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La concisione espressiva e la polivalenza degli enunciati.

II. L’ ATTITUDINE SCETTICA : OSSERVAZIONE DI SÉ E INCOSTANZA DEL GIUDIZIO

IV.3. La concisione espressiva e la polivalenza degli enunciati.

Oltre agli eccessi di frammentismo la scrittura discontinua presenta un altro inconveniente, forse maggiore se lo consideriamo al cospetto del progetto antidogmatico che persegue Montaigne. Infatti, senza connetterli fra loro, il filosofo francese dà al lettore l’impressione di scrivere enunciati autonomi e autosufficienti rispetto al discorso complessivo, nella forma e col tono perentorio della sentenza di latina memoria:

«Venga prima o dopo, un’utile sentenza, un bel detto cade sempre a proposito. Se non si adatta a quello che precede né a quello che segue, è buono in sé»210.

Ma subito dopo aver detto ciò, chiarisce l’atteggiamento tenuto nei confronti delle sentenze citate, che niente ha a che vedere con la soggezione che ci si aspetta da chi crede nell’autorevolezza e nel valore categorico di affermazioni così espresse:

«Ci sono alcuni tanto sciocchi da allontanarsi dalla propria strada un quarto di lega per correr dietro a una bella frase o che non adattano le parole all’argomento, ma vanno a

cercar fuori tema cose a cui le parole possono applicarsi. E l’altro: Ci sono di quelli che per la bellezza di una parola che loro piace si lasciano indurre a scrivere cose che non si erano proposti di scrivere. Io ritorco una buona sentenza per cucirmela addosso ben più volentieri

di quanto ritorca il mio filo per andarla a cercare»211.

Montaigne non pensa di contraddire la propria vocazione antidogmatica a causa dell’incisività delle formule sentenziose che recepisce e riusa. Tanto meno formula enunciati apparentemente sconnessi affinché il lettore li recepisca come affermazioni in sé

210 Saggi I 26, p. 309. Per una definizione della sentenza latina all’insegna di brevità formale, densità semantica e valore performativo e categorico dell’enunciazione, cfr. L.NOSARTI, Le «forme brevi» nella

letteratura latina, in M.A. RIGONI (a cura di), La brevità felice: contributi alla teoria e alla storia

dell’aforisma, Venezia 2006, pp. 89-120. Cfr. anche G. CALBOLI, Aforismi a Roma, in G.RUOZZI (a cura di),

Teoria e storia dell’aforisma, Milano 2004, pp. 17-38. Anche Compagnon e Freccero riscontrano il rischio di

fraintendere gli enunciati sconnessi come affermazioni di verità, e collocano quest’errore alla base di una tradizione interpretativa che da Charron giunge fino a Edmond Lablénie, autore del libro Montaigne auteur

de maximes, Parigi 1968. Per Compagnon e Freccero Montaigne scongiura questo errore interpretativo

introducendo le sentenze all’interno di discorsi ad argomento personale, dove l’abbondante presenza aneddotica esercita un effetto relativizzante su tutte le enunciazioni, dunque anche sulle sentenze: cfr. A. COMPAGNON e C.FRECCERO, A long short story, cit., pp. 45-7.

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105 conchiuse di verità assolute. Al contrario, segmenta il discorso per evitare di argomentare in modo esplicito e univoco cosa intende dire, e per lasciare il campo aperto alle disparate ipotesi interpretative del lettore. E non solo riesce a garantire l’impostazione zetetica dei

Saggi malgrado l’aspetto sentenzioso e conciso di alcuni enunciati, ma sfrutta quest’ultimo

per appellare lo sforzo ermeneutico del lettore.

Al rifiuto di comporre periodi con «stile uniforme, unito e ordinato» corrisponde la stesura di brani di discorso brevi e allusivi. E non ci dobbiamo fare ingannare dal fatto che Montaigne cita Platone scrivendo «che il lungo o il breve non sono proprietà che tolgano o diano al linguaggio»212, perché in questo caso l’autore dei Saggi concepisce lunghezza e brevità solo come meri parametri quantitativi.

