• Non ci sono risultati.

L’effetto polifonico delle citazioni.

II. L’ ATTITUDINE SCETTICA : OSSERVAZIONE DI SÉ E INCOSTANZA DEL GIUDIZIO

III.3. L’effetto polifonico delle citazioni.

Nell’Apologia di Raimond Sebond Montaigne si mostra insoddisfatto della difesa sestana dalle accuse contro il modo assertivo di dichiarare: «Io dubito». Non si sente convinto né dalla metafora auto-purgativa, né dalla pratica oppositiva delle opinioni. Per di più, ha sperimentato su di sé l’impossibilità umana di controbilanciare le opinioni:

«Molte volte (come facilmente mi accade di fare), avendo cominciato per esercizio a sostenere un’opinione contraria alla mia, il mio spirito, applicandosi e volgendosi da quella parte, mi ci attacca così bene che non trovo più la ragione della mia prima opinione, e me ne allontano»132.

E ha evidenziato il dramma autodistruttivo che la rinuncia alla propria opinione comporta:

«[…] Quest’ultima mossa [la dimostrazione scettica dell’invalidità di ogni opinione umana] bisogna usarla come estremo rimedio. È un colpo disperato nel quale bisogna che abbandoniate le armi per far perdere al vostro avversario le sue, e una mossa segreta della quale bisogna servirsi di rado e con parsimonia: è una grande temerarità perdere se stessi per rovinare un altro»133.

Per questi motivi, elabora un nuovo linguaggio scettico: per scrivere e per rivelare la vanità delle opinioni altrui senza esporsi in qualità di soggetto di enunciazione.

Nei Saggi Montaigne non contraddice mai apertamente le opinioni che riporta, esibendo piuttosto un giudizio apparentemente neutrale. Tuttavia, adopera molti accorgimenti stilistici per intaccare la credibilità dei propri discorsi, come, ad esempio, l’accumulazione di aneddoti o di opinioni divergenti sebbene d’argomento affine.

In questo modo, supera i problemi cui sarebbe incorso esprimendosi a titolo personale e con forma assertiva; aggira le tradizionali accuse anti-scettiche di afasia e di dogmatismo, e garantisce l’impostazione problematica dei discorsi dei Saggi. Peraltro, accumulando opinioni e aneddoti, va oltre l’enunciazione che Sesto concepisce come il racconto di

132 Saggi II 12, p. 1041. 133

68 affezioni provate circa determinati oggetti e situazioni, ed escogita una nuova enunciazione non assertiva, per la quale radicalizza la dimensione soggettiva del locutore.

Già Sesto ha definito la natura soggettiva delle enunciazioni:

«Talché non è questa nostra la espressione dogmatica di un discorso, ma l’enunciazione di un’affezione umana, cioè di quello che appare a chi ne è affetto»134

.

Montaigne, però, riporta parole altrui in modo da accentuare la visibilità del valore soggettivo di ogni espressione. Così facendo, colloca le proprie enunciazioni all’interno di un discorso a più voci, dove ammassa le citazioni per segnalare la molteplicità di opinioni esistenti e per impedire a se stesso di trascurare la natura relativa e prospettica delle proprie enunciazioni. Quindi, previene se stesso dall’errore dogmatico e universalistico di porre la propria opinione come l’unica spiegazione esistente dello stato di cose considerato.

Pare giusto notare che, invece, gli scettici antichi lasciano aperta l’eventualità che l’uomo consideri vere le rappresentazioni involontarie ed evidenti che concepisce riguardo ai fenomeni. E che, riducendo la pratica antidogmatica alla contrapposizione di opinioni, lasciano l’uomo nel pericolo di ritenere vere quelle rappresentazioni sensibili ed evidenti alle quali nessuno, per caso, ha ancora ancora contrapposto opinioni uguali e contrarie:

«Diciamo noi che lo Scettico non dogmatizza, non nel senso in cui prendono la parola alcuni, per i quali, comunemente, è dogma il consentire a una cosa qualunque, poiché alle affezioni che conseguono necessariamente alla rappresentazioni sensibili lo Scettico assente».

«Coloro che dicono che gli Scettici sopprimono i fenomeni parmi non abbiano udito quello che da noi si dice; ché noi non sovvertiamo quello che, senza il concorso della volontà, ci conduce ad assentire in conformità dell’affezione che consegue alla rappresentazione sensibile, come sopra, anche abbiamo dichiarato, e questi sono i fenomeni. […]. Così, per

134

69 esempio, il miele produce in noi, manifestatamente, una sensazione di dolcezza, (questo lo

ammettiamo: proviamo, infatti, una sensazione di dolcezza)»135.

