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In cerca di una nuova cura antidogmatica.

II. L’ ATTITUDINE SCETTICA : OSSERVAZIONE DI SÉ E INCOSTANZA DEL GIUDIZIO

II.5. In cerca di una nuova cura antidogmatica.

Dopo aver individuato la propensione di Montaigne a scrivere in modo allusivo, pensiamo lecito andare oltre la proposta esplicita del linguaggio interrogativo, e ricercare le proposte solo accennate. Consideriamo, infatti, la reticenza della formula «Que sais je?» come un invito a non prenderla sul serio, e a rintracciare altrove i metodi che il filosofo delinea per superare i problemi del linguaggio affermativo. E vediamo nella citazione e nello stile allusivo i dispositivi retorici che il filosofo usa per superare i due esiti esiziali - imbattuti dallo scetticismo antico - del dogmatismo e dell’afasia.

Nei prossimi capitoli ci occuperemo di comprendere il funzionamento di tali dispositivi, e di studiare i brani in cui Montaigne vi allude. Ma, intanto, pensiamo importante comprendere il ruolo cui essi adempiono all’interno del progetto antidogmatico che Montaigne eredita dagli scettici antichi, e comprendere le ragioni per le quali Montaigne respinga come inutile e impraticabile il linguaggio delineato sa Sesto.

Infatti, entrambi gli autori giustificano le rispettive enunciazioni a patto di non conferire loro veridicità, e a patto di usarle per liberare l’uomo dalla tendenza a tenere per vere le opinioni che contrae. Tuttavia, fondandosi su concezioni antropologiche opposte, Sesto e Montaigne predispongono due piani di «disintossicazione» antidogmatica opposti.

Come abbiamo già detto, Sesto attribuisce all’uomo la capacità di controbilanciare le opinioni, mentre Montaigne considera il giudizio talmente instabile da non poter raggiungere nemmeno la quiete sospensiva.

Pertanto, adottando la prospettiva metaforica secondo la quale Sesto paragona l’impegno antidogmatico ad una cura di disintossicazione, intuiamo facilmente le ragioni dell’insoddisfazione di Montaigne verso il metodo sestano, visto che, anche solo per senso comune, non possiamo fare a meno di ammettere che possono ambire al successo terapeutico solo le cure compatibili allo stato del paziente. Nondimeno, considerando l’uomo incapace di ponderare le opinioni, Montaigne non può fare a meno di giudicare inattuabile e inefficace la cura sestana che, invece, presuppone proprio tale capacità ponderatrice96.

Come afferma nel capitolo II 14, «non c’è cosa che ci si presenti nella quale non vi sia qualche differenza, per lieve che sia; e che alla vista o al tatto, c’è sempre qualche di più che ci attira, sebbene impercettibilmente»97, dunque Montaigne respinge la cura sestana

96 Per la metafora medica, cfr. HP III 280-281. 97

46 fondata sull’equipollenza delle opinioni contrapposte; e cerca la «disintossicazione» ideale considerando se stesso come prototipo del paziente da curare, dunque estendendo su scala universale i comportamenti che su di sé hanno avuto effetto antidogmatico.

Così facendo, anche in questo caso, Montaigne evita di delineare in modo prescrittivo i comportamenti da tenere per liberarsi dalla tendenza a dogmatizzare le opinioni. E, nel tentativo di riprodurre nei lettori le esperienze che l’hanno portato a dubitare del proprio giudizio, cosparge i Saggi di citazioni per farli oscillare fra le opinioni fra le quali racconta di aver già oscillato lui stesso:

«Gli scritti degli antichi, dico i buoni scritti, ricchi e solidi, mi tentano e mi trasportano quasi dove vogliono: quello che ascolto mi sembra sempre il più forte; trovo che hanno ragione ciascuno a sua volta, sebbene si contraddicano»98.

Sebbene nell’Avviso al lettore Montaigne consigli di non aspettarsi benefici dalla lettura dei Saggi, nel capitolo Dell’esercizio replica alle accuse di vanteria, e afferma che raccontare testimonianze personali non costituisce un vizio, e che potrebbe addirittura aiutare quei lettori che si sono trovati nelle sue stesse situazioni:

«Ora, come dice Plinio, ognuno è un ottimo oggetto di studio per se stesso, purché sappia sorvegliarsi da vicino. Questa non è la mia dottrina, è il mio studio, e non è la lezione di altri, è la mia. E pertanto non si deve volermene se la comunico. Quello che mi serve può anche, occasionalmente, servire a un altro. […]. L’uso ha fatto un vizio del parlar di se stessi, e lo proibisce ostinatamente per odio della vanteria che sembra sempre esser congiunta alle testimonianze personali. Invece di soffiare il naso al bambino, questo si chiama strapparglielo. La paura della colpa conduce all’errore. Trovo più male che bene in questo rimedio..[…]. Tuttavia, per dire quello che penso, questa costumanza ha torto di condannare il vino perché molti si ubriacano. Non si può abusare che delle cose che sono buone»99.

98 Saggi II 12, p. 1049.

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47 Pertanto, sebbene dichiari di non insegnare niente ma solo di raccontare se stesso100, si propone di profilare nei Saggi un campionario di comportamenti possibili cui il lettore può confrontare i propri; e racconta gli episodi in cui si è sentito indeciso, per illustrare al lettore l’esempio del comportamento critico da tenere.

