo di indicatrici di affezioni interiori:

43

L’aggettivo usato è delotike - o al plurale delotikai -, derivato dal verbo deloo. Oltre a questi casi di uso identico, in HP I 190, 191, 192, 193 riscontriamo altre forme di deloo per definire la funzione ostensiva delle espressioni verso le affezioni.

44 Deducendo tutte le espressioni scettiche da «afasia» non intendiamo derogare all’impostazione antigerarchica di Sesto. Non attribuiamo ad «afasia» priorità rispetto alle altre espressioni, né in senso di priorità temporale, né in senso di priorità concettuale. Pensiamo, però, che «afasia» indichi l’attitudine proposizionale non affermativa comune a tutte le espressioni. Credo analoga l’intenzione di Russo, che afferma la deducibilità di tutti i tropi da quello della relatività, cfr. SESTO EMPIRICO, Schizzi pirroniani, cit., p. XIII.

45 È questa invece la posizione di Spinelli in I

D., Questioni scettiche, cit., p. 123. 46 Per la definizione del valore illocutorio di un atto linguistico cfr. J.L. A

USTIN, Come fare cose con le

parole, a cura di C. Penco e M. Sbisà, Genova 1987, p. 99-107. Corti pone le osservazioni di Austin alla base

di L.CORTI, Quel actes illocutoires le sceptique peut-il exécuter? in ID., Scepticisme et language, Parigi 2009, pp. 101-147. Per la caratterizzazione di «afasia», cfr. soprattutto pp. 101-124, dove Corti vede in «afasia» la realizzazione dei due aspetti caratterizzanti di ogni espressione scettica. Dal punto di vista semantico, le espressioni scettiche si riferiscono ad affezioni interiori invece che ad oggetti esterni; dal punto di vista illocutorio, esse non affermano niente rispetto alle affezioni cui si riferiscono, ma semplicemente le annunciano come esperienza del locutore. «Afasia» costituisce un caso speciale, perché, esprimendo l’affezione della rinuncia a parlare in modo assertivo, essa sovrappone caratterizzazione semantica e caratterizzazione illocutoria delle espressioni scettiche. Per il fatto che le espressioni scettiche non indicano solo le affezioni che le generano, ma anche l’afasia, cfr. HP I 195.

(22)

22 «Lo Scettico, per essere animato da amore verso gli uomini, vuole, per quanto può, guarire

col ragionamento la presunzione e la temerarità dei Dogmatici».

«Gli Scettici, dunque, si servivano delle parole solo come mezzi ausiliari, ché non era possibile che un giudizio non fosse eliminato con un altro giudizio»47.

E, come se stesse escogitando un metodo antidogmatico indipendente dalla presenza di un locutore che ritiene veri i giudizi che pronuncia, predispone una serie di espressioni indicatrici di afasia, nonché dell’attitudine proposizionale non assertiva48

. Pertanto, stila un vocabolario di formule auto-relativizzanti, che i saggi possono con consapevolezza usare al cospetto di rappresentazioni in reciproco conflitto.

Sottolineiamo, infatti, che, a differenza di come subisce le affezioni di tipo appetitivo ed emotivo, l’uomo che presente un’affezione di tipo intellettuale - come sono, appunto, le sensazioni di dubbio e di indecisione fra rappresentazioni opposte - la prova in modo effettivo solo dopo essersene convinto razionalmente ed essersene assunto le conseguenze pratiche49.

Pertanto, affermiamo che gli scettici adottano un modo antidogmatico di produrre discorsi non perché tale attitudine si impone loro a causa di dubbio e di indecisione, bensì perché decidono di riprodurre in loro stessi e negli altri la coscienza delle incapacità conoscitive dell’uomo.

Elencando le espressioni scettiche, infatti, Sesto delinea una serie di formule che funzionano come contrassegni di afasia, perché denotano l’affezione del locutore che le pronuncia, e perché agiscono come monito costante dell’attitudine antidogmatica da mantenere verso i discorsi50.

47

HP III 280 e DL IX 77 .

48 Invece, a favore dell’origine dialettica dei discorsi scettici, cfr. P.A

UBENQUE, Vérité et scepticisme. Sur le

limites d’une refutation philosophique du scepticisme, «Diogène», 132 (1985), pp. 102. 49Sulla necessità di convincersi razionalmente delle affezioni intellettuali, cfr.C.S

TOUGH, Sextus Empiricus

on non-assertion, «Phronesis», 29 (1984), pp. 148-155. Per l’impossibilità di opporre resistenza mentale alle

affezioni di tipo emotivo, cfr. ivi, p. 153, n. 25. Come argomenta Stough, non possiamo negare di provare dolore nel momento stesso in cui lo stiamo provando.

