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Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze. 1996, Anno 55, marzo, n.1

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MARZO 1996 Pubblicazione trimestrale Anno LV - N. 1

Speri, in A .P . comma 26 / ari. 2 legge 549/95 • Aut. Filiale Varese

RIVISTA DI DIRITTO FINANZIARIO

E S C I E N Z A D E L L E F I N A N Z E

Fondata da BENVENUTO GRIZIOTTI

(e

RIVISTA ITALIANA DI DIRITTO FINANZIARIO)

D I R E Z I O N E

EMILIO GERELLI - GIULIO TREMONTI

COMITATO SCIENTIFICO

ENRICO DE MITA - ANDREA FEDELE - FRANCESCO FORTE AMEDEO FOSSATI - FRANCO GALLO - SALVATORE LA ROSA IGNAZIO MANZONI - GIANNINO PARRAVICINI - ANTONIO PEDONE

SERGIO STEVE

COMITATO DIRETTIVO

ROBERTO ARTONI - FILIPPO CAVAZZUTI - AUGUSTO FANTOZZI G. FRANCO GAFFURI - DINO PIERO GIARDA - EZIO LANCELLOTTI ITALO MAGNANI - G ILBERTO MURARO - LEONARDO PERRONE E N R IC O P O T IT O - P A S Q U A L E RUSSO - G IU L IA N O T A B E T

FRANCESCO TESAURO - ROLANDO VALI ANI

N.ro INVENTARIO

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territoriale dell’ Università, della Cam era di Commercio di Pavia e delPIstituto di diritto pubblico della Facoltà di Giurisprudenza dell’ Università di Roma.

Direzione e Redazione: Dipartimento di Economia pubblica e territoriale del­ l’ Università,Strada Nuova 65, 27100 Pavia; tei. 0382/504.406, (Fax) 504.402. A d essa debbono essere inviati bozze corrette, cambi, libri per recensione in duplice copia.

R edattori: Silvia Cipollina, Angela Fraschini, Giuseppe Ghessi. Segretaria di Reda­ zione: Claudia Banchieri.

L ’ Amministrazione è presso la casa editrice Dott. A . GIUFFRÈ EDITORE S .p .A .,

via Busto Arsizio, 4 0 - 2 0 1 5 1 Milano - tei. 3 8 .0 8 9 .2 0 0 - fax 3 8 0 0 9 5 8 2 Pubblicità:

dott. A. Giuffrè Editore S.p.a. - Servizio Pubbbcità

via Busto Arsizio, 4 0 - 2 0 1 5 1 Milano - tei. 3 8 .0 8 9 .3 2 4 - fax 3 8 0 8 9 4 2 6

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Registrazione presso il Tribunale di Milano al n. 104 del 15 marzo 1966 Iscrizione Registro nazionale stampa (legge n. 416 del 5.8.81 art. 11)

n. 00023 voi. I foglio 177 del 2.7.1982 Direttore responsabile: Emilio Gerelli

Rivista associata all’ Unione della Stampa Periodica Italiana

Pubblicità inferiore al 45%

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N.ro INVENTARIO

INDICE-SOMMARIO

P A R T E P R I M A

Ce s a r e Dosi - Gii.heuto Mu r a r o - Finanza municipale e fiscalità immobiliare: ipotesi di riforma... 8

Isa b e ll a Pik r a x t o n i -1 soggetti e l'oggetto delle decisioni ambientali: u n ’analisi della domanda di ambiente in condizioni di incertezza ... 53

Giu se ppe Pizzo n ia - Sulla qualificazione fiscale degli enti pubblici conferenti nel­ la c.d. legge Amato ... 97

Gia n c a r lo Zoppim i - Credito d’imposta, rimborso in titoli di Stato e tutela giuri­ sdizionale del contribuente ... 126

RECENSIONI

Fa iìx e t t G. - Introduzione all’economia dell’azienda pubblica (G. Ladu) ... 151

N U O V I L IB R I ... 153

RASSEGNA D I P U B B L IC A Z IO N I R ECEN T I ... 156

P A R T E S E C O N D A

Ma r ia Ce c ilia Fr k g n i- Il « fin e di conseguire un indebito rimborso » nel reato di frode fiscale commesso mediante occultamento o distruzione delle scritture con­

tabili ... 5

Francesco Te s a t ic i - La tassazione dei proventi di reato e gli enunciati del legi­ slatore-interprete ... 16

SE N T E N ZE A N N O T A T E

Iva - Reati tributari - Occultamento di scritture contabili obbligatorie al fine di richiedere un rimborso - Mancata presentazione di garanzia (cauzione fi­ deiussione) - Irrilevanza - Frode fiscale ex art. 4, 1 comma, n. 2, D.I.. n. 429 del 1982 (Cass., Sez. III pen., 13 marzo 1995, n. 2121) (con nota di

M .C. Fr k g n i) ... 3

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RISPARMIO

RIVISTA DELL’ASSOCIAZIONE FRA LE CASSE DI RISPARMIO ITALIANE

bimestrale

Il periodico si affianca alle pubblicazioni più impegnate nell’opera di illustrazione dei molteplici fenomeni eco­ nomici che si ricollegano, da un lato, al processo di for­ mazione e di investimento del risparmio, dall’altro lato, alla struttura e al funzionamento degli intermediari e dei mercati finanziari.

Il rigore scientifico, l’attualità degli argomenti, la chia­ rezza espositiva caratterizzano costantemente i conte­ nuti e fanno della rivista uno strumento validissimo di aggiornam ento e di approfon dim ento culturale per quanti svolgono la propria attività di studiosi e di ope­ ratori nel vasto campo dell’economia e della finanza.

Direttore Mario Talamona Abbonam ento annuo: L. 150.000

(estero L. 225.000)

A richiesta e senza impegno si inviano fascicoli in saggio

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Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze, LV, 1. I, 3-S2 (1996)

FINANZA MUNICIPALE E FISCALITÀ IMMOBILIARE: IPOTESI DI RIFORM A (*)

di Ce s a r e Do si e Gil b e r t o M u r a r o

Dipartimento di Scienze economiche - Università degli studi di Padova

So m m a r io: 1. Introduzione. — 2. Il problema del livello e della composizione delle en­ trate locali. — 8. Implicazioni finanziarie del principio della sussidiarietà e crite­ ri generali per una riforma della fiscalità municipale. - 8.1. L ’autonomia tributa­ ria locale. - 8.2. La perequazione statale e regionale. - 3.3. Principi generali e cri­ teri tecnici per una riforma della fiscalità locale. - 3.4. Fiscalità comunale, tribu­ ti immobiliari ed individuazione dei soggetti passivi. — 4. Schema di riforma dell’imposizione comunale sugli immobili. - 4.1. L ’attuale assetto della fiscalità immobiliare. - 4.2. Finanza comunale: il quadro quantitativo di riferimento. - 4.3. Il Tributo locale sugli immobili (Tli). - 4.4. Qualificazioni e varianti del Tli. — 5. Il nuovo assetto della finanza comunale tra tributi autonomi e trasferi­ menti. - 5.1. I trasferimenti statali. - 5.2. La perequazione regionale. — 6. Pro­ poste per la transizione. - 6.1. Le difficoltà oggettive e soggettive del cambia­ mento. - 6.2. Benefici e costi del gradualismo. - 6.3. Modalità di un’eventuale so­ luzione transitoria. — 7. Conclusioni. — Riferimenti bibliografici.

1. Introduzione.

L ’analisi seguente rappresenta l’elaborazione tecnica di un’ipotesi politica assunta esogenamente che prevede:

• il principio politico della sussidiarietà come base politica del fe­ deralismo fiscale e il connesso aumento dell’autonomia finanziaria de­ gli Enti locali;

• l’invarianza iniziale delle entrate complessive locali e, quindi, la compensazione tra maggior prelievo tributario locale e minori trasferi­ menti statali;

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compensazione tra l’aumento di pressione locale e la diminuzione di pressione erariale;

• la sottrazione alla base imponibile dell’Irpef dei redditi immobi­ liari figurativi;

• la rinuncia da parte dello Stato alle imposte, diverse dall’Iva, sui trasferimenti immobiliari sia a titolo oneroso che gratuito.