Però, come dice Gerard Dessons, «trattandosi di linguaggio, la prospettiva non può più essere quella dell’esteriorità dimensionale, ma quella di un rapporto interno alla parola»213

, dunque possiamo dedurre che con la dittologia court et serré Montaigne intenda valutare la concisione delle espressioni ideali riferendosi alla loro capacità di rappresentare molte cose con poche parole. E corroboriamo questa ipotesi rintracciando la costante del termine serré all’interno di un periodo che Montaigne scrive in difesa della propria coerenza argomentativa e a carico dell’abilità interpretativa dei lettori:

«C’est l’indiligent lecteur qui perd mon sujet, non pas moi: il s’en trouvera toujours en un coin quelque mot qui ne laisse pas d’être bastant quoqu’il soit bien SERRÉ»

«È il lettore negligente che perde il mio argomento, non io: se ne troverà sempre in un angolo qualche parole che non mancherà di essere bastante, per quanto CONCISA»214.

Nel capitolo Della gloria Montaigne presenta la propria opinione in modo inequivocabile: dicendo che «il nome non è una parte della cosa né della sua sostanza: è un pezzo estraneo aggiunto alla cosa, e fuori di essa»215, infatti, giudica in termini di esteriorità reciproca il rapporto fra parole e realtà designate. Tuttavia, in Della vanità rivendica l’efficacia

212 Per entrambe le citazioni, cfr. Saggi II 37, p. 1183. 213

«[…] S’agissant de langage, la perspective ne peut plus être celle de l’éxtériorité dimensionelle, mais celle d’un rapport interne à la parole», cfr. G.DESSONS, La notion de brièvieté, «La Licorne», XXI (1991), p. 4. Cfr. anche A.MONTANDON, Le forme brevi, ed. it. a cura di E. Sibilio, Roma 2001, p. 13.

214 Saggi III 9, pp. 1848 e sg. 215

106 rappresentativa delle parole che usa senza cadere in contraddizione, poiché non la intende nei termini di una biunivocità naturale fra significante e significato, bensì in quelli di una capacità di accennare ai contenuti in modo allusivo216.

Al collasso del rapporto di significazione naturale fra nomi e cose, infatti, corrispondono, due esiti: la concezione nominalista, secondo la quale i nomi non sono che «vento e suono»; e la concezione allusiva del linguaggio, secondo la quale le parole non designano ciascuna un’unica realtà di fatto, ma indicano con lo stesso nome più realtà.

«Per quante varietà di erbe vi siano, tutto è compreso sotto il nome di insalata»217, ma non dobbiamo supplire all’imprecisione denotativa delle parole profondendosi in postille e aggiunte chiarificatrici, perché quest’ultime, paradossalmente, restringono la comunicazione al solo piano esplicito dell’espressione, togliendo all’interlocutore la possibilità di intuire le cose indicate in modo implicito e allusivo218. Pertanto, Montaigne sfrutta la mancanza di referenzialità ontologica delle parole per ampliare indefinitamente lo spettro dei significati che esse possono significare, ed, elevando la densità semantica di ogni parola, esprime concezioni e pensieri tanto più complessi quanto più sono brevi e condensate le frasi attraverso cui le formula - e che il lettore reinterpreta in modo autonomo.

In modo analogo, estrae e riusa enunciati di opere altrui senza identificarli, per togliere al lettore un referente stabile e univoco da sostituire alla citazione riconosciuta. E senza argomentarne la scelta né spiegarne il contenuto, impedisce che il proprio punto di vista o quello dell’autore citato canalizzino il lavoro ermeneutico del lettore.