Al contrario, colui che identifica la propria opinione con quella espressa da altre persone ha sempre presente la natura soggettiva dell’impressione alla base della propria opinione, poiché ammette fin da subito di aver un contatto doppiamente mediato con la realtà - dalla propria prospettiva, e dalla prospettiva soggettiva degli altri opinanti.

Anche se può sembrare che Montaigne ammassi opinioni disparate per far constatare l’inconciliabilità reciproca di tutti gli opinanti136

, in realtà, sta cercando di contrastare la tendenza a conferire oggettività alle opinioni maturate partendo da rappresentazioni

apparentemente evidenti e spontanee. Pertanto, esibisce un numero indefinito di opinioni,

per offrire al lettore un campionario di idee fra le quali riconoscere la propria concezione e per impedirgli, dunque, di sentirla come unica, esclusiva e incontrovertibile.

Consideriamo, adesso, ciò che Montaigne dice sul proprio stile di scrittura e sull’intenzione di conformarlo al proprio modo di pensare. Ad un livello esplicito, Montaigne attribuisce disordine e inosservanza della retorica tradizionale all’esclusività del proprio progetto, per il quale si prefigge l’unico scopo di riprodurre i pensieri che affollano la propria mente. Però, anche se ripete di aver scritto discorsi discontinui a causa della illogicità dei propri pensieri, egli stesso mette in guardia contro l’insincerità dei passi dove ostenta naturalezza espressiva:

«Laddove il mio proposito è di ostentare, parlando, una profonda noncuranza, e gesti fortuiti e non premeditati, quasi nascenti dalle circostanze presenti. Preferendo non dir nulla di

135

HP I 13 e HP 19. In base ad una considerazione non tecnica del vocabolo dogma, - nel significato di approvazione di qualcosa che rientra nella sfera delle affezioni necessarie, come il sentire caldo o freddo -, Sesto ammette che anche lo scettico dogmatizzi, in quanto è portato in modo involontario ad acconsentire ad alcune sensazioni senza potergli contrapporre alcuna opinione razionalmente prodotta. Tuttavia, lo scettico acconsente all’evidenza della sensazione provata davanti ad un determinato stato di cose, ma non afferma che esso sia ontologicamente come gli appare. Ad esempio, lo scettico che gusta la dolcezza del miele non può teorizzare che il miele sia ontologicamente dolce. Per uno studio sulle differenze fra l’accettazione della sensazione evidente e l’affermazione ontologica, cfr. E.SPINELLI, Questioni scettiche, cit., pp. 137-40. 136

70 buono piuttosto che mostrare di essere venuto preparato per parlar bene: cosa sconveniente,

soprattutto per persone della mia professione»137.

Pertanto, non dobbiamo concepire la scrittura di Montaigne come dipendente in modo deterministico dalla sua «umana condizione» di volubilità, altrimenti trascureremmo tutte le dichiarazioni di metodo che egli formula sul proprio stile:

«Io propongo qui delle fantasie informi e insolute, come fanno quelli che prospettano questioni dubbiose da dibattere nelle scuole: non per stabilire la verità, ma per cercarla».

«Io dico liberamente il mio parere su tutte le cose, anche su quelle che forse oltrepassano la mia capacità, e che ritengo non siano affatto di mia competenza. L’opinione che me ne faccio serve anch’essa a mostrare la misura della mia vista, non la misura delle cose».

«Aggiungendo sempre questo ritornello, non un ritornello di convenienza, ma di semplice ed essenziale sottomissione: che parlo da curioso e da ignorante, riferendomi per decidere, puramente e semplicemente, alle credenze comuni e legittime. Non insegno, racconto»138.

Alla luce di questi e di altri passi - ad esempio, quelli dove loda lo stile dubitoso di Plutarco e di Seneca, e dove afferma di considerare i propri pensieri come materia di esercizio e non di insegnamento139-, riteniamo opportuno interpretare l’impostazione problematica e disordinata dei Saggi non come l’effetto dell’incapacità a pensare in modo stabile, bensì come la scelta di un procedimento discorsivo tale da produrre nel lettore un modo critico di pensare.

Come Sesto, anche Montaigne non relega il linguaggio alla semplice comunicazione di pensieri già definiti, ma lo considera lo strumento principale per produrre l’attitudine antidogmatica. E come Sesto provvede il linguaggio di un vocabolario di espressioni

137 Saggi III 9, pp. 1787 e sg.

138 Saggi I 56, pp. 563 e sg., II 10, p. 729 e sg. e III 2, p. 1489. 139

71 apposite per riferire l’attitudine dubitativa, in modo simile Montaigne manifesta una preferenza per determinate locuzioni:

«Ma in molte cose di questo genere, che vanno oltre la nostra conoscenza, sono del parere che dobbiamo sospendere il nostro giudizio, senza respingerle né accettarle. Nascono molti errori nel mondo, o per dirla più chiaramente, tutti gli errori del mondo nascono dal fatto che ci insegnano a temere di fare professione della nostra ignoranza, e che siamo tenuti ad accettare tutto quello che non possiamo refutare. Parliamo di tutte le cose in forma precettiva e asseverativa. La procedura a Roma voleva che anche quello che un testimone deponeva avendolo visto con i propri occhi, e quello che un giudice stabiliva in base alla sua scienza più sicura, fosse espresso con questa formula: «Mi sembra». Mi si fanno odiare le cose verosimili quando mi vengono date per infallibili. Mi piacciono queste parole che addolciscono e moderano la temerarità delle nostre dichiarazioni: «forse», «in certo modo», «qualche», «si dice», «penso», e simili. E se avessi dovuto educare dei fanciulli, avrei messo loro in bocca questa maniera di rispondere interrogativa, non affermativa: «Come sarebbe a dire? Non lo capisco… Potrebbe darsi… È vero?», in modo che conservassero l’atteggiamento di novizi a sessant’anni, piuttosto che imitare i dottori a dieci, come fanno»140.

Come nello scetticismo antico i saggi usano le espressioni scettiche per formulare discorsi da opporre ai giudizi dogmatici, senza porre anch’essi come giudizi di verità, per lo stesso motivo Montaigne ama le formule «forse», «in certo modo», «qualche», «si dice», «penso». A differenza di Sesto, però, Montaigne non codifica queste espressioni. E non solo non le considera necessarie per modulare il discorso in modo non assertivo, ma predispone espedienti antidogmatici alternativi, e intellegibili solo al «lettore perspicace». In particolar modo, pensiamo all’emprunt come al corrispettivo implicito dell’espressione «Si dice»141, che Montaigne usa per impedire l’individuazione del soggetto enunciativo, per fissare il valore degli enunciati anonimi a quello di rappresentazioni di esperienze qualsiasi, contingenti e discutibili142, e per rendere la propria opinione talmente indistinguibile nel coacervo di voci da farci domandare «Chi parla nei Saggi?»143.

140 Saggi III 11, pp. 1915 e sg. 141

On dit, nella versione originale.

142 Per la funzione rappresentativa ed epistemologica dell’esempio presso Montaigne, cfr. H.H. E

HRLICH,

Montaigne: la critique et le langage, Parigi, 1972, p. 83-90, dove Ehrlich segnala la contrapposizione fra

l’uso di storie reali o inventate da parte di Montaigne e l’esempio di aristotelica definizione. In Retorica II 20 1393a-1394a, Aristotele considera l’esempio come la rappresentazione induttiva di una considerazione

72 Così facendo, Montaigne può rifiutarsi di garantire la credibilità di ciò che riporta e racconta:

«Quelli che amano la caccia col falcone hanno sentito raccontare di quel falconiere che, fissando intensamente con lo sguardo su un nibbio in volo, scommetteva di farlo cader giù con la sola forza della propria vista; e lo faceva, A QUANTO DICONO [ON DIT] . Perché le storie che riporto le metto sulla coscienza di quelli da cui le prendo»144.

E non solo rende indistinguibile la propria, ma anche le voce di tutti gli autori evocati, in modo da intensificare la polivalenza di ogni enunciato. Difatti, lasciandole anonime e decontestualizzandole, Montaigne dimostra di non volerle solo privare di autorevolezza, ma anche di volere accentuare l’equivocità complessiva dei loro enunciati145

.

Pensiamo possibile, perciò, riferire alla scrittura di Montaigne la nozione bachtiniana di polifonia, non prima, però, di aver compreso la diversa sfumatura con cui intenderla. Secondo Bachtin, Dostoevskij produce l’effetto dialogico dei propri romanzi presentando i personaggi come una «pluralità di coscienze equivalenti e incompatibili», ciascuna detentrice di una prospettiva particolare sulla realtà. E produce la simmetria fra le voci rappresentate omettendo la propria preferenza fra le prospettive da esse delineate146. generale, e lo definisce come prova tecnica per persuadere della verità dell’opinione generale che esso rappresenta. Al contrario, Montaigne giustappone storie diverse e discordi per far dubitare dell’opinione che esse rappresentano al titolo di esemplificazioni contingenti, relative e parziali. Per l’uso di aneddoti e citazioni come casistica d’esperienze per sviluppare una problematica soggettiva e per riflettere su stesso, cfr. F.GARAVINI, Au «sujet» de Montaigne. De la leçon à l’écriture du moi, in J. BRODY,F. GARAVINI,M. JEANNERET,A.TOURNON (a cura di), Carrefour Montaigne, Pisa-Ginevra 1994 , pp. 84-7.

143 F. J

OUKOVSKI, Qui parle dans le livre III des “Essais”, «Revue d'Histoire littéraire de la France», V (1988), pp. 813-27.