L ’analisi, che assume il vincolo esogeno di un quadro di compe­ tenze per i diversi livelli-di governo che rimanga sostanzialmente im­ mutato, non affronta i problemi di equità e di efficienza connessi con tali presupposti politici e si concentra invece nella ricerca delle più ap­ propriate modalità tecniche di una nuova fiscalità immobiliare comu­ nale che si ispiri agli anzidetti presupposti.

Viene anche delineato, seppur in prima approssimazione, un nuo­ vo assetto globale della finanza municipale in cui la diminuzione del peso relativo dei trasferimenti statali si accompagna ad un diverso criterio di loro ripartizione tra Comuni e in cui viene proposto di inse­ rire un nuovo intervento perequativo regionale, autonomo ed integra­ tivo rispetto a quello statale.

La nota è articolata nel modo seguente. Nel paragrafo 2 vengono ricordate le difficoltà di pervenire ad una corretta determinazione del fabbisogno finanziario locale nell’ambito di un sistema, quale quello italiano, di finanza derivata, sistema del quale vengono sommaria­ mente richiamate l’evoluzione e le attuali caratteristiche. Nel paragra­ fo 3 vengono esposti i criteri generali cui si ispira la presente ipotesi di riforma. Nei paragrafi 4 e 5 viene presentato lo schema di riforma del­ l’imposizione comunale sugli immobili e il nuovo assetto della finanza municipale tra tributi autonomi e trasferimenti. Nel paragrafo 6, do­ po aver richiamato le difficoltà oggettive e soggettive che potrebbe in­ contrare un’immediata attuazione della riforma prospettata, vengono esaminati i pro e i contro di un cambiamento graduale e le modalità di un’eventuale soluzione transitoria. Nel paragrafo 7 vengono sinte­ tizzati i principali contenuti della riforma proposta.

2. Il problema del livello e della composizione delle entrate locali.

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la-5 —

to del bilancio, perché il livello ottimale delle entrate è evidentemente quello adatto a finanziare il livello ottimale di spesa pubblica locale. Il problema, in questa apodittica enunciazione, è che in un sistema di finanza derivata non esiste un modo sicuro di identificare il livello di spesa ottimale.

E noto che la spesa locale pro-capite è tipicamente correlata posi­ tivamente al reddito medio individuale, mentre, per quanto riguarda la dimensione demografica, la spesa esibisce in generale un andamen­ to parabolico: in una prima fase si osserva infatti una diminuzione fi­ no ad un certo livello di popolazione spiegata dalle economie di scala; ad essa segue un aumento continuo, dovuto non tanto al generarsi di diseconomie di scala nella fornitura dei singoli servizi — che general­ mente continuano ad esibire costi medi decrescenti — quanto al cre­ scere, nelle comunità più ampie, della gamma dei bisogni da soddisfa­ re mediante l’offerta di servizi collettivi. L ’espansione della spesa nel­ le comunità più ampie è peraltro da ricollegarsi anche alle cosiddette funzioni urbane centrali: i centri maggiori forniscono infatti numerosi beni e servizi collettivi di cui beneficiano anche le aree circostanti, sol­ levando così i Comuni più piccoli dalla necessità di effettuare spese in questi settori.

Nel tentativo di identificare l’esatta posizione dell’anzidetta cur­ va e, quindi, il livello ottimale di spesa locale pro-capite in funzione della popolazione, la letteratura propone spesso analisi basate sui comportamenti storici degli enti o analisi sezionali che confrontano la spesa che enti di diversa dimensione esibiscono nello stesso momento storico. Per quanto accurate nei dati e sofisticate nelle elaborazioni, queste analisi sono tuttavia viziate dal fatto che, in una situazione di non piena autonomia finanziaria, la spesa osservata risente delle en­ trate disponibili, le quali sono pesantemente vincolate dalla legislazio­ ne e dagli stessi comportamenti tattici delle Amministrazioni locali nei confronti del Governo centrale: in altri termini, si entra in un pro­ cesso circolare in cui si cerca di desumere le entrate ottimali attraver­ so l’esame della spesa effettiva la quale è però il riflesso di entrate di fatto determinate esogenamente e, quindi, inidonee a rivelare il livello di equilibrio tra bisogni collettivi e willingness to pay della comunità locale per il loro soddisfacimento.

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assetti della finanza locale e, quindi, sulla diversa gravità dei proble­ mi perequativi che da tali assetti potrebbero derivare.

Quanto appena esposto a proposito della difficoltà di identifica­ zione del livello ottimale del finanziamento vale sicuramente per l’Ita­ lia, in cui l’assenza di autonomia finanziaria ha sin qui impedito di ot­ tenere corretti segnali dal comportamento degli enti locali.

Conviene a questo proposito ripercorrere per sommi capi la recen­ te storia della finanza locale italiana.

E noto che la scelta'strategica operata dal legislatore con la rifor­

ma del 1973-74 ha prodotto una drastica riduzione dell’autonomia im­

positiva ed una correlata crescita delle responsabilità del centro nel fi­ nanziamento della periferia tramite trasferimenti. In sintesi, il dise­ gno politico di fondo uscito da tale riforma configurava un’autonomia locale intesa essenzialmente come autonomia nella composizione della spesa, mentre attribuiva allo Stato il dovere/potere di identificare, e realizzare mediante appropriati trasferimenti, il livello desiderato del­ la spesa complessiva di ciascuna giurisdizione.

Si sa che questa impostazione di fondo non ha nemmeno goduto di un serio tentativo di applicazione, in quanto i fattori inerziali, lega­ ti all’incapacità politica e tecnica di gestire il cambiamento, hanno pe­ santemente influito sulla dinamica concreta dei trasferimenti ed han­ no mantenuto un peso rilevante alla spesa storica come criterio di as­ segnazione dei fondi.

Un ulteriore elemento deviante è emerso nel corso degli anni ‘80 sotto forma di neo-centralismo. Attraverso i cospicui finanziamenti del Fondo Investimenti e Occupazione e attraverso numerose leggi spe­ ciali riguardanti tipi particolari di opere pubbliche — tribunali, im­ pianti sportivi, parcheggi, ecc. — si sono di fatto posti forti vincoli al­ l’autonomia locale anche dal lato della composizione della spesa, con­ dizionando le scelte degli enti che spesso hanno sovvertito gli ordini veri di priorità nella graduatoria dei propri investimenti per inseguire i fondi speciali erogati dal centro.

Ma l’elemento probabilmente più patologico manifestatosi nel ventennio trascorso è rappresentato dalla mancata credibilità del vinco­

lo complessivo di bilancio posto dallo Stato agli enti locali. Nella prima

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alle tentazioni locali di accumulare deficit, ma i risultati di questo tentativo sono stati sicuramente insufficienti.

Va sottolineato che la credibilità del vincolo di bilancio è elemen­ to indispensabile per la tenuta di un sistema di finanza locale essen­ zialmente basato su trasferimenti erariali. A livello decentrato, infatti, tale sistema è privo di meccanismi di autoregolazione, in quanto l’o­ nere della spesa non è percepito dai cittadini del Comune, che sono sì contribuenti, ma dello Stato e non del Comune stesso. Conseguente­ mente, le richieste individuali, le spinte dei gruppi di pressione locali, la logica delle promesse elettorali nella competizione tra candidati alla

leadership locale, tutto confluisce in un forte impulso alla crescita del­

la spesa e, quindi, al mancato rispetto del vincolo esogeno di bilancio: in definitiva, il sindaco « più bravo » è quello che attraverso una mag­ giore propensione al rischio, più efficaci relazioni politiche con il cen­ tro, maggiore capacità di pressione attraverso la drammatizzazione nazionale dei problemi locali, spende di più e riesce ad ottenere ex post il risanamento del deficit creato.

E chiaro a questo punto che il modello della finanza derivata non è intrinsecamente destinato al collasso, nonostante generi la spinta di­ rompente di base appena illustrata. Tuttavia, in tanto può resistere in quanto vi sia un potere centrale capace di rendere assolutamente cre­ dibili i vincoli di spesa globale che esso pone ai livelli di governo infe­ riori.

