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Esperienza esteticaA partire da John Dewey

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Academic year: 2021

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Aesthetica Preprint

Supplementa

Esperienza estetica

A partire da John Dewey

a cura di Luigi Russo

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Il Centro Internazionale Studi di Estetica

è un Istituto di Alta Cultura costituito nel novembre del 1980 da un gruppo di studiosi di Estetica. Con d . p . r . del 7 gennaio 1990 è stato riconosciuto Ente Morale. Attivo nei campi della ricerca scientifica e della promozione culturale, organizza regolarmente Convegni, Seminari, Giornate di Studio, Incontri, Tavole rotonde, Conferenze; cura la collana editoriale Aesthetica © e pubblica il perio- dico Aesthetica Preprint © con i suoi Supplementa. Ha sede presso l’Università degli Studi di Palermo ed è presieduto fin dalla sua fondazione da Luigi Russo.

Aesthetica Preprint

©

Supplementa

è la collana editoriale pubblicata dal Centro Internazionale Studi di Esteti-

ca a integrazione del periodico Aesthetica Preprint © . Viene inviata agli stu-

diosi im pegnati nelle problematiche estetiche, ai repertori bibliografici, alle

maggiori biblioteche e istituzioni di cultura umanistica italiane e straniere.

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Aesthetica Preprint

Supplementa

21

Dicembre 2007

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John Dewey, 1859-1952

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Esperienza estetica

A partire da John Dewey

a cura di Luigi Russo

Il presente volume raccoglie gli interventi presentati nell’omonimo Seminario promosso

dal Centro Internazionale Studi di Estetica in collaborazione con l’Università degli Studi

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Il presente volume viene pubblicato col contributo del M iur ( prin 2005, re-

sponsabile scientifico prof. Luigi Russo) – Università degli Studi di Paler mo,

Dipartimento di Filosofia, Storia e Critica dei Saperi (F ieri ), Sezione di Estetica.

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Indice

L’antropologia dell’esperienza estetica in Dewey

di Giovanni Matteucci 7 Emozioni e soggetti nell’espressione artistica: il contributo di Dewey di Roberta Dreon 19 Estetiche empiristiche

di Simona Chiodo 35 Art as Experience e l’arte contemporanea

di Marco Senaldi 49 È ancora possibile un’esperienza estetica?

di Stefano Velotti 61 Il modello antropologico dell’esperienza estetica

fra Dewey, Gehlen, Plessner

di Salvatore Tedesco 71 Fenomenologia ed esperienza estetica

di Elio Franzini 85 L’estetica come filosofia dell’esperienza. Rileggendo Dewey con Garroni di Leonardo Amoroso 99 La critica dell’esperienza estetica nella filosofia analitica angloamericana

di Paolo D’Angelo 111 Come leggere Art as experience

nel quadro dell’orizzonte estetico attuale?

di Mario Perniola 123 Esperienza estetica e interattività

di Roberto Diodato 137 Patologie dell’esperienza estetica contