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In cerca del nuovo linguaggio scettico.

II. L’ ATTITUDINE SCETTICA : OSSERVAZIONE DI SÉ E INCOSTANZA DEL GIUDIZIO

II.4. In cerca del nuovo linguaggio scettico.

Montaigne matura un’attitudine antidogmatica talmente personale, da prefiggersi obiettivi pratici e speculativi opposti a quelli ricercati da Sesto. Difatti, pur ereditando le concezioni cardinali dello scetticismo antico e riconoscendo le incapacità conoscitive dell’uomo e le potenzialità antidogmatiche del linguaggio, il filosofo francese matura concezioni inedite sia riguardo al valore del dubbio, che riguardo alla forma enunciativa delle espressioni. Come abbiamo dimostrato nel primo capitolo, gli scettici antichi vedono nel linguaggio il principale strumento per infondere negli uomini un’attitudine critica di pensiero; in modo analogo, Montaigne vede nella comunicazione il principale esercizio per formare se stesso e gli altri uomini all’insegna dello scambio e della discussione critica delle opinioni:

«Il più fruttuoso e naturale esercizio del nostro spirito è, a mio parere, la conversazione. Ne trovo la pratica più dolce di qualsiasi altra azione della nostra vita; è questa la ragione per cui, se ora fossi costretto a scegliere, accetterei piuttosto, credo, di perdere la vista che l’udito. […]. Lo studio dei libri è un’operazione languida e fiacca; mentre la conversazione insegna ed esercita al tempo stesso»88.

Nel capitolo Dell’arte di conversare, Montaigne traccia i lineamenti della comunicazione ideale. Ma prima di esporre le ragioni per le quali il filosofo pensa che essa possa procurare agli uomini l’attitudine antidogmatica, riteniamo opportuno riportare il passo dove egli rende esplicita la propria insoddisfazione verso la forma comunicativa usata dagli scettici antichi:

«Vedo i filosofi pirroniani che non possono esprimere la loro concezione generale in alcuna forma di parlare: poiché occorrerebbe loro un nuovo linguaggio. Il nostro è tutto formato di proposizioni affermative, che sono loro assolutamente invise. Sicché, quando dicono ‹‹Io dubito››, li si prende subito alla gola per far loro riconoscere che almeno affermano e sanno questo, che dubitano. Così sono stati costretti a rifugiarsi in un altro paragone della medicina, senza il quale la loro posizione sarebbe inesplicabile: quando proferiscono ‹‹Io ignoro›› o ‹‹Io dubito››, dicono che questa proposizione se ne parte insieme al resto, né più né meno che il

88 Saggi III 8, p. 1711. Per la conversazione come ideale comunicativo nei Saggi, cfr.M. F

UMAROLI, Les Essais de Montaigne: l’éloquence du for intérieur, in ID., La diplomatie de l’esprit, Parigi 1994, pp. 148 e sgg.

41 rabarbaro che spinge fuori gli umori cattivi ed esce fuori con essi. Questa fantasia è più chiaramente espressa in forma interrogativa: ‹‹Che cosa so io?›› come io l’ho posta per motto sopra una bilancia»89.

Il problema che riscontra Montaigne è antico quanto la tradizione scettica, tanto che le prime documentazioni sulle accuse riguardanti l’auto-contraddizione di dichiarare in forma affermativa «Io dubito» risalgono almeno a Diogene Laerzio. In più rispetto ai Dogmatici antichi, il filosofo francese considera insoddisfacente il modo in cui Sesto replica alle accuse; giudica la metafora del linguaggio auto-purgativo come un espediente per nascondere l’incapacità di trovare una forma di enunciazione non assertiva; e propone quella interrogativa come forma antidogmatica cercata invano da Sesto.

Tuttavia, mettiamo in evidenza che, a parte porre la formula «Que sais-je?» come modello del nuovo linguaggio, il filosofo non articola in modo esplicito la propria proposta, forse proprio perché intende evitare di parlarne in modo assertivo, e perché vuole indurci a interpretare le concezioni cui solamente accenna in modo implicito e allusivo.

Più precisamente, pensiamo che, avendo appena criticato Sesto per l’incapacità di formulare discorsi non affermativi, Montaigne non voglia ripetere l’errore delineando una teoria del nuovo linguaggio scettico; e, soprattutto, che intenda escogitare un modo alternativo per comunicare ai lettori le proprie idee - senza formularle né imporle come vere. Pertanto, riteniamo che Montaigne si prenda carico del problema scettico del linguaggio, e che individui nella comunicazione allusiva la possibilità di esprimere le proprie concezioni senza teorizzarle, e lasciandole all’interpretazione dei «lettori perspicaci», in modo da indurre loro l’adozione di un modo critico di pensare:

«So bene che, quando sento qualcuno soffermarsi sul linguaggio dei Saggi, preferirei ne tacesse. Non è tanto esaltare le parole, quanto avvilirne il senso, in modo tanto più pungente quanto più obliquo. Eppure, ch’io possa sbagliarmi se ce ne sono molti altri che offrono di più come sostanza. E comunque sia, male o bene, se qualche scrittore l’ha trattata in modo più sostanziale o almeno più succoso nelle sue carte. Per mettervene di più ne ammasso solo i punti capitali. Che se vi unissi anche lo svolgimento, moltiplicherei più volte questo volume. E quante storie vi ho disseminato che non dicono nulla, ma chi vorrà spulciarle con un po’ di acume potrà farne infiniti saggi. Né esse, né le mie citazioni servono solamente di esempio, autorità, ornamento. Non le considero soltanto per l’utile che ne traggo. Esse

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42 portano spesso, al di là del mio discorso, il seme di una materia più ricca e più ardita, e

danno in sottofondo un suono più delicato, sia per me che non voglio dirne di più, sia per quelli che intenderanno la mia canzone»90.