In estrema sintesi, il modello di rapporti finanziari tra centro e periferia emerso dall'approccio illuministico e catartico della riforma del 1973-74 presupponeva una credibilità del potere centrale che non si è manifestata, condannando così ad una lenta consunzione il model­ lo stesso. Il processo di degrado iniziò già nei primi anni post-riforma, ossia gli anni della grande inflazione, durante i quali il mancato ade­ guamento dei trasferimenti alla dinamica dei prezzi mise in crisi an­ che le amministrazioni più attente agli equilibri finanziari, finendo col legittimare una politica di deficit-spending che aprì una breccia nel si­ stema: breccia drammaticamente allargata dalle numerose ammini­ strazioni insensibili a tali equilibri.

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Già a partire dal 1998 si registra una riduzione della dipendenza degli enti locali da fonti di finanziamento esterne. I trasferimenti sta­ tali si riducono, passando dai 48.297 miliardi del 1991 a 35.497 miliar­ di nel 1993 (1), con una flessione più marcata per i trasferimenti in c/capitale ( - 25%, rispetto ad una riduzione del 17% dei trasferimenti correnti); nel contempo aumentano le entrate proprie, sia quelle tarif­ farie (+ 21,5%) sia, soprattutto, quelle tributarie (+ 63,3%): un feno­ meno che riguarda sia i Comuni che le Provincie, anche se appare si­ curamente più mareato-per i primi (2).

Per quanto concerne in particolare i trasferimenti erariali, a par­ tire dal 1993 si è attivato un nuovo assetto generale dei fondi per gli enti locali, che ha trovato applicazione nel 1994. In particolare, per il fondo principale, ossia il Fondo ordinario (3.671 miliardi alle Provincie e 13.494 ai Comuni) (3), è stato delineato un processo di transizione che nell’arco di sedici anni dovrebbe portare a distribuire l’80% del Fondo stesso non più in base al criterio della spesa storica, bensì a quello di parametri-obiettivi, basati sulla popolazione, le caratteristiche territoriali e le condizioni socio-economiche di ciascun ente. Al Fondo Ordinario si affiancano comunque altri fondi, ossia il Fondo consolida­

to (419 miliardi alle Provincie e 3.626 ai Comuni), il Fondo perequativo degli squilibri della fiscalità locale (130 miliardi alle Provincie e 742 ai

Comuni), il Fondo nazionale ordinario per gli investimenti (11.751 mi­ liardi) e il Fondo speciale per gli investimenti (50 miliardi).

In questo nuovo contesto non si tratta più di operare rivoluzioni profonde, poiché appaiono sostanzialmente condivisibili le scelte stra­ tegiche di allargare l’autonomia finanziaria e di collegare almeno una quota dei trasferimenti erariali ad indicatori « oggettivi » del fabbiso­ gno di beni e servizi collettivi delle comunità locali.

Ma i problemi rimangono comunque rilevanti e si possono così sintetizzare:

• quanto e come aumentare la sfera dell’autonomia impositiva, considerando che il maggior gettito auspicato per i tributi locali deve accompagnarsi ad una maggiore autonomia decisionale per quanto ri­ guarda l’identificazione dei soggetti passivi e dell’imponibile, oltre che la determinazione delle aliquote?

(1) Dati di cassa, al netto delle erogazioni della Cassa Depositi e Prestiti. Si ri­ ducono, peraltro, anche le erogazioni della Cassa Depositi e Prestiti, che passano da 6.003 a 4.360 miliardi.

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• quanto e come ampliare la quota sul totale dei trasferimenti erariali che è ripartita in base agli anzidetti indicatori di fabbisogno?

• come attuare le anzidette innovazioni in modo coerente con le esigenze di riforma complessiva del sistema fiscale italiano, all’insegna del principio di sussidiarietà e della semplificazione del rapporto tribu­

tario a tutti i livelli di governo?

Su questi aspetti si presenteranno alcune prospettive di riforma ai successivi paragrafi 4 e 5. È superfluo dire che vi sono molte diffi­ coltà oggettive e resistenze soggettive al cambiamento delle quali bi­ sognerà in una qualche misura tener conto attraverso soluzioni transi­ torie nei cui riguardi si avanzeranno alcune proposte nel paragrafo 6. 3. Implicazioni finanziarie del principio della sussidiarietà e criteri

generali per una riforma della fiscalità municipale.

3.1. L ’autonomia tributaria locale.

Come anticipato, la presente analisi assume il principio politico della sussidiarietà come base politica del federalismo fiscale. Tale principio implica che nel determinare le competenze, le connesse spese e le necessarie entrate, si vada « dal basso all’alto » e non viceversa. Sotto il profilo che interessa questo lavoro, l’assunzione del principio della sussidiarietà impone la realizzazione di un’ampia autonomia tri­

butaria degli enti locali, oltre che la loro facoltà di ricorrere al debito.

L ’autonomia tributaria non implica evidentemente libertà asso­ luta nella definizione di soggetti passivi, imponibili e aliquote, poiché deve essere comunque assicurata coerenza nell’ambito del sistema tri­ butario complessivo: in altre parole, la tipologia dei tributi locali do­ vrà comunque essere predeterminata. Ma accanto a questo criterio di coerenza che tenderebbe a produrre uniformità, opera quello del ri­ spetto delle preferenze locali che potrà condurre a differenze, anche si­ gnificative, nel livello delle entrate, e, quindi delle aliquote, nonché, sia pure in misura minore, nella stessa definizione delle basi imponi­ bili.

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miti, lo stesso presupposto dell’imposta e, quindi, i soggetti passivi del rapporto tributario.

Richiamandosi al modello di competizione inter-giurisdizionale di Tiebout, si può infatti configurare, in astratto, uno scenario di federa­ lismo fiscale in cui ogni giurisdizione offra ai potenziali residenti una certa combinazione di servizi e di tributi: in tale contesto il cittadino « vota con i piedi », insediandosi nella comunità che offre il mix prefe­ rito. In una situazione di elevata mobilità e in assenza di effetti di traboccamento dei servizi e dei tributi locali, una simile organizzazio­ ne degli enti consentirebbe, come è noto, di massimizzare il benessere collettivo, nel senso che ciascuno, in base al proprio reddito e ai propri gusti, si trasferirebbe nella giurisdizione a lui più congeniale.

Rispetto al modello teorico prefigurato da Tiebout, alcuni fattori operano, tuttavia, nel senso di attenuare, anche in un modo di auto­ nomie locali, le differenze tra giurisdizioni.

In primo luogo vi sono rigidità negli spostamenti che impedisco­ no la creazione di un universo di enti specializzati, ognuno con popo­ lazione omogenea e ben differenziata rispetto agli altri enti: ogni co­ munità si trova di fatto ad avere una popolazione abbastanza eteroge­ nea per reddito e gusti e ciò tende inevitabilmente a ridurre le diffe­ renze che si genererebbero nell’ anzidetto scenario con perfetta mobili­ tà.

In secondo luogo vi sono economie di scala ed effetti esterni dei servizi locali che inducono gli enti a realizzare accordi e che pure ope­ rano, generalmente, nel senso di attenuare le differenze tra giurisdi­ zioni.

Vi sono infine forme di concorrenza fiscale, specie per la parte di servizi e di tributi che riguardano più da vicino il comparto produtti­ vo, poiché ogni ente cerca di attrarre sul proprio territorio il maggior numero possibile di attività economiche. E così come la concorrenza sul mercato privato tende a portare ad un prezzo unico, anche la com­ petizione tra giurisdizioni locali tende a ravvieinai'e le condizioni di offerta, ossia il livello dei servizi e il livello di pressione fiscale.

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attenua-to, ma non annullaattenua-to, da interventi perequativi suggeriti dal principio della solidarietà nazionale.

3.2. La perequazione statale e regionale.

Il federalismo fiscale non elimina la necessità di perequazione, anche se, come abbiamo appena sottolineato, le differenze nei livelli e nella composizione della spesa pubblica locale sono inevitabilmente destinate ad aumentare in un ambito federalista con ampia autono­ mia tributaria degli enti locali.

In realtà bisogna distinguere tra le differenze che nascono da scelte volontarie tra consumi pubblici e consumi privati e tra diverse combinazioni di consumi pubblici, è differenze che invece derivano da oggettive diversità nei bisogni sociali e nella capacità di soddisfarli mediante risorse proprie.

