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L’evocazione di intertesti non identificati.

II. L’ ATTITUDINE SCETTICA : OSSERVAZIONE DI SÉ E INCOSTANZA DEL GIUDIZIO

IV.4. L’evocazione di intertesti non identificati.

La riflessione d’ambito pedagogico offre a Montaigne il pretesto per esprimere la propria concezione critica del sapere. Nel capitolo precedente abbiamo evidenziato la dimensione antidogmatica della polemica contro la cultura pedantesca, e abbiamo ricondotto l’uso montaigniano di non identificare le citazioni alla volontà di liberare i lettori dalla soggezione verso dottrine e concezioni dei grandi pensatori del passato. Ma la ricezione acritica dei lettori non costituisce l’unico problema che Montaigne deve prevenire, dal momento che, delegittimando ogni comunicazione tacciabile di veridizione, il filosofo rischia d’invalidare lo stesso progetto dei Saggi. Perciò, si mette in cerca di uno stile adatto a trasmettere pensieri non recepibili come l’espressione assertiva e univoca di opinioni definite.

Anche in questo caso Montaigne sfrutta il pretesto della polemica anti-erudita. Infatti, accusa i precettori che impongono agli alunni di imparare e di ripetere a memoria i discorsi dei grandi autori, dando l’impressione di auspicare semplicemente un nuovo modello educativo all’insegna dell’emancipazione degli alunni:

«E [vorrei] che nel suo ufficio egli [il precettore] si conducesse in una maniera nuova. Non si smette di blaterarci negli orecchi, come si versa in un imbuto, e il nostro compito è ridire quello che ci è stato detto. Vorrei che egli correggesse questo punto; e che fin dal principio, secondo le possibilità dell’animo che gli è affidato, cominciasse a metterlo alla prova, facendogli gustare le cose, sceglierle e discernerle da solo. A volte aprendogli la strada, a volte lasciandogliela aprire. Non desidero che inventi e parli lui solo, desidero che ascolti il suo discepolo parlare a sua volta. L’autorità di coloro che insegnano nuoce spesso a coloro

che vogliono imparare»221.

Ma in realtà traccia i lineamenti della relazione comunicativa ideale, da garantire a tutti i tipi di espressione possibile: da quello orale a quello letterario. Infatti, se ogni locutore è tenuto a parlare con atteggiamento problematico e disponibile alla discussione, a maggior ragione lo è lo scrittore, che deve, peraltro, arginare la tendenza umana a giudicare veri

221 Saggi I 25, p. 269. Il corsivo tra parentesi quadre è mio. L’altro corsivo è Cicerone, De natura deorum, I 5. In nota Fausta Garavini segnala che Montaigne modifica l’enunciato originale «obest plerumque iis qui

discere volunt auctoritas eorum qui se docere profitentur» in «obest plerumque iis qui discere volunt auctoritas eorum qui docent».

109 alcuni pensieri per il solo fatto che sono stati messi per iscritto e che li si possano tramandare:

«Come la metteremo con questa gente che accoglie solo testimonianze stampate, che non presta fede agli uomini se non sono in forma di libro, né alla verità se non ha l’età adatta? Noi diamo dignità alle nostre sciocchezze quando le diamo alle stampe. Per loro ha un peso diverso dire: «L’ho letto» piuttosto che «L’ho sentito dire»»222.

Dunque, Montaigne tenta di correggere l’atteggiamento dei lettori adottando uno stile che neutralizza gli effetti dogmatizzanti dell’enunciazione scritta. E sfrutta la polisemia di parole svincolate da legami denotativi stabili e la polivalenza di proposizioni svincolate da contesti enunciativi riconoscibili, per evitare di formulare in prima persona opinioni da comprendere in modo univoco. E in questo modo, non solo produce un discorso libero dai caratteri della formulazione assertiva, ma instaura con il lettore una relazione libera dai caratteri della trasmissione unilaterale di opinioni personali e di conoscenze definite. Pertanto, Montaigne rivendica il diritto di usare in modo improprio e indifferente le parole, ripetendo la mossa grazie alla quale Sesto tenta di evitare che gli Schizzi pirroniani vengano letti come la formulazione teorica dello scetticismo antico:

«Dell’indirizzo scettico diremmo sommariamente ora noi, premettendo che nulla di quanto sarà detto intenderemo affermare che sia proprio così come noi diremo, ma, con intento investigativo, intorno a ciascuna cosa riferiremo quello che al presente ci pare»223.

E, rivendicando il diritto di usare in modo improprio anche interi enunciati, li decontestualizza dalla loro fonte originaria e ne impedisce l’integrazione nella nuova trama dei Saggi, in modo da incrementare la loro polivalenza.

Per questo motivo, intendiamo affermare che Montaigne raddoppi il valore allusivo dell’intertestualità, dal momento che non si limita a riportare le citazioni per evocare

222 Saggi III 13, p. 2015.

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110 intertesti disparati, ma rende difficile riconoscerle per ampliare lo spettro dei sensi in cui esse possono essere interpretate224.

