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La concezione critica del sapere e l’esigenza di un discorso antidogmatico.

II. L’ ATTITUDINE SCETTICA : OSSERVAZIONE DI SÉ E INCOSTANZA DEL GIUDIZIO

III.2. La concezione critica del sapere e l’esigenza di un discorso antidogmatico.

All’inizio del capitolo ci siamo proposti di rintracciare le motivazioni dell’emprunt montaigniano nascoste da quanto dichiarato in modo superficiale. Di fronte al brano del capitolo Dei libri abbiamo poi individuato quattro dichiarazioni: due, per mezzo delle quali Montaigne imputa il ricorso alle parole altrui alle «insufficienze di senno e di linguaggio» e attribuisce le inesattezze compiute all’incapacità di trattenere informazioni e alla mancanza di erudizione; e due, per mezzo delle quali Montaigne rivendica il diritto all’introspezione e all’elaborazione personale dei fatti vissuti e degli argomenti letti. Abbiamo poi dimostrato come le due rivendicazioni generali reagiscono su quelle relative alle citazioni, facendo emergere pensieri impliciti che smentiscono la confessione di inferiorità e confermano il rifiuto di esibizionismo erudito.

Tuttavia, la spiegazione anti-erudita non risolve in modo definitivo la questione della citazione di Montaigne. Non dobbiamo, infatti, semplificare i rapporti che intercorrono fra superficie verbale e contenuti impliciti del discorso in una relazione di semplice contrapposizione segnalata dall’incoerenza fra dichiarazioni lontane nel testo sebbene riferite allo stesso argomento. Ma, al contrario, dobbiamo prestare attenzione ai casi dove la tattica di nascondimento è più complessa, e dove, ad esempio, la relazione di coerenza fra due pensieri espliciti dà così tanta rilevanza al contenuto comune, da dare l’illusione che questo esaurisca la portata semantica di entrambi.

Pensiamo, pertanto, di dover interpretare la coerenza fra l’uso anti-erudito delle citazioni e la polemica contro l’educazione pedantesca come un tattica di nascondimento, grazie alla quale Montaigne induce a valutare le imperfezioni filologico-storiografiche delle citazioni come una provocazione all’educazione pedantesca. E grazie alla quale, dirottando l’attenzione degli interpreti superficiali verso il piano della riflessione pedagogica, articola una più ampia e implicita riflessione gnoseologica e morale sulle possibilità e sull’uso della conoscenza da parte dell’uomo.

Che Montaigne non giudichi un problema l’erudizione in sé, lo si legge nelle sue stesse parole:

«Io amo e onoro il sapere quanto quelli che lo possiedono, e nel suo vero uso, è la più nobile e potente acquisizione degli uomini. Ma in coloro (e di questa specie ce n’è un numero infinito) che in esso fanno consistere il loro principale merito e valore, e che basano il

62 proprio ingegno sulla memoria, che si nascondono sotto l’ombra altrui, e non sono capaci di

nulla senza libri, io l’ho in odio, se oso dirlo, un po’ più della stoltezza»121 .

Montaigne riconosce un certo valore formativo all’insegnamento delle dottrine. Anzi, addirittura lo promuove, purché i precettori lo eseguano all’insegna di una concezione critica del sapere. Il problema, infatti, deriva dalle pretenziosità dogmatiche nutrite dagli educatori che esigono soltanto accettazione e memorizzazione delle grandi opinioni antiche. Montaigne, al contrario, auspica la trasmissione delle dottrine come opinioni relative formulate nel corso della storia, permettendo ai giovani di affrancarsi dalla soggezione cui sono portati dall’istituzionalizzazione di alcune di esse.

Pertanto, delinea un progetto di emancipazione dove l’uso delle citazioni ha una funzione importante:

«Che il precettore gli faccia passar tutto allo staccio e non gli metta in testa nulla con la sola autorità e sulla parola. I principi di Aristotele non siano i suoi principi più di quelli degli stoici e degli epicurei. Lo si metta davanti a questa varietà di giudizi: se può sceglierà, altrimenti rimarrà in dubbio. Soltanto i pazzi sono sicuri e risoluti. Che non men che saper

dubbiar mi aggrada»122.

Ancor più precisamente, dove l’uso di citazioni non identificate ha una funzione importante. Montaigne intende ridurre i detti autorevoli al rango epistemico di opinioni qualsiasi, e a questo scopo compone il discorso ricercando un particolare effetto plurivoco e dialogico. Anzitutto, riporta numerose citazioni per rappresentare le numerose opinioni esprimibili in merito ad un unico argomento, poi omette il nome degli autori citati per permettere al lettore di «passarli allo staccio» e di discuterli senza obblighi di accettazione acritica. Quindi, procura una dialogicità interna ai Saggi, che amplifica gli effetti antidogmatici dovuti alla plurivocità.