Un Paese che mantenga elevato il concetto di solidarietà o che comunque ritenga funzionale al proprio sviluppo la riduzione degli squilibri territoriali, dovrà comunque prevedere interventi perequati­ vi. A seconda delle preferenze collettive, tali interventi potranno ten­ dere o ad assicurare in ogni parte del Paese un livello minimo pro-ca- pite di servizi essenziali, oppure una riduzione progressiva delle diffe­ renze tra le diverse giurisdizioni.

Sul fronte fiscale, l’azione perequati va, qualunque sia l’obiettivo, presuppone che le classi e le aree più ricche del Paese versino a quelle più disagiate. Sin qui la redistribuzione è avvenuta principalmente attraverso l’imposta progressiva e la spesa sociale per quanto riguarda le classi, e attraverso i trasferimenti statali per quanto riguarda le aree.

Per quanto concerne la redistribuzione territoriale, in un ambito federalista appare tuttavia opportuno, in base al più volte citato prin­ cipio di sussidiarietà, prevedere, accanto ad una perequazione di base effettuata a livello nazionale mediante trasferimenti diretti dallo Sta­ to ai Comuni, anche un’azione perequativa a livello infra-regionale, da effettuarsi a cura della Regione (4).

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Le tesi così enunciate in termini di perequazione meritano co­ munque un approfondimento. In tema di prequazione, infatti, sono proponibili e sono state proposte tesi diverse, nessuna delle quali ap­ pare priva di qualche elemento di fondatezza e tra le quali occorre dunque scegliere attraverso valutazioni politiche e tecniche che vanno debitamente esplicitate.

La tesi qui esposta parte dal postulato politico di una solidarietà nazionale che impone di assicurare a tutti i cittadini il soddisfacimen­ to di bisogni che, in una. determinata situazione storica e, quindi, in un particolare contesto di valori culturali e risorse diponibili, vengono ritenuti « essenziali » (con la consapevolezza, quindi, che, pur rima­ nendo un riferimento valido in un certo momento e in una certa co­ munità, « l’essenziale » è in realtà un concetto relativo nel tempo e nello spazio).

Se risultasse politicamente e tecnicamente preferibile un sistema tributario in cui gran parte del prelievo venisse effettuato a livello lo­ cale, l’anzidetto postulato politico della solidarietà nazionale sarebbe realizzato essenzialmente attraverso una perequazione orizzontale tra enti locali. Ma è ben noto che vari motivi — attinenti alle finalità del­ lo Stato, alla distribuzione territoriale delle basi imponibili, ai costi di gestione del sistema fiscale — conducono di norma, anche in società politicamente orientate al principio della sussidiarietà, ad attribuire al centro la maggior parte del prelievo, quella cioè che deriva da gran parte dell’imposizione sul reddito, sugli affari e sui consumi.

In tale contesto, la copertura complessiva dei bisogni essenziali a livello locale implica il concorso finanziario dello Stato nella misura in cui un « ragionevole » sforzo fiscale locale, in relazione alle basi impo­ nibili lasciate agli stessi enti locali, risulti incapace di saturare l’anzi- detto fabbisogno.

Conviene meglio giustificare e precisare questa impostazione in quanto essa gioca un ruolo rilevante nella presente proposta di rifor­ ma.

Si immagini una moderna società in cui, per semplificazione espositiva, esistano solo due livelli di governo, uno centrale ed uno lo­ cale. Il modello interpretativo e normativo che viene proposto può es­ sere schematizzato nel modo seguente:

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anche il gettito ottenibile a livello locale con un ragionevole sforzo fiscale;

• ragioni prioritarie di ordine politico e tecnico portano a concen­ trare a livello centrale i grandi tributi sul reddito e di buona parte di quelli sugli affari e sui consumi, cosicché il prelievo erariale supera il fabbisogno di spesa per i servizi pubblici nazionali e implica quindi un flusso redistributivo di risorse dal centro alla periferia (e non solo e non tanto per la copertura dei servizi di competenza statale delegati, ma anche e soprattutto per la copertura di servizi locali in senso stret­ to);

• la redistribuzione dal centro alla periferia, ignorando tutte le inerzie giuridiche, politiche e tecniche esistenti nella realtà, dovrebbe essere concepita quale elemento destinato a coprire la differenza tra due misure ideali: la quantità di risorse necessarie ad assicurare la co­ pertura finanziaria dei bisogni e il prelievo tributario ottenibile a li­ vello locale con un ragionevole sforzo fiscale;

• così giustificati, i trasferimenti, anche a livello pro-capite, risul­ teranno inevitabilmente diversificati tra Comuni, in relazione sia agli indicatori politicamente accettati di fabbisogno sia a quelli di sforzo fiscale.

Calato nella concreta realtà italiana, il suddetto schema teorico dovrà fare i conti sia con la situazione di partenza dei trasferimenti e dei prelievi locali che non è in armonia con lo schema prefigurato, sia con l’inevitabile difficoltà di identificare, a livello centrale, appropria­ te misure dei bisogni « essenziali » locali.

Rispetto all’anzidetto schema, l’introduzione di un livello inter­ medio di governo, quale la Regione, può portare, in astratto, a modi­ ficare significativamente l’impostazione proposta, sino a concepire la possibilità di mantenere a livello intermedio i grandi tributi, preve­ dendo trasferimenti verso il Governo centrale e verso i Comuni, senza più dunque trasferimenti diretti dallo Stato ai Comuni.

In questa sede, in linea con il modello prevalente nella realtà eu­ ropea, si sceglie tuttavia di ragionare nell’ambito di un modello che, pur attenuando il centralismo fiscale, mantiene i dati essenziali del- l’anzidetto schema bi-polare, e quindi continua a prevedere un flusso di trasferimenti statali ai Comuni.

Tuttavia, come anticipato, l’inserimento nello schema teorico dell’ente intermedio e l’ adesione al principio di sussidiarietà, portano comunque a concepire un secondo flusso di trasferimenti su base re­

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gionale. Questo secondo flusso, aggiuntivo e autonomo rispetto a quello nazionale, appare giustificato dal fatto che il livello dei bisogni « essenziali » tende a crescere con il reddito pro-eapite e risulta quindi mediamente più elevato nei Comuni appartenenti alle Regioni più ric­ che.

Teoria ed esperienza empirica dimostrano che tale fenomeno è si- . stematico e fisiologico e potrebbe quindi astrattamente essere recepi­

to, quantificato e attuato in sede di valutazione centrale dei fabbiso­ gni locali e, quindi, nelhambito della stessa redistribuzione attuata dallo Stato. In pratica, tuttavia, la difficoltà politica di redistribuire verso le aree più ricche fondi raccolti centralmente e la difficoltà in­ formativa di attuare centralmente un’adeguata differenziazione, su base regionale, dei bisogni locali « essenziali », consigliano di affidare ad ogni singola Regione il compito di decidere se e a che livello realiz­ zare questa ulteriore azione, perequativa infra-regionale.

Ma come alimentare il fondo perequativo regionale? Di nuovo è possibile astrattamente ipotizzare che esso si basi esclusivamente su risorse originarie delle Regioni (e sotto questo profilo non rileva la dif­ ferenza tra entrate proprie o derivate) o che sia alimentato invece, in tutto o in parte, dal versamento alla Regione di una porzione dei tri­ buti locali.

Qui si opta per questa seconda soluzione, principalmente a causa delle significative differenze territoriali osservabili, anche a livello in- fraregionale, nelle basi imponibili dei tributi che, per i motivi che sa­ ranno più oltre illustrati, si ritiene opportuno affidare ai Comuni. Il versamento di una porzione dei tributi comunali appare peraltro coe­ rente anche con l’esigenza di attenuare alcune forme di « esportazione fiscale ».

I versamenti realisticamente ottenibili per questa via, tenuto conto anche dell’esigenza prioritaria di salvaguardare l’autonomia fi­ nanziaria comunale e, quindi, di contenere comunque l’ammontare dei versamenti, potrebbero risultare insufficienti a finanziare comple­ tamente l’anzidetta azione perequativa regionale. Vale allora la pena di notare, incidentalmente, che l’onere residuo di tale azione perequa­ tiva rafforza la giustificazione della partecipazione della Regione al gettito delle imposte erariali sul reddito che, come è noto, rappresen­ tano il classico strumento di prelievo a scopi perequativi.