Montaigne, infatti, non vuole dimostrare la deducibilità della sospensione del giudizio mediante le argomentazioni tropologiche, e cerca, piuttosto, di sensibilizzare al dubbio - se stesso e chi legge - riproducendo in modo continuo l’affezione di volubilità. E con questo spostamento di prospettiva - dal piano della dimostrazione razionale a quello della persuasione - Montaigne sembra implicitamente contestare allo scetticismo antico di aver presupposto nell’uomo la capacità di ragionare:

«È difficile che il ragionamento e l’insegnamento, anche se la nostra opinione vi aderisca volentieri, siano abbastanza potenti da indurci all’azione, se oltre a ciò non esercitiamo e forniamo la nostra anima per mezzo dell’esperienza, a quel modo di vivere cui la vogliamo abituare».

«Sicché la professione dei pirroniani è ondeggiare, dubitare, cercare, non ritenersi sicuri di nulla, non rispondere di nulla. Delle tre attività dell’anima, l’immaginativa, l’appetitiva, la consenziente, essi ammettono le prime due; l’ultima la sostengono e la mantengono in equilibrio, senza la benché minima inclinazione in un senso o in un altro»101.

Nel primo brano Montaigne si riferisce alle capacità cognitive dell’uomo e, in particolar modo, alla inettitudine della facoltà di comprendere; il confronto con il secondo brano, però, rivela che la prospettiva antropologica di queste considerazioni costituisce solo il pretesto per una considerazione filosofica di natura scettica, poiché, pur tenendo conto che il filosofo francese pensa impossibile l’approdo sospensivo cui Sesto destina l’attività consenziente, non possiamo negare che entrambi concepiscono il vantaggio delle facoltà immaginativa e appetitiva rispetto a quella consenziente.

Montaigne, però, radicalizza l’inettitudine delle facoltà cognitive dell’uomo, al punto da considerare il giudizio inaffidabile in toto, e al punto da determinare sul piano della

100 Saggi III 2, p. 1489. 101

48 comunicazione dei pensieri conseguenze non meno importanti di quelle verificatesi sul piano filosofico.

Anzitutto, Montaigne non attribuisce all’uomo la forma sviluppata di razionalità grazie alla quale dedurre l’equipollenza delle opinioni, perciò predispone una cura antidogmatica che alla forza probante degli argomenti tropologici sostituisce la riproduzione dell’esperienza psicologica della volubilità del giudizio. E, solidale con la diffidenza dei pazienti che si vedono attribuire malattie e cure da dottori che non ne hanno avuta esperienza se non nei libri102, garantisce in prima persona quest’approccio terapeutico presentandolo come il frutto del proprio vissuto invece che come il sunto degli Schizzi pirroniani:

«Non soltanto il vento delle occasioni mi agita secondo la sua direzione, ma in più mi agito e mi turbo io stesso per l’instabilità della mia posizione; e a guardar bene, non ci troviamo mai due volte nella stessa condizione. Io do alla mia anima ora un aspetto ora un altro, secondo da che parte la volgo. Se parlo di me in vario modo, è perché mi guardo in vario modo. Tutti i contrari si ritrovano in me per qualche verso e in qualche maniera. Timido insolente, casto lussurioso, chiaccherone taciturno, laborioso indolente, ingegnoso stupido, stizzoso bonario, bugiardo sincero, dotto ignorante e liberale e avaro e prodigo, tutto questo io lo vedo in me in qualche modo, secondo come mi volgo: e chiunque si studi molto attentamente trova in sé, e anzi nel suo stesso giudizio, questa volubilità e discordanza. Non posso dir niente di me, assolutamente, semplicemente e solidamente, senza confusione e mescolanza, né in una sola parola. Distingo è l’articolo più universale della mia logica»103.

In particolar modo nei capitoli Dell’esperienza e Della pedagogia, Montaigne delegittima le conoscenze acquisite con studio teorico e per gusto d’erudizione, affermando che la medicina, la filosofia, la storia, sono tutte vane e nocive se trasmesse da chi, senza averle prima assimilate, le trasferisce dalla propria bocca a quella dei suoi sottoposti. E delinea un modo alternativo per accumulare e comunicare le conoscenze, che esige, invece, la completa rielaborazione delle informazioni raccolte. Pertanto, adempiendo a questo modello critico di formazione e rielaborando le proprie letture al fine di conoscere e di formare se stesso, Montaigne dà un senso nuovo agli enunciati e alle concezioni che

102 Saggi III 13, p. 2011.

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49 riusa104. E, proclamando l’esigenza di un nuovo linguaggio scettico, supera le affermazioni degli Schizzi pirroniani e rivela più che altrove la propria attitudine re-interpretativa.

104 Sulla priorità e sul valore determinante che la riflessione personale ha riguardo al modo in cui Montaigne riutilizza le proprie letture, cfr. C.BLUM, Ecrire le «moi». «J’adjoute, mais je ne corrige pas», in M.TETEL

(a cura di), Montaigne (1580-1590), Actes du colloque internationale (Duke University-University of Carolyna, 28-30 marzo 1980), pp. 44 e sgg.

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