50 Per il valore delle espressioni scettiche come contrassegni dell’attitudine proposizionale antidogmatica e come monito a mantenerla, cfr. C.STOUGH, Sextus Empiricus on non-assertion, cit., p. 160.

(23)

23 Infine, quindi, dopo aver desunto dagli Schizzi pirroniani la concezione strumentale dell’afasia, la poniamo come controparte del nuovo linguaggio scettico ricercato da Montaigne.

(24)

24

II.

L’

ATTITUDINE SCETTICA

:

OSSERVAZIONE DI SÉ E INCOSTANZA DEL GIUDIZIO

.

II.1. Oltre la «crisi scettica».

Montaigne matura e pone la propria attitudine antidogmatica in una relazione di indipendenza rispetto all’eredità sestana - talvolta perfino di polemica. Per questo motivo, qualsiasi ricerca che intenda studiare la riflessione del filosofo francese sullo scetticismo antico dovrebbe evitare di prendere alla lettera i passi dove egli si proclama pirroniano, e capire, invece, cosa egli intenda usando una categoria già di per sé refrattaria a farsi inscrivere in contorni filosofici e storiografici precisi51.

Per capire la specificità della sua attitudine pirroniana conviene partire dalla relazione di

consustanzialità che Montaigne pone fra sé e il proprio libro, e considerare il

condizionamento che essa procura nella elaborazione di qualsiasi argomento:

«Ora, come dice Plinio, ognuno è un ottimo oggetto di studio per se stesso, purché sappia sorvegliarsi da vicino. Questa non è la mia dottrina, è il mio studio, e non è la lezione d’altri, è la mia. […] Sono molti anni che ho solo me stesso per mira dei miei pensieri: e osservo e studio solo me stesso. E se studio qualche altra cosa, è per riportarla subito a me, o in me, per meglio dire»52.

Stando a quanto dice Montaigne, egli riflette su ogni esperienza o lettura compiute solo nell’interesse di conoscere e di formare se stesso, perciò pare opportuno inquadrare la lettura degli Schizzi pirroniani all’interno di questa cornice rielaborativa. E, mantenendo una vigilanza critica verso gli eccessi di psicologismo cui potremmo incorrere, sembra addirittura opportuno attribuire a tale prospettiva rielaborativa anche l’originalità del suo orientamento antidogmatico.

Come spesso dice, il filosofo francese antepone la propria interpretazione alla ricerca del senso originale dei testi che legge, e, d’altronde, maturando una concezione scettica deviante dal percorso speculativo degli Schizzi pirroniani, egli conferma tale attitudine53.

51 Cfr. cap. 1, pp. 1 e sgg.

52 Saggi II 6, p. 671. D’ora in poi, Saggi. Per la dichiarazione di consustanzialità, cfr. Saggi II 28, p. 1233. 53 Starobinski definisce il modo in cui Montaigne legge, interpreta e riusa i testi del passato in termini di appropriazione, mentre Velazquez - che, però, non sembra menzionare Starobinski come controparte

(25)

25 In questo capitolo evidenzieremo le differenze che sussistono fra scetticismo antico e attitudine antidogmatica di Montaigne, pur premettendo che, nell’atto stesso di dichiarare la valenza prospettica e, per così dire, egocentrica delle proprie interpretazioni, Montaigne sembra condividere proprio quell’impostazione che Sesto delinea negli Schizzi pirroniani:

«Poiché colui-che-dogmatizza pone come vera e reale la sua asseverazione così detta dogmatica, mentre lo Scettico pone queste espressioni non come vere e reali in senso assoluto. […]. E, ciò che più importa, nel proferire tali espressioni, egli esprime quello che a lui appare, e rivela la propria affezione senza asseverazioni dogmatiche, nulla categoricamente affermando circa le cose che sono fuori di lui»54.

«Ora, io esprimo qui le mie inclinazioni e i miei sentimenti per quel tanto che la convenienza me lo permette».

«Perché, allo stesso modo, ci sono qui i miei umori e le mie opinioni. Le do come cose che credo io, non come cose che si debbano credere. Qui miro soltanto a scoprire me stesso, e sarò forse diverso domani, se una nuova esperienza mi avrà mutato»55.