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finaliz-— 15 finaliz-—

zato a ridurre il divario tra il « normale » prelievo tributario locale e il fabbisogno locale definito sulla base di standard nazionali. Al tradizio­ nale intervento statale si suggerisce tuttavia di aggiungere un’ulterio­ re azione perequativa guidata da standard regionali di fabbisogno lo­ cale, finanziata, in parte, attaverso una limitata compartecipazione ai tributi comunali.

3 .3 . Principi generali e criteri tecnici per una riforma della fiscalità

locale.

Accanto ai principi politici appena illustrati, valgono i tradizio­ nali criteri della scienza delle finanze che attengono sia a obiettivi ge­ nerali dell’azione fiscale sia ai requisiti tecnici di una corretta fiscalità locale.

Rientrano tra i primi i principi del beneficio e della capacità con­ tributiva.

Come è noto, il principio del beneficio postula che al finanziamen­ to della spesa pubblica contribuiscano tutti e soltanto i beneficiari della spesa stessa, ciascuno pagando idealmente in proporzione all’uti­ lità personale ritratta dai servizi collettivi. Una rigorosa applicazione del principio del beneficio definirebbe, simultaneamente, il livello complessivo e la composizione della spesa pubblica, nonché la riparti­ zione del connesso onere tributario tra i contribuenti; essa condurreb­ be inoltre — nell’ambito di un modello di concorrenza perfetta, senza effetti esterni — ad un’allocazione efficiente delle risorse.

In pratica bisogna tuttavia tener conto sia della limitata validità interpretativa del modello di concorrenza perfetta, sia della rilevanza degli effetti esterni, sia degli enormi problemi di informazione e stima sollevati da ogni tentativo di applicare il principio anzidetto al di fuo­ ri dei servizi pubblici perfettamente divisibili. Sia, infine, dell’esigen­ za di considerare nel rapporto tributario non solo le ragioni dell’effi­ cienza allocativa, ma anche quelle della solidarietà.

Il principio della capacità contributiva si concentra proprio su quest’ultima esigenza: esso assume come un prius logico la determina­ zione della spesa, e ne ricollega il riparto alla capacità del singolo di contribuire al suo finanziamento, indipendentemente, quindi, dall’u­ tilità conseguita.

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Amministrazione, e consente, quindi, che altri principi, in particolare quello del beneficio, ispirino un determinato tributo o, addirittura, la fiscalità di un intero comparto, come potrebbe essere appunto quello della fiscalità locale.

In effetti, nella maggior parte delle esperienze straniere, pur nel­ l’ambito di ordinamenti tributari che adottano, come criterio genera- . le, il principio della capacità contributiva, il principio del beneficio tende a prevalere come criterio ispiratore della fiscalità degli enti ter­ ritoriali di base (Fabbri e al., 1995). Ciò è facilmente spiegabile consi­ derando che i servizi forniti dagli enti minori esibiscono, in genere, un grado di divisibilità — e, quindi, consentono un’applicabilità tecnica del principio del beneficio — mediamente superiore rispetto a quella riscontrabile nelle prestazioni dei livelli di governo superiori. Inoltre, l’adozione di tale principio tende a rendere più pregnante lo stesso concetto politico di autonomia locale ed il rapporto di responsabilità tra cittadini ed amministratori: questi ultimi dovranno infatti convin­ cere i beneficiari dei servizi comunali a sostenerne il finanziamento; correlativamente, i cittadini sceglieranno gli amministratori che dan­ no più garanzie di saper offrire servizi recanti benefici superiori al co­ sto fiscale.

Anche la presente proposta di riforma della fiscalità locale adot­ terà come riferimento il principio del beneficio. Come nella maggio­ ranza dei casi stranieri, tuttavia, èsso sarà prevalente ma non esclusi­ vo. Innanzitutto perché esso va comunque temporato dal principio della capacità contributiva, visto come criterio collaterale da applicar­ si quando non sia tecnicamente o politicamente applicabile, in sede locale, il solo principio del beneficio. In secondo luogo, perché la scelta concreta delle forme impositive deve comunque tener conto anche del criterio dell ’efficienza tributaria e delle connesse semplificazioni ed ap­ prossimazioni che il rispetto di tale criterio impone in sede di applica­ zione del principio del beneficio.

L ’efficienza tributaria ha per oggetto l’insieme dei costi sociali in­ diretti, monetari e non monetari, connessi con il prelievo, principal­ mente quindi costi di gestione e di controllo da parte dell’Ammini­ strazione finanziaria e costi di gestione — inclusi quelli per minimiz­ zare il pagamento al fisco — sostenuti dal contribuente.

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aumentare il grado di giustizia tributaria attraverso una progressiva moltiplicazione delle fattispecie impositive. Correlativamente sono au­ mentate le difficoltà di adempimento da parte del contribuente one­ sto e le tentazioni di elusione ed evasione di quello disonesto, con la conseguente necessità per il fisco di inasprire, o almeno tentare di ina­ sprire, i controlli (peraltro con scarso successo come dimostra il fre­ quente ricorso a condoni che, di fatto, testimoniano il fallimento del precedente sistema di conti-olli).

In questo contesto si è creata una forte domanda sociale di sem­ plificazione tributaria, sia per diminuire gli anzidetti costi indiretti del prelievo, sia per generare, paradossalmente, un maggior livello di effettiva giustizia fiscale, in quanto è ormai acquisita, anche in campo fiscale, la consapevolezza che summum ius summa iniuria e che le grandi ambizioni di giustizia tributaria hanno di fatto prodotto un si­ stema così complicato da diventare ingovernabile e da generare la di­ cotomia degli evasori e dei tartassati. Pertanto, anche in sede di rifor­ ma della fiscalità locale, appare indispensabile prevedere soluzioni tecniche che siano innanzitutto congrue con l’esigenza di semplifica­ zione tributaria.

Applicati alla fiscalità locale, i suddetti criteri di efficienza econo­ mica e di efficienza tributaria suggeriscono in particolare di:

• assicurare un’adeguata visibilità dei tributi, ossia rendere mag­ giormente percepibile il collegamento tra il prelievo e la spesa degli enti locali, e ciò al fine di rendere appunto percepibile l’attuazione dell’anzidetto principio del beneficio;

• evitare il fenomeno dell’esportazione fiscale, ossia evitare il tra­ sferimento, in tutto o in parte, dell’onere tributario a soggetti diversi dai beneficiari della spesa pubblica locale, il che significa tipicamente, anche se non sempre, su cittadini appartenenti a comunità diverse da quelle che effettuano il prelievo;

• evitare che la concorrenza fiscale produca distorsioni nelle scelte localizzative degli agenti economici;

• minimizzare i problemi di attribuzione del gettito, ossia permette­ re una non controversa identificazione dell’ente cui spettano i tributi; • limitare i costi di amministrazione dei tributi percepiti dall’ente locale, il quale, rispetto a livelli di governo superiore, può evidente­ mente beneficiare meno delle economie di scala spesso, anche se non sempre, associate alla gestione di una maggiore materia imponibile;

• individuare basi imponibili che esibiscano una certa omogeneità

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territoriale, al fine di ridurre l’esigenza di interventi esterni a scopo pe-

requativo;

• assicurare un gettito sufficientemente stabile, poco sensibile, quin­ di, alle vicende del ciclo economico, e ciò in considerazione anche della minore « flessibilità » finanziaria degli enti locali.

E evidente e nota la difficoltà di individuare tributi in grado di realizzare, simultaneamente, tali obiettivi. Ciò suggerisce di evitare la ricerca di un sistema di tributi locali ideali e di esaminare invece le proprietà relative delle diverse tipologie di prelievo, selezionando tra esse quelle che esibiscono, globalmente, i minori scostamenti rispetto agli anzidetti requisiti.