Certamente, quindi, Montaigne non ha in mente di incrementare l’incisività delle citazioni che usa, ma intende ampliare le possibilità interpretative dei loro significati e realizzare l’ideale retorico della copia rerum senza bisogno di copia verbarum:

«Ora, noi che invece cerchiamo qui di formare non un grammatico o un logico, ma un gentiluomo, lasciamogli sprecare il loro tempo: abbiamo altro da fare. Purché il nostro discepolo sia ben provvisto di cose, le parole verranno dopo in abbondanza: le trascinerà se non vogliono seguirlo. Sento alcuni che si scusano di non sapersi esprimere, e si danno l’aria di aver la testa piena di tante belle cose, ma di non poterle mettere in mostra per mancanza di eloquenza. È una fandonia. Sapete di che si tratta, secondo me? Sono ombre che vengono

216 Ci riferiamo al brano citato nella pagina precedente, cfr. n. 214. 217 Saggi I 46, p. 493.

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107 loro da qualche concezione informe che non sanno districare e chiarire nell’intimo, né di

conseguenza metter fuori: non capiscono ancora se stessi. E guardateli un po’ balbettare sul punto di partorirle, giudicherete che la loro fatica non è nel parto, ma nel concepimento, e che non fanno che leccare quella materia ancora informe. Per parte mia ritengo, e Socrate lo conferma, che chi ha in mente un’idea viva e chiara, la esporrà, magari in bergamasco, o a gesti se è muto: Se si possiede l’argomento, le parole verranno facilmente. E come diceva quello altrettanto poeticamente nella sua prosa, quando le cose hanno afferrato lo spirito, le

parole vengono in folla. E l’altro: le cose stesse trascinano le parole»219.

Nel capitolo Dell’educazione dei fanciulli, infatti, Montaigne chiarisce la propria posizione contro la retorica pedantesca, fondata sull’eloquio ricco di parole e di citazioni sebbene sprovvisto di contenuti. E scommette su un nuovo progetto pedagogico, che delega ai discepoli l’onere di esprimere in modo maturo e autonomo gli argomenti che i maestri comunicano loro solo per «punti capitali». Dunque, compone i Saggi improntando il proprio stile comunicativo alla trasmissione di cose piuttosto che di parole, ed eludendo gli esiti dogmatizzanti che la comunicazione precettorale esercita sui ragazzi educati alla moda rinascimentale ed erudita.

Al contrario dei pedantes, infatti, Montaigne cerca di stimolare lo spirito critico dei lettori riferendo pensieri personali e altrui senza pronunciarsi definitivamente a favore di nessuno di essi. E lascia la conclusione in sospeso, per non indurre alcuna direzione interpretativa, e per incitare chi legge a interrogarsi - come già egli stesso fa - sui discorsi dei Saggi e sulle concezioni tradizionali riportate sotto forma di citazioni non identificate220.

219 Saggi I 26, p. 307. I tre corsivi sono: Orazio, Ars poetica, 311; Seneca il retore, Controversiae, III, proemio; Circerone, De finibus, III, 5. Sull’impossibilità di comprendere i significati indicati allusivamente mediante una semplice sostituzione del segno con il referente, cfr.W.IRWIN, What is an Allusion?,cit., p. 288. Per il concetto di copia dicendi - sinonimico, rispetto ad eloquenza -, che Montaigne recepisce dalle opere retoriche di Cicerone e dall’Istitutio oratoria di Quintiliano, e per la sua articolazione in copia rerum e in copia verbarum, cfr. T.CAVE, Cornucopia.. igures de l’abondance au I siecle: rasme, Rabelais,

Ronsard, Montaigne, trad. fr. da G. Morel, Parigi 1997, pp. 31-6. 220 Cfr. A.T

OURNON, Tout dire ou tout désigner, «Revue d’histoire littéraire de France», V(1988), p. 932. Per l’effetto che lo stile allusivo procura allo stesso Montaigne, che quando si rilegge è continuamente costretto a riesaminare concetti che non ha chiarito nelle stesure precedenti, cfr. J.Y.POUILLOUX, Dire à demi, in ID.,

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