Come lui stesso afferma, infatti, non si attiene al senso originale degli enunciati che ripete, e non richiede al lettore di recuperarlo, bensì di sviluppare il numero indefinito dei sensi che essi possono avere.

D’altronde, Montaigne pensa che il desiderio di individuare i significati nascosti delle espressioni costituisca la «malattia naturale dello spirito umano»:

«Chi non direbbe che le glosse aumentano i dubbi e l’ignoranza, poiché non si trova alcun libro, sia umano sia divino, del quale il mondo si occupi, la cui interpretazione faccia esaurire la difficoltà? Il centesimo commento lo rinvia al successivo, più spinoso e più scabroso di quanto lo avesse trovato il primo. Quando mai si è convenuto fra noi «Questo libro ne ha a sufficienza, non c’è ormai più nulla da dire»? […]. Tuttavia, troviamo forse un fine al bisogno di interpretare? Si vede forse qualche progresso o avanzamento verso la tranquillità? […]. Al contrario, oscuriamo e seppelliamo la comprensione. Non la scopriamo più se non attraverso serrami e barriere. Gli uomini disconoscono la malattia naturale del loro spirito. Questo non fa che frugare e indagare e va senza posa girando, architettando e impastoiandosi nella sua bisogna, come i bachi da seta, e vi soffoca. Mus in pice. Crede di scorgere, da lontano, non so quale parvenza di chiarezza e verità immaginaria; ma mentre vi corre, tante difficoltà gli attraversano la strada, tanti impedimenti e nuove ricerche, che lo smarriscono e lo stordiscono»225.

Perciò non spera di sradicare la tentazione ermeneutica dei lettori, ma intende sfruttarla per far loro adottare un’attitudine antidogmatica nei confronti di tutte le opinioni che circolano - a voce o per iscritto. Dunque, allude a testi altrui, per evitare di formulare qualcosa in prima persona e in modo assertivo; e lascia imprecisate le fonti e i motivi per i quali ha scelto determinate citazioni, per privare le proprie enunciazioni dell’univocità e dell’autosufficienza esplicativa tipica dei giudizi di verità. In questo modo, non solo legittima il progetto letterario dei Saggi malgrado le problematiche suscitate dalla minaccia di afasia e di dogmatismo cui incorre ogni enunciazione in forma assertiva, ma riesce a esercitare sul lettore un’influenza relativizzante.

224 Sulla polivalenza delle citazioni, che «circolano» nei Saggi senza che le si possa attribuire ad un opera né ad un autore precisi, e senza che li si possa subordinare alla rappresentazione di contenuti identificabili, cfr. V.H.VELAZQUEZ, Resistance to Appropriation, cit.

225

111 «Prendiamo in custodia le opinioni e la scienza altrui, e questo è tutto. Bisogna farle nostre», per questo Montaigne registra le opinioni altrui in modo tale da sollecitare il lettore a «farle sue». Egli stesso, peraltro, dichiara di non aver semplicemente letto e tramandato le citazioni, ma di averle trasformate anteponendo spesso la propria interpretazione alle intenzioni dell’autore originario. E come Plutarco, che riesce ad esprimere tante più cose quanto meno è esplicito il modo in cui le esprime, a sua volta Montaigne rende difficile individuare le proprie concezioni dietro le proprie frasi.

Perciò si esprime in modo implicito e allusivo: per chiudere al lettore la strada della comprensione univoca e della ricezione acritica, e per obbligarlo allo sforzo ermeneutico e alla presa di coscienza della molteplicità dei significati che uno stesso enunciato può mediare226.

Coinvolgendolo nel processo di costruzione dei sensi testuali, infatti, Montaigne porta il lettore ad adottare un’attitudine critica non solo verso le enunciazioni dei Saggi, ma anche verso le interpretazioni che gli enunciati evocano. Verso le prime, perché non le formula come l’espressione dogmatica di conoscenze definite; e verso le seconde, perché non offre al lettore un quadro di concezioni esplicite cui confrontare e convalidare eventuali interpretazioni.

Infatti, il lettore che non conosce le intenzioni originali con cui l’autore ha formulato determinati enunciati - propri o altrui - non può fare a meno di circoscrivere la legittimità delle proprie interpretazioni alla propria prospettiva parziale e soggettiva. Pertanto, Montaigne non solo scongiura l’inefficacia dell’educazione pedantesca - che, invece, non permette agli uomini di «far proprie» le opinioni recepite -, ma, soprattutto, rende il lettore consapevole della valenza relativa e soggettiva della sua prospettiva.

226 Per il brano cui ci riferiamo, cfr. Saggi I 25, p. 247. Per il tipo d’impegno ermeneutico concepito da Montaigne, che svincola i lettori dall’obbligo di rintracciare significato originario delle citazioni e dei Saggi, cfr. S. RENDALL, Mus in pice: Montaigne and Interpretation, «MLN. Comparative Literature», XCIV/5 (1979), pp. 1063-5 e pp. 1068 e sg.

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