Sotto questo profilo, è indubbio, e ampiamente acquisito in lette­ ratura, che l’imposta personale sul reddito e quella sui profitti delle società poco si prestano ad essere introdotte in un sistema di tributi municipali o, quantomeno, a costituirne una componente essenziale: le incertezze sull'attribuzione del gettito, l’instabilità delle entrate, i costi di amministrazione, la forte disomogeneità territoriale delle basi imponibili, l’esportabilità dei tributi e il rischio di indurre rilevanti fe­ nomeni di concorrenza fiscale, sconsigliano, in generale, di attribuire tali tributi agli enti minori e di affidarne la riscossione a livelli di go­ verno superiori.

Analoghe considerazioni valgono, in buona sostanza, anche per le imposte sulla produzione e sul consumo. In particolare, quelle pagate nella fase della produzione possono dar luogo a significativi fenomeni di esportazione e concorrenza fiscale. Quelle sulle vendite al dettaglio soffrono presumibilmente meno di tali fenomeni — a patto, tuttavia, che gli enti beneficiari non siano eccessivamente frammentati — ma condividono, comunque, con quelle riscosse allo stadio della produzio­ ne, il problema dei costi di amministrazione e, in parte, quello dell'in­ stabilità del gettito. In entrambi i casi, poi, la relazione tra debito d’imposta e benefici derivanti daH’erogazione dei servizi locali, rica­ denti per lo più sui residenti, appare relativamente debole o, comun­ que, difficilmente percepibile,

3.4. Fiscalità comunale, tributi immobiliari ed individuazione dei

soggetti passivi.

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l’ambito di Stati unitari che nell’ambito di Stati federali (Fabbri e al., 1995).

Tali tributi, infatti, appaiono di sicura attribuzione all’ente com­ petente, sono meno suscettibili di dar luogo a fenomeni di esportazio­ ne fiscale, risultano relativamente poco sensibili alla (e non in grado di influenzare significativamente la) « mobilità inter-giurisdizionale » delle basi imponibili, implicano costi di amministrazione relativamen­ te contenuti, adottano una base imponibile presente in tutto il terri­ torio nazionale (anche se talora con differenze, in termini di valore, non trascurabili), consentono di ottenere un gettito in genere poco sensibile alle vicende del ciclo economico e, se opportunamente speci­ ficati e modulati, permettono una ragionevole, e simultanea, realizza­ zione dei principi del beneficio e della capacità contributiva.

Se tanto basta a giustificare la centralità attribuita alla fiscalità immobiliare nella presente proposta di riforma della finanza locale, rimane da approfondire il modo di articolarla per realizzare il mix desiderato di principio di beneficio e di principio di capacità contri­ butiva, nel contesto, comunque, dell’auspicata semplificazione tribu­ taria.

A questo riguardo è opportuno identificare, preliminarmente, i beneficiari della spesa pubblica locale. Sotto questo profilo, pur nella notevole variabilità dei comportamenti dei Comuni italiani, è indub­ bio che le competenze istituzionali spingono ad effettuare spese a van­ taggio:

— dei residenti in quanto tali, che fruiscono direttamente dei ser­ vizi alla persona (asili nido, scuole, assistenza sociale, ecc.) nonché dei servizi indivisibili (arredo urbano, viabilità, vigilanza, attività cultu­ rali e ricreative senza restrizioni all’accesso, ecc.);

— dei proprietari di immobili residenziali in quanto tali, che be­ neficiano di tutte le azioni locali che contribuiscono a mantenere o ad accrescere il valore dell’immobile, in particolare, quindi, delle spese per infrastrutture e servizi a rete, ma anche di tutte le altre spese che migliorano la qualità dell’ambiente urbano, elevando la domanda di residenza nel Comune stesso e quindi, coeteris paribus, il valore degli alloggi;

— degli esercenti attività produttive in quanto tali, che beneficiano di tutte le azioni locali in grado di aumentare il fatturato (ad esempio parcheggi al servizio di aree commerciali), o ridurre i costi di produ­ zione (ad esempio servizi di trasporto utilizzati dai dipendenti);

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analogamente a quanto detto per gli immobili residenziali, vedono mantenuto o accresciuto il valore patrimoniale, grazie al maggior red­ dito attuale e prospettico conseguibile dagli utilizzatori degli immobili stessi;

— dei non residenti che fruiscono in maniera più o meno sistemati­

ca del territorio comunale (lavoratori e studenti pendolari, turisti, ecc.)

e, quindi, di alcuni beni e servizi pubblici locali.

L ’elenco non è completo, in quanto ignora molti effetti esterni che per taluni ambiti territoriali possono rivelarsi molto rilevanti: ad esempio, le spese sostenute daH’amministrazione di una città d’arte per la sua conservazione accrescono anche i cosiddetti option valué ed

existence valué, i cui beneficiari sono, rispettivamente, quanti si riser­

vano l’opzione di visitare la città o che, comunque, attribuiscono un valore alla sua sola esistenza.

L ’elenco contiene inoltre delle duplicazioni quantitative: per esempio, la realizzazione di un parcheggio comunale gratuito in pros­ simità di un centro commerciale diminuisce i costi di accesso e di so­ sta degli utilizzatori, residenti e non, del centro stesso. Il benessere ad essi arrecato è misurato dalla disponibilità a pagare per tale beneficio, ma una parte del beneficio così misurato si trasforma in un maggior profitto per gli esercenti, profitto che è tuttavia destinato a trasfor­ marsi, in parte, in un aumento dei canoni di locazione e, quindi, dei valori patrimoniali degli edifici commerciali in questione. Sarebbe quindi scorretto, ai fini della contabilizzazione del beneficio sociale della spesa locale, effettuare una semplice somma degli elementi lordi appena citati. Bisognerebbe, infatti, tener conto degli elementi netti — ad esempio guadagno del commerciante sulle vendite meno mag­ gior canone pagato al locatore — la cui somma non può essere eviden­ temente superiore all’iniziale disponibilità a pagare, da parte dei con­ sumatori, per il nuovo parcheggio comunale.

Pur con questi limiti, l’elenco serve comunque ad individuare i beneficiari tipici della spesa publica locale e, nel contempo, a segnala­ re le sovrapposizioni parziali dei benefici.

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cato che portano alla traslazione dell’imposta, all’indietro e/o in avan­ ti, producano alla fine un’incidenza accettabile del tributo locale, os­ sia una distribuzione dell’onere coerente con il principio del bene­ ficio.

Nel caso specifico, questo significa che il contribuente di diritto del tributo locale potrebbe essere individuato semplicemente nel pro­ prietario immobiliare, confidando poi che un’equa parte dell’onere sa­ rà (parzialmente) traslato sul conduttore attraverso un aumento del canone di locazione che l’inquilino sarà costretto ad accettare perché l’intero mercato delle locazioni reagirà in tal modo; o, viceversa, si po­ trebbe colpire solo il locatario, confidando che il mercato produrrà una riduzione del canone di locazione, realizzando in tal modo una (parziale) traslazione all’indietro del tributo formalmente ricadente sul conduttore.

Questa possibilità non deve tuttavia far dimenticare che la tra­ slazione è di fatto soggetta ad attriti vari che la ritardano e la rendo­ no imperfetta rispetto a quella che realizzerebbe l’incidenza ideale del tributo sulle diverse categorie di beneficiari della spesa pubblica loca­ le, per cui rimane senz’altro preferibile, in astratto, colpire diretta- mente i singoli beneficiari, ciascuno per la parte di propria pertinenza. Ma soprattutto va ricordato che il processo di traslazione non avviene quando i prezzi non siano flessibili, ad esempio a causa di interferenze amministrative che impediscono un aggiustamento dei valori di mer­ cato. Il caso italiano dell’equo canone, pur se attenuato dalla possibi­ lità di patti in deroga, fa capire le limitazioni, in termini di equità e di efficienza, insite in un tributo che colpisca soltanto uno dei soggetti inseriti nella catena dei beneficiari della spesa pubblica locale.

La situazione da questo punto di vista è tuttavia piuttosto diver­ sificata tra Comuni grandi e piccoli, urbani e turistici, ecc. Ha quindi senso lasciare facoltà al Comune di decidere, in base alla situazione del mercato locale, oltre che alla propria capacità di azione amministrati­ va, se colpire distintamente le varie categorie di beneficiari della spesa pubblica — in particolare proprietari e conduttori — o se affidarsi al meccanismo della traslazione e colpirne in via diretta una sola.