Dal confronto fra alcuni passi degli Schizzi pirroniani ed altri passi dei Saggi, riscontriamo un’analogia quasi letterale fra il modo in cui i due autori tolgono valore di veridicità a quello che scrivono. Ma dopo che è stata provata la relativa indipendenza di Montaigne rispetto ai principi tramandati da Sesto, abbiamo pensato opportuno motivare l’attitudine dubitativa del filosofo francese senza riferirci solamente agli Schizzi pirroniani, e evidenziando l’influenza che può avere esercitato su di lui la sua nuova concezione dell’incostanza antropologica56

.

polemica - sottolinea l’inadeguatezza di tale concezione. Per Starobinski Montaigne sancisce la propria indipendenza verso gli autori citati distorcendo il senso delle loro frasi, mentre per Velazquez Montaigne incrementa il valore rappresentativo degli enunciati che cita, aggiungendo loro anche la propria interpretazione senza imporla. Per Starobinski, cfr. ID.,Montaigne. Il paradosso dell’esperienza, trad. it. di M. Musacchio, Bologna 1984, pp. 141-158. Per Velazquez, cfr. ID., Resistance to Appropriation: Citation

and Appropriation in Montaigne’s Essais, «Utah Foreign Language Review», XVII (2009), pp. 54-65. 54 HP I 14.

55

Saggi III 9, p. 1827 e I 26, p. 265. In particolar modo, segnaliamo l’uso di inclination et affectation in

Saggi III 9, p. 1827, che verosimilmente costituiscono un calco del termine affectio, con il quale Estienne ha

tradotto il termine sestano pathos.

56 Per un accurato studio di comparazione testuale, che rintraccia la predisposizione dubitativa di Montaigne anche in capitoli precedenti al 1576 (anno in cui si presume che Montaigne abbia letto gli Schizzi pirroniani),

(26)

26 Prima, però, riteniamo opportuno dare uno sguardo indicativo al dibattito novecentesco sulle interpretazioni dell’orientamento scettico di Montaigne, per capire come poter riusare i risultati delle ricerche precedenti e come poterli integrare.

Fra i protagonisti del dibattito novecentesco emerge, senz’altro, Richard Popkin, il quale inquadra l’attitudine neopirroniana di Montaigne - e lo scetticismo moderno in generale - in una cornice storica contrassegnata dalla crisi religiosa. Il Cinquecento è, infatti, il secolo della Controriforma: dell’impegno ad arginare il Protestantesimo, e della ricerca di un criterio di verità teologica che appiani i conflitti confessionali a favore del Cattolicesimo. In questo coacervo di interessi fideistici molti intellettuali europei riutilizzano gli argomenti degli Academica di Cicerone e degli Schizzi pirroniani per dimostrare all’uomo l’inettitudine della sua ragione e per convincerlo a confidare nella Rivelazione.

A proposito di questa relazione fra crisi religiosa e scetticismo moderno, la sintesi di Popkin ci è stata, pertanto, molto utile per gli stessi motivi a causa dei quali può forse portare fuori strada. Difatti, anche se, concentrandosi in modo esclusivo sulla componente fideistica, Popkin ci permette di comprendere le forti motivazioni religiose della rielaborazione moderna dei testi scettici e della divulgazione del corpus sestano da parte di Estienne ed di Hervet57, tuttavia una taratura così rigida sembra escludere come non pertinenti tutti quei fenomeni che non le sono sussumibili58. Non discutiamo la spiegazione che Popkin dedica al riutilizzo cinquecentesco dello scetticismo per mortificare la ragione umana - molto chiara e precisa; ma, anche se molto utili, i paragrafi sull’attacco di Gian Francesco Pico della Mirandola contro le filosofie antiche e pagane59, quelli sul dubbio onnipervasivo di Agrippa di Nettesheim60, e quelli sulla polemica di Sanchez contro

cfr. M. DRÉANO, La crise sceptique de Montaigne?, «Biblioteque d’Humanisme et Renaissance», XXIII (1961), pp. 253-264.

57

Cfr. anche M. DI LORETO,La fortuna di Sesto Empirico, cit., pp. 340 e sgg. Si ricorda che Montaigne

conosce solo l’edizione di Estienne del 1562, costituita solo dagli Schizzi pirroniani. Per una relazione fra la lettera dedicatoria di Estienne e l’Apologie di Raimond Sebond, cfr. F.GRAY, Montaigne’s Pyrrhonism, in R. C.LA CHARITÉ (a cura di), Oh, un amy! Essays on Montaigne in honor of Donald M. Frame, Lexington 1977, pp. 119-124.