144 Saggi I 21, p. 185. 145

Per uno studio sulla composizione polisemica degli enunciati nei Saggi, cfr. M.L.DEMONET, À Plaisir.

Sémiotique et scepticisme chez Montaigne, Orleans, 2002, pp 199-217. Demonet evidenzia il sovraccarico di

senso che ogni parola usata da Montaigne riceve grazie ad un processo di significazione idiosincratico, che si aggiunge all’acquisizione dei significati multipli già codificati. Di più, Demonet nota gli effetti di tale scrittura polisemica sulla ricezione dei Saggi, la cui lettura diventa un atto di ricomposizione del senso affidata al filtro del lettore, che aggiunge anche il proprio apporto prospettico. Per la consapevolezza con cui Montaigne sfrutta la polisemia, cfr. Saggi III 5, p. 1619.

146

«Dostoevskij sa appunto raffigurare l’idea altrui conservandone tutto intero il significato, come idea, ma al tempo stesso conservando anche la distanza, senza affermare né confondere questa idea con la propria espressa ideologia»., M.BACHTIN, Dostoevskij. Poetica e stilistica, Torino 1968, p. 111. In modo affine, Montaigne mantiene il distacco dagli enunciati che riporta. In modo opposto, non tutela l’integrità delle idee altrui: provvede a confonderle e frammentarle intrinsecamente, tacendo qualsiasi informazione sul loro contesto enunciativo originario; e estrinsecamente, confrontandole con citazioni sempre diverse.

73 Pensiamo, però, che Montaigne abbia manifestato, prima di Dostoevskij, un progetto di plurivocità letteraria ancora più complesso, attuato grazie all’emprunt.

Infatti, pur non potendo giudicare le prospettive dei personaggi in base ad un quadro globale definito dall’autore, il lettore di romanzi polifonici può comunque dedurre l’assiologia di ogni enunciato individuando la prospettiva incarnata dal personaggio che lo formula. Al contrario, colui che legge una citazione senza menzione d’autore non può comprenderla riconducendola al suo contesto originario, e, senza riferimento alcuno, può reinterpretarla a proprio piacimento147.

Rimettendo così ogni enunciato alle interpretazioni dei lettori, Montaigne moltiplica per un numero indefinito le voci coinvolte nei Saggi; e, accentuando la polivalenza degli enunciati, delegittima la pretesa di attribuire valore univoco a qualsiasi discorso - quelli degli autori antichi compresi.

Nello scorso capitolo abbiamo notato che, per rendere più credibile la concezione dell’incostanza del giudizio umano, Montaigne dimostra l’instabilità nei percorsi speculativi dei grandi filosofi del passato - più alto esempio di umanità - invece di ricercarla nei ragionamenti dell’uomo comune148. Allo stesso modo, pensiamo che Montaigne renda più credibile l’ipotesi dell’invalidità epistemica di ogni opinione dimostrando la controvertibilità e l’equivocabilità nelle grandi opinioni filosofiche invece che nelle opinioni dell’uomo comune. Ed infatti, ripetendole in contesti diversi, Montaigne dimostra che neanche le opinioni antiche denotano in modo univoco e naturale sempre lo stesso stato di cose, e che, al contrario, «le parole riferite hanno, come altro suono, altro senso»149. Perciò, ammettendo che i filosofi antichi - più alto esempio di umanità - formulano enunciati equivocabili, a maggior ragione dobbiamo ammettere di farlo anche noi - che costituiamo il più modesto esempio di umanità.

147 Per uno studio sugli effetti di polifonia interna e di polifonia esterna dovuti all’evocazione di soggetti enunciativi differenti - che siano o no identificati, non è determinante - da parte delle espressioni dubitative elencate nel brano di Saggi, III 11 riportato a p. 16, cfr. K.SELLEVOLD, Phonai skeptikai et expressions

modalisantes. Ressemblances et differences, in M.L. DEMONET e A. LEGROS (a cura di), L’écriture du

scepticisme chez Montaigne. Actes des journées d’étude (15-16 novembre 2001), Ginevra 2004, pp. 25-37.

Secondo Sellevold l’effetto di polifonia interna si verifica quando l’autore accetta l’opinione altrui riportata, e l’effetto di polifonia esterna si verifica quando l’autore dice di rifiutare l’opinione altrui riportata.

148 Saggi II 12, pp. 907 e sg., già riportato in cap. 2, p. 32. Cfr. anche Saggi II 12, p. 997.

149 Saggi III 12, p. 1979. Per la relazione convenzionale e non naturale fra i nomi e le cose, cfr. «C’è il nome e la cosa: il nome è un suono che designa e significa la cosa; il nome non è una parte della cosa né della sua sostanza: è un pezzo estraneo aggiunto alla cosa e fuori di essa», Saggi II 16, p. 1143.

74