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la proprietà sia più coerente con il principio della capacità contribu­ tiva.

Un’ulteriore questione nell’ambito dell’imposizione immobiliare riguarda il rapporto tra imposizione ordinaria e imposizione sui trasfe­ rimenti immobiliari che limitiamo in questa analisi a\YImposta di Re­

gistro e alle connesse Imposte Ipotecaria e Catastale (ignorando quindi Viva che soggiace a normative comunitarie e a problematiche di carat­

tere più vasto che esulano dai limiti di questa nota).

La letteratura è divisa su questo argomento, ma chi scrive non ri­ conosce nessun mei’ito di equità e di efficienza ad un’imposta sui tra­ sferimenti che tende anzi a generare un freno alle compravendite e in­ duce a dichiarazioni spesso ampiamente sottovalutate dei valori patri­ moniali (come avveniva in Italia prima dell'Invim e, più di recente, prima della disciplina che, di fatto, ha introdotto un imponibile fisca­ le convenzionale, correlato alla rendita catastale). Molto più appro­ priata era, da questo punto di vista l’Invim, abrogata a seguito del­ l’introduzione dell’/c f (5).

Neppure vale la difesa dell’Imposta di Registro come surrogato- ria di un’inesistente imposta patrimoniale ordinaria, non solo perché I lei ha colmato anche formalmente questo vuoto, ma anche pei'ché per il periodo antecedente l’introduzione dell’ Ici vale il ragionamento che gran parte del patrimonio residenziale era utilizzato dai proprieta­ ri che dunque pagavano su rendite catastali, ossia su un reddito nor­ male, che va in teoria considerato proporzionale al valore patrimonia­ le e che in Italia era già da alcuni anni diventato tale anche in prati­ ca, con la già richiamata correlazione tra rendita catastale e imponibi­ le di fatto accettato dall’Ufficio del Registro.

Innegabile invece l’argomento che l’Imposta di Registro attenua la discriminazione esistente tra privati che comprano immobili resi­ denziali da privati e quelli che acquistano immobili analoghi da im­ prese, pagando in quest’ultimo caso l’ iva. Il problema effettivamente esiste, non tanto per gli edifici nuovi, sempre venduti da imprese con Iva, ma per le compravendite del già costruito. Ma anche questa dife­ sa dell’Imposta di Registro scomparirebbe qualora venisse realizzata la proposta nel Libro Bianco, ossia di « fermare Piva allo stadio delle vendite da parte del costruttore nel caso di fabbricati destinati ad abitazione anche quando l’acquirente ha partita Iva. Per questi

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getti, dunque, l'iva sarebbe indeducibile e l’immobile circolerebbe nelle fasi successive subendo le stesse imposte previste nel caso di pas­ saggio di proprietà fra persone fisiche » (Ministero delle Finanze, 1994, p. 81).

In questa prospettiva, l’Imposta di Registro trae la propria legit­ timazione solo dal più permanente dei fini del sistema tributario, ossia quello di procurare gettito in una maniera che non crei involte fiscali. Nell’odierna situazione della finanza pubblica italiana questo è un obiettivo quantomai attuale, per cui la tassazione dei trasferimenti immobiliari appare allo stato attuale come un male necessario. Si ri­ cordi comunque che il progetto di riforma prefigurato dal Libro Bian­

co prevede la rinuncia da parte dell’erario all’ Imposta di Registro

(nonché all’Invim ad esaurimento), lasciando ai Comuni la facoltà di mantenere in vita la tassazione dei trasferimenti immobiliari, con li­ bertà di fissazione deH'aliquota, o di eliminarla, affidando il finanzia­ mento della propria attività alla sola tassazione ordinaria degli immo­ bili.

Nel rispetto di tale libertà, si suggerisce il mantenimento, in am­ bito comunale, di un prelievo sui trasferimenti immobiliari, ancorché attenuato rispetto all’attuale regime erariale. Se infatti fosse intera­ mente eliminato, diventerebbe probabilmente intollerabile l’aggravio dei proprietari locatori i quali, come precisato in seguito, si trovereb­ bero, in via ordinaria, a pagare un’imposta comunale che, rispetto agli attuali tributi immobiliari locali, deve già aumentare per assorbire parzialmente il mancato prelievo Irpef sui redditi figurativi, e dovreb­ be ulteriormente aumentare se dovesse assorbire anche l’attuale pre­ lievo sui trasferimenti. Il discorso vale ovviamente anche per i pro­ prietari che utilizzano direttamente i propri immobili (prime e secon­ de case), ma per questi parte dell’aumento del prelievo locale tende a configurarsi come una partita di giro, in quanto compensato appunto dall’eliminazione dell’Irpef sui redditi immobiliari figurativi. Per il proprietario locatore, invece, il più elevato prelievo ordinario comuna­ le si aggiunge al persistente prelievo Irpef, e potrebbe quindi giungere ad un livello non tollerabile, in particolare in un regime di equo cano­ ne o, comunque, di canoni di locazione che non consentano, almeno nelFambito della durata contrattuale, la traslazione di parte dell’one­ re .sull’inquilino.

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zioni tra trasferimenti soggetti a registro e trasferimenti soggetti ad Iva, si suggerisce di fissare l’imposta locale sui trasferimenti immo­ biliari in modo da ottenere globalmente un gettito pari alla metà di quello attualmente fornito dalle imposte erariali (Registro, Ipote­ caria, Catastale ed Invim ad esaurimento). Con riferimento ai dati di gettito 1994, questo significa passare da 8.000 a 4.000 miliardi di pre­ lievo.

4. Schema di riforma dell’imposizione comunale sugli immobili.

In estrema sintesi, l’esame sin qui svolto porta a:

• confermare la centralità dei tributi immobiliari nella finanza lo­ cale;

• considerare il residente (persona fisica e impresa) come il bene­ ficiario, diretto o indiretto, della maggior parte della spesa pubblica locale e a giustificare, quindi, un’imposizione sugli utilizzatori degli immobili, sia in proprietà che in locazione;

• considerare accettabile la tassazione dei soli proprietari solo quando sia prevedibile un adeguato processo di traslazione grazie ad un mercato flessibile delle locazioni;

• lasciare comunque ad ogni singolo Comune di giudicare l’opzio­ ne di tributi distinti su proprietari e utilizzatori o su uno solo di tali soggetti (pur ritenendo preferibile l’individuazione di due distinti sog­ getti passivi, sia pure eventualmente nell’ambito di un unico tri­ buto);

• ritenere opportuno il mantenimento, in ambito locale, di un’im­ posta sui trasferimenti immobiliari in sostituzione delle attuali Impo­ ste di Registro, Ipotecaria e Catastale (e dell’Invim ad esaurimento), attenuando tuttavia il prelievo di circa il 50% rispetto alle attuali im­ poste erariali.

Su queste basi si passa ad illustrare tecnicamente la riforma sug­ gerita.

4.1. L ’attuale assetto della fiscalità immobiliare.

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(a) Situazione del patrimonio residenziale (6).

Secondo l’ultimo censimento (1991), esistono in Italia oltre 25 mi­ lioni di alloggi, di cui circa 19.740.000 occupati e 5.290.000 non occu­ pati. Tra i primi, il 68% risulta utilizzato dal proprietario, il 25% da­ to in locazione e il 7% occupato ad altro titolo. Il fenomeno probabil­ mente più vistoso occorso nell’ultimo decennio è costituito dall’au­ mento della percentuale di abitazioni occupate dal proprietario, cui fa riscontro una correlata diminuzione di quelle concesse in affitto. Tra le abitazioni non occupate, circa il 50% è utilizzata come seconda ca­ sa, poco meno del 10% per lavoro e le restanti sono utilizzate per altri motivi o non sono utilizzate affatto. Il fenomeno delle case non occu­ pate è, ovviamente, rilevante nei Comuni turistici, ma è presente in modo significativo anche nelle maggiori città, cioè, paradossalmente, laddove è più forte la domanda di alloggi in locazione.

(b) Rigidità del mercato immobiliare.