Grazie alle citazioni, infatti, Montaigne riproduce la voce di numerosi soggetti enunciativi, e rende visibile la discordanza reciproca che sussiste fra opinioni riferite ad uno stesso oggetto. Di più, omettendo le fonti delle citazioni, riproduce un dialogo ideale dove gli

121 Saggi III 8, p. 1721. Il corsivo è Seneca, Epistole 33. Cfr. anche Saggi I 25, p. 241. 122

63 opinanti hanno uguale dignità, e dove nessuno può esercitare prerogative di autorevolezza o di superiorità intellettuale sugli altri. Grazie all’anonimato, infatti, Montaigne livella tutti gli opinanti, e coinvolge il lettore a discutere le grandi opinioni antiche in qualità di

interlocutore e non come discepolo123.

Pensiamo possibile, pertanto, vedere nella scelta dell’emprunt il corrispettivo stilistico di una concezione del sapere e dell’uomo di carattere scettico.

Montaigne e Sesto, infatti, legittimano la filosofia a patto di finalizzarla alla lotta contro la presunzione di conoscere, ma al medesimo scopo predispongono due strategie opposte. Sesto attribuisce all’uomo la capacità di controbilanciare le opinioni e di desistere dalla ricerca della verità dopo aver constatato l’equivalenza delle opinioni, mentre Montaigne vede l’uomo incapace di resistere alla forza persuasiva delle opinioni, e costretto a oscillare fra una e l’altra senza posa. Partendo da una concezione antropologica opposta, il filosofo francese predispone una «disintossicazione» antidogmatica che non presuppone l’azione di una facoltà di giudizio stabile, e che porta l’attenzione dell’uomo su un campionario di idee disparate fra le quali egli stesso dichiara di non aver fatto che oscillare.

Consapevole della propria credulità, Montaigne non si esime - e con sé, nessun altro uomo - dal comprendere l’invalidità epistemica di ogni opinione contratta. Anzi, predispone i

Saggi alla discussione critica di ogni opinione esistente, e li presenta come l’esperienza

grazie alla quale il lettore possa disintossicarsi dalle idee invalse presso tutte le discipline - dalla cosmografia alla geografia, dalla storiografia alla medicina, fino alla filosofia.

Montaigne, quindi, permette all’uomo di contrarre opinioni purché si renda conto della contingenza e della relatività della propria prospettiva di valutazione, e presenta la propria esperienza al cospetto delle grandi opinioni antiche come possibile atteggiamento critico da tenere verso idee fortemente persuasive:

«Gli scritti degli antichi, dico i buoni scritti, ricchi e solidi, mi tentano e mi trasportano quasi dove vogliono: quello che ascolto mi sembra sempre il più forte; trovo che hanno ragione ciascuno a sua volta, sebbene si contraddicano. Questa facilità che hanno i buoni ingegni di rendere verosimile ciò che vogliono, sicché non vi è cosa tanto strana a cui non riescono a

123

Sulla nascita della concezione dialogica del discorso nel XVI secolo, cfr. E.KUSHNER, Le dialogue en

France au XVI siècle: quelques critères génologiques, «Canadian Review of Comparative Literature» V/2

(1978), pp. 141-53. Sulla complicazione della dialogicità interna ai Saggi per gli effetti di paradossalità e di accumulazione di opinioni disparate, cfr. E. LIMBRICK, Montaigne et le refus du discours philosophique

64 dare un colore sufficiente a ingannare un ingenuo come me, mostra evidentemente la

debolezza della loro dimostrazione»124.

Secondo Montaigne, la credibilità dei sistemi filosofici è smentita dal loro contraddirsi vicendevolmente. Anche se conosce l’intera tropologia agrippana consacrata a invalidare i procedimenti dimostrativi, il filosofo sembra dirci che la loro discordanza reciproca sia l’unica cosa che possa farci desistere dal credere alle opinioni antiche125

. Valutandole singolarmente, infatti, dichiara di non trovare fallacie nelle dimostrazioni dei grandi filosofi, o, per lo meno, pensa di non avere una ragione tanto sviluppata da poterle individuare. Ma anche qualora le individuasse, Montaigne non potrebbe contestarne la debolezza logica, perché, per farlo, dovrebbe porsi come giudice esente dai condizionamenti che alterano le facoltà cognitive di tutti gli uomini, e dovrebbe convalidare i propri criteri di giudizio mediante dimostrazione. Così facendo, però, cadrebbe nell’errore dogmatico del circolo vizioso - che è, peraltro, un altro dei tropi agrippani rintracciati negli Schizzi pirroniani126 - dovendo sottoporre a controllo critico la propria dimostrazione e non avendo altri criteri di giudizio se non quelli da essa appena dimostrati. Stando così le cose, perciò, rinuncia all’approccio dimostrativo e si incammina verso un altro percorso antidogmatico, ossia quello dell’esposizione del «bailamme di cervelli filosofici» e dell’esibizione della loro discordanza piuttosto che della loro equipollenza:

«Si vedono infiniti esempi simili, di argomenti non soltanto falsi, ma sciocchi, che non reggono, e accusano i loro autori non tanto d’ignoranza quanto di stoltezza, nelle critiche che i filosofi si fanno reciprocamente sui dissensi delle loro opinioni e delle loro sette. Chi affastellasse un sufficiente mucchio delle asinerie della saggezza umana, direbbe meraviglie. Io ne raccolgo volentieri una sorta di campionario, per qualche verso non meno utile a

124 Saggi II 12, p. 1049. 125

In HP I 164-177 Sesto ne fa il resoconto. Riguardo al tropo della discordanza, cfr. HP I 165, «Il modo che dipende dalla discordanza, è quello per cui troviamo che intorno a un a cosa proposta esiste una discordia indirimibile nella vita e nei filosofi; onde non essendo in grado di preferire né di respingere nessuna opinione, finiamo col sospendere il giudizio». Per una formulazione estesa dell’argomento della discordanza nei Saggi, cfr. Saggi II 12, p. 1033.

126 Saggi II 12, p. 1111. Riguardo al tropo del circolo vizioso - o diallele -, cfr. HP I 169, «Nasce il diallele, quando ciò che deve essere conferma della cosa cercata, ha bisogno, a sua volta, di essere confermato dalla cosa cercata: allora, non potendo assumere nessuno dei due per concludere l’altro, sospendiamo il giudizio intorno ad ambedue».

65 considerarsi delle opinioni sane e moderate. Giudichiamo di qui quale stima dobbiamo fare

dell’uomo, del suo senno, e della sua ragione, se in questi grandi personaggi, che hanno portato così in alto le capacità umane, si trovano difetti tanto evidenti e tanto grossolani. […]. Con questa varietà e instabilità d’opinioni ci conducono come per mano, tacitamente, a questa soluzione della loro irresoluzione»127.

Pur rielaborandolo alla luce della nuova concezione dell’incostanza del giudizio, Montaigne manifesta un orientamento scettico. Difatti, «lo Scetticismo esplica il suo valore nel contrapporre i fenomeni e le percezioni intellettive in qualsivoglia maniera»128; che poi il filosofo francese non constati l’equivalenza delle opinioni che contrappone e non sospenda il giudizio, non inficia la sua concezione critica del sapere, e dipende da una concezione antropologica che, addirittura, radicalizza la sfiducia verso le capacità critiche dell’uomo129

.

Montaigne dice di evitare il «corpo a corpo»130 con gli autori antichi. Tuttavia si confronta con loro in modo indiretto, e, attuando ciò che Metschies chiama «gioco contro-citazionale multipolare», il filosofo confronta le citazioni non secondo lo schematismo bipolare della contrapposizione di due opinioni contrarie - com’è quello dello scetticismo primitivo -, ma secondo una rete di contrapposizioni, dove ogni opinione è considerata per la molteplicità dei suoi aspetti, e aperta, quindi, ad una pluralità di relazioni con un numero indefinito di altre opinioni131.

Pertanto, anche se Montaigne dice di evitare tale corpo a corpo per tutelarsi dagli effetti di disparità letteraria che ne scaturirebbero, pensiamo, in realtà, che egli voglia evitare di formulare un’opinione definita in modo univoco dal suo rapporto di contrapposizione con l’opinione contestata.

E benché ammettiamo che, rifiutando di contrapporsi alle opinioni altrui, Montaigne rinunci al diritto di esprimersi contrapponendo discorsi ai giudizi dogmatici, possiamo comunque affermare che, accumulando opinioni disparate e rivelando la loro natura

127 Saggi II 12, p. 997. Per l’espressione «bailamme di cervelli filosofici», cfr. Saggi II 12, p. 937. 128 HP I 8.

129

Per un’assimilazione dello stile discorsivo di Montaigne a quello critico e oppositivo degli scettici antichi, cfr. G.DEFAUX, Montaigne chez les sceptiques: essai de mise au point, «French Forum», XXIII/2 (1998),

pp. 159 e sgg. 130 Saggi I 26, p. 265. 131 M.M

ETSCHIES, La citation et l’art de citer, cit.., p. 111 e sg. Per la moltiplicazione dei rapporti delle citazioni con tematiche disparate, grazie alla portata polisemica di ogni parola riportata, cfr. A.TOURNON, La

66 prospettica, riesca ad adempiere all’impegno antidogmatico; e che, disperdendo la propria fra le voci altrui e non pronunciandosi in modo definitivo su nessuna di esse, riesca ad esprimersi in modo non assertivo e a dissuadere il lettore dal cercare soluzione univoca ai problemi sollevati.

Pertanto, pensiamo che Montaigne si sia sbarazzato intenzionalmente della pratica oppositiva delle opinioni, e che abbia reinterpretato il proprio ruolo di soggetto enunciativo per produrre un tipo di discorso distante sia dalla formulazione dei giudizi di verità che dalla contrapposizione di opinioni uguali e contrarie.

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