58 R.HP

OPKIN, Storia dello scetticismo, cit.

59 Gian Francesco Pico della Mirandola (1469-1533), Examen vanitatis doctrinae gentium (1520). Cfr. R.H POPKIN, ivi, pp. 30-5.

60

Agrippa di Nettesheim (1486-1535), De incertitudine et vanitate scentiarum declamatio invectiva (1526). Cfr R.H.POPKIN, ivi, pp. 35-7. Cfr. anche E. CASSIRER, Storia della filosofia moderna. Il problema della

conoscenza nella filosofia della scienza, tomo I, vol. I, Torino 1978, p. 221. Ritengo opportuno citare anche

l’interpretazione di Cassirer, dal momento che egli sembra essere uno fra i pochi a prendere sul serio la portata tragica del dubbio onnipervasivo di Agrippa.

(27)

27 nominalismo e deduttivismo aristotelici61, comunque non compensano la parzialità secondo la quale l’attitudine pirroniana di Montaigne è interpretata come l’adesione, per quanto forse «tiepida» e solo conformistica, al fideismo coevo62.

La voce di Popkin è una fra le protagoniste nel dibattito novecentesco, e si allinea ad un filone di interpreti che stabilisce come unico centro focale l’Apologia di Raimond Sebond. Riteniamo opportuno, invece, adottare un raggio di ricerca più ampio, che consideri l’opera completa di Montaigne e i suoi significati impliciti. E preferiamo rifarci ad un altro gruppo di interpreti, che ridimensiona la componente fideistica vedendo in essa un elemento parziale e conformistico - secondo alcuni, addirittura opportunistico63 - del pensiero di Montaigne.

Ad esempio, dopo la lettura dei passi dove il filosofo francese considera il Cattolicesimo come una convenzione cui adeguarsi per conservare le consuetudini - e per non subire ritorsioni né censure -, a patto di mantenere una ragione critica64, possiamo mettere in discussione la presunta pervasività del fideismo, e lasciare spazio a piste di ricerca diverse. Fra queste piste, infine, poniamo la nostra, facendo tesoro anche di quegli studi che hanno posto come concause dell’attitudine dubitativa di Montaigne la crisi religiosa e la generale crisi dei saperi dovuta all’innovazione geocentrica, al recupero rinascimentale dei testi antichi e alle scoperte continentali65. Ne facciamo tesoro, e ci proponiamo di integrarli con osservazioni ricavate dal testo dei Saggi, perché, se continuassimo a voler spiegare l’attitudine antidogmatica di Montaigne riferendoci alle contingenze biografiche, lasceremmo i nostri risultati sprovvisti di riscontrabilità oggettiva, e continueremmo a basarci solamente sull’autorevolezza degli studi precedenti.

Pertanto, come abbiamo detto all’inizio e sulla scorta del consenso unanime degli studiosi di Montaigne, abbandoniamo l’ipotesi che gli Schizzi pirroniani possano aver provocato la

61 Francisco Sanchez (1552-1563), Quod nihil scitur (1581). Cfr. R.HP

OPKIN, PP.52-8. 62 R.HP

OPKIN, ivi, p.73.Cfr. ancheF.STROWSKY, Montaigne, Parigi 1931, p. 208, dove l’autore interpreta lo scetticismo come la forma filosofica di un sincero sentimento religioso di inanità rispetto alla vastità del creato e all’incomprensibilità delle ragioni di Dio.

63 Per una relazione di casuale convergenza di interessi tra lo scetticismo di Montaigne e il fideismo del periodo, ai fini del mantenimento delle consuetidini cfr. P.VILLEY, Les sources et l’évolution des Essais, cit., p. 180. Per una professione opportunistica di fideismo, cfr. S. PRAT, Constance et inconstance chez

Montaigne, Parigi 2011, pp. 103-5. 64 T.G

REGORY, Per una lettura di Montaigne, «Giornale critico della filosofia italiana», II (1997), pp. 153-5. 65 Cfr. P. V

ILLEY, Les sources et l’évolution des Essais, cit., p. 181, dove l’autore pone come concausa dell’attitudine dubitativa di Montaigne il «sentimento di relatività universale» determinato dall’avvento di paradigmi di comportamento e di conoscenza completamente nuovi. Sulla portata relativistica delle scoperte astronomiche, umanistiche e continentali cfr. anche R.RAGGHIANTI, Introduzione a Montaigne, Bari 2001, pp. 69-74 e T.GREGORY, Per una lettura di Montaigne, cit., p. 151-3.

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