Il volume delle compravendite diverse dall’acquisto della prima casa viene giudicato inadeguato rispetto all’auspicata mobilità dei re­ sidenti in una società post-industriale. Una parte non trascurabile del fenomeno viene spiegata con l’incidenza dei carichi fiscali sui trasferi­ menti immobiliari che, oltre a pesanti diversificazioni a seconda della natura dei soggetti contraenti, risultano mediamente più elevati ri­ spetto agli altri Paesi occidentali. All’anzidetta rigidità è connesso un uso inefficiente del patrimonio immobiliare: l’adeguamento dello spa­ zio abitativo alle esigenze del nucleo familiare — siano esse in aumen­ to o in diminuzione — risulta infatti notevolmente ritardato. (c) Scarsa attendibilità del Catasto.

A fronte dei 25 milioni di alloggi emersi attraverso il Censimento del 1991, risultano accatastate meno di 20 milioni di unità immobilia­ ri classificate nel gruppo A. In aggiunta a questa grossa lacuna, il Ca­ tasto si dimostra poco attendibile per quanto riguarda la capacità di configurare fedelmente la struttura delle rendite e dei valori immobi­ liari. La revisione degli estimi attuata nel 1992 ha eliminato la forte sottovalutazione media dei precedenti dati, ma ha creato incoerenze interne sia negli stessi ambiti territoriali, sia, e soprattutto, tra Comu­ ni. Ne sono conseguiti, e permangono, ovvi problemi di equità e di contenzioso.

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(d) Livello e composizione dell’attuale imposizione sugli immobili (resi­

denziali e produttivi).

In Tabella 1 è riportato il gettito dei tributi attualmente gravanti sul comparto immobiliare (7).

Tais. X. — Gettito complessivo dei tributi sugli immobili - 1993 (mld. di lire correnti). Imposte sui redditi immobiliari ...

Imposte (ordinarie) sul patrimonio immobiliare ... Imposte sui trasferimenti immobiliari ... Imposte sull’attività edilizia ...

Imposte su attività e servizi ... Totale imposte sugli immobili ...

Imposte sugli immobili 1 totale entrale tributarie ... ... 11,27%

4.2. Finanza comunale: il quadro quantitativo di riferimento. Ai fini dell’esposizione dello schema di riforma, è sufficiente ri­ chiamare il seguente quadro quantitativo di riferimento della finanza comunale, desumibile dal Libro bianco (Ministero delle Finanze. 1994, p. 65):

Tributi immobiliari locali ... ... — lei ... — Iciap ... — Tarsu ... — Tosap ... Trasferimenti erariali correnti ...

Totale ... 24:600 miliardi 2.500 6.500 .1.300 19.000 43.600

Mantenendo inalterato l’anzidetto sub-totale di 43.600 miliardi, il Libro bianco fissa come obiettivo una caduta dei trasferimenti erariali di 9.000 miliardi, compensabili attraverso un correlato aumento da 24.600 a 33.600 miliardi nelle entrate tributarie comunali collegate agli immobili.

Questo aumento di pressione fiscale, a livello locale, sugli immo­ bili, potrà giovarsi della rinuncia dello Stato:

all’Imposta di Registro, Ipotecaria e Catastale: 5.500 miliardi; — all’ Imposta sulle Successioni e Donazioni: 500 miliardi; — all’Invim (ad esaurimento): 2.000 miliardi;

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— all’Irpef sui redditi immobiliari figurativi (immobili non loca­ ti): 5.300 miliardi.

Tenuto conto del parziale recupero, in sede Irpef, della mancata tassazione dei redditi figurativi (4.300 miliardi), il Libro bianco quan­ tifica appunto in un ammontare complessivo di 9.000 miliardi il man­ cato gettito per l’erario.

4.3. Il Tributo locale sugli immobili (TU).

Nell’ambito dell’autonomia impositiva degli Enti locali, si propo­

ne che ogni Comune sia obbligato solo ad adottare un Tributo Locale sugli Immobili ( TU) a carico dei proprietari degli immobili ubicati nel pro­ prio territorio, avente come base imponibile il valore patrimoniale desun­ to dalla rendita catastale secondo le modalità oggi vigenti per Vici, con fa ­ coltà del Comune di stabilirne l’aliquota.

Pur riconoscendo l’autonomia del Comune, si ritiene comunque opportuno individuare a livello nazionale quantomeno un'aliquota mi­

nima obbligatoria, e questo in base a due considerazioni. In primo luo­

go, a seguito della riforma l’intera tassazione immobiliare verrebbe di fatto affidata ai Comuni, con l’unica eccezione dei redditi derivanti dalle locazioni che rimarrebbero assoggettati ai tributi erariali sul red­ dito; ciò pone evidentemente un problema di equità all’interno del si­ stema tributario generale e induce quindi a rendere obbligatorio un li­ vello minimo di pressione fiscale sugli immobili per ridurre le discri­ minazioni rispetto ad altri elementi di capacità contributiva. In se­ condo luogo, si tratta di porre comunque un limite inferiore alle ten­ tazioni di concorrenza fiscale da parte dei Comuni.

In prima approssimazione, si suggerisce di fissare tale limite infe­ riore al 4 per mille (sul valore catastale), pari cioè all’aliquota minima attualmente prevista in sede lei.

È inoltre facoltà del Comune:

• imporre o meno un tributo sul conduttore di immobili residen­ ziali e/o produttivi, definendo la base imponibile che dovrà senz’altro contenere l’anzidetto valore catastale, ma potrà estendersi anche alla superficie, nonché tener conto di elementi quali le caratteristiche del nucleo familiare (numerosità, composizione, ecc.) e, nel caso di immo­ bili produttivi, appropriati indici di redditività o appropriati indica­ tori delle esternalità negative — localmente rilevanti — associate al­ l’attività produttiva;

• imporre o meno un tributo sul cessionario;

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• determinare l’aliquota dell’eventuale tributo in capo al condut­ tore e al cessionario.

Il modello di riferimento qui di seguito descritto va pertanto inte­ so come proposta tecnica di cui ciascun Comune potrà avvalersi in tutto o in parte, nell’esercizio della sua autonomia. Le linee ispiratrici del modello sono così riassumibili:

• eliminazione dei seguenti tributi comunali: lei, Iciap, Tarsu e Tosap (per la parte connessa all’utilizzo di un immobile, ad es. passo carraio), sostituita da un unico tributo locale sugli immobili (Tli);

• soggetti passivi dèi Tli: proprietari, conduttori e cessionari (ac­ quirenti, donatari e eredi) di immobili ricadenti nel Comune;

• unica base imponibile: valore catastale, così come attualmente determinato in sede lei, deH’immobile posseduto (o utilizzato o trasfe­ rito);

• abolizione, nell’ambito dell’imposizione comunale, di qualsiasi agevolazione generalizzata di tipo oggettivo o soggettivo;

• gettito del Tli ripartito approssimativamente a metà tra pro­ prietà e conduzione, così attenuando il principio del beneficio (che di per sé imporrebbe una quota maggiore a carico dei conduttori) con il principio di capacità contributiva;

• nell’ambito del prelievo a carico della proprietà, circa 3/4 del gettito ottenuto tramite imposizione ordinaria e 1/4 attraverso l’impo­ sizione sui trasferimenti;

• nell’ambito del prelievo a carico della conduzione, gli utilizzato- ri di immobili produttivi sono assoggettati ad un’aliquota da 2 a 3 volte superiore a quella gravante sui conduttori di immobili residen­ ziali si preferisce comunque il rapporto 2/1 che, secondo le stime del­ l’attuale valore catastale degli immobili (che assegnano circa l’80% al­ le residenze e il 20% agli immobili produttivi), darebbe la seguente ri- partizione del prelievo complessivo sui conduttori: 2/3 a carico degli utilizzatori di immobili residenziali e 1/3 a carico degli utilizzatori di immobili produttivi.

In termini quantitativi,

• assumendo il vincolo di gettito indicato nel Libro bianco (p. 65) di 33.600 miliardi,

• utilizzando le stime disponibili sulla base imponibile dichiarata in sede lei (3.188.500 miliardi) (8),

• ipotizzando un incremento della base imponibile del 5% (come

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