D’altronde, ricordiamo che Sesto e Montaigne concepiscono una relazione di co- implicazione fra piano del pensiero e piano dell’espressione, secondo la quale lo stile e il contenuto del pensiero condizionano lo stile e la forma dell’espressione non meno di quanto lo stile e la forma dell’espressione condizionano lo stile e il contenuto del pensiero. Quindi, come gli scettici antichi usano lo stile oppositivo dei discorsi non solo per comunicare l’equipollenza delle opinioni, ma per renderla percepibile, allo stesso modo Montaigne usa lo stile allusivo non solo per esprimere concezioni confuse e instabili, ma per sviluppare un’attitudine di pensiero problematizzante.

Peraltro, sollecitando l’intervento del lettore e riconfigurandolo da destinatario passivo di concezioni predefinite a collaboratore insieme al quale disambiguare i propri pensieri, Montaigne si separa da quella lunga tradizione che concepisce la comunicazione come l’imposizione monologica di un discorso vero da parte di colui che sa su colui che non sa, e, al contrario, instaura con il lettore un rapporto dialogico e paritetico91.

Osserviamo, peraltro, che, evitando di comunicare in modo univoco i propri pensieri, Montaigne sposta l’attenzione del lettore dal piano della comprensione a quello dell’interpretazione di idee indeterminate. E che, grazie allo stile allusivo, il filosofo evita di pronunciarsi in modo esplicito e inibisce nel lettore l’ambizione conoscitiva a favore di quella interpretativa, riuscendo così a neutralizzare i problemi del linguaggio affermativo, e a liberare l’uomo dalla tendenza a ritenere vere le proprie opinioni92.

Difatti, inducendo il lettore a non vedere i Saggi come il deposito di verità predefinite, e privandolo della possibilità di riscontrare le proprie interpretazioni con concezioni univoche, Montaigne lo induce ad adottare una prospettiva gnoseologica di ricerca continua.

90 Saggi I 40, p. 453.

91 Per un’interpretazione della scrittura dei Saggi come imitazione dell’arte di conversare, e per le intenzioni anti-dogmatiche che possono avere portato Montaigne a una scelta del genere cfr. N.PANICHI, I vincoli del

disinganno. Per una nuova interpretazione di Montaigne, Firenze 2002, pp. 265-97. Cfr. anche M.

FUMAROLI, cit, p. 142, che usa la metafora dell’incontro fra anime di pari maturità, per rappresentare il modo anti-dogmatico con il quale Montaigne si rivolge ai lettori.

92 Cfr., ad esempio, «Posso aver buttato là qualche arguzia scrivendo. […]. L’ho perduta al punto di non sapere cosa ho voluto dire; e un estraneo l’ha talvolta scoperta prima di me», Saggi I 10, p. 65.

43 Dunque, come interpreti di Montaigne, abbandoniamo la speranza di trovare e di offrire la spiegazione esplicita della consapevolezza con cui egli ricorre allo stile allusivo, e ci limitiamo a decifrarla confrontando il passo in cui l’autore dei Saggi parla dello stile di Plutarco:

‹‹Io ho letto in Tito Livio cento cose che un altro non vi ha letto. Plutarco ve ne ha lette cento più di quelle che io ho saputo leggervi; e forse anche più di quelle che l’autore vi aveva messo. Per alcuni è un puro studio grammaticale; per altri l’anatomia della filosofia, nella quale si penetrano le parti più astruse della nostra natura. Vi sono in Plutarco molti ragionamenti ben approfonditi, degnissimi di essere conosciuti, perché, secondo me, egli è maestro in tale arte. Ma ve ne sono mille che ha soltanto sfiorato. Accenna appena col dito al cammino che seguiremo, se ci piacerà; e si contenta talvolta di far solo un’allusione nel più vivo d’un argomento. Bisogna toglierle di lì e metterle in bella vista.››93.

E il passo dove parla del proprio stile - e dove la citazione lucreziana già da sola sarebbe più che rappresentativa:

«Ora, io esprimo qui le mie inclinazioni e i miei sentimenti per quel tanto che la convenienza me lo permette. Ma lo faccio più liberamente e più volentieri a voce, a chiunque desideri esserne informato. Tant’è che, in queste memorie, si troverà che ho detto tutto, o indicato tutto. Quello che non posso scrivere lo accenno col dito: Ma per uno spirito

sagace questi scarsi indizi sono sufficienti per scoprire da solo tutto il resto»94.

E confidiamo, pertanto, nell’attenzione dei lettori diligenti, che si accorgeranno, senz’altro, della costante metaforica dell’accenno con un dito, e del fatto che, mediante essa, Montaigne si eguaglia niente meno che a colui che ha presentato come il massimo esponente dello stile allusivo:

93 Saggi I 26, p. 283.

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44 «ACCENNA APPENA COL DITO al cammino che seguiremo, se ci piacerà; e si contenta talvolta

di far solo un’allusione nel più vivo d’un argomento. Bisogna toglierle di lì e metterle in bella vista››.

«Tant’è che in queste memorie, si troverà che ho detto tutto, o indicato tutto. Quello che non posso scrivere lo ACCENNO COL DITO: Ma per uno spirito sagace questi scarsi indizi sono

sufficienti per scoprire da solo tutto il resto»95.

95 Sul rapporto tra Montaigne e Plutarco in merito alla scrittura allusiva, cfr. N. P

ANICHI, I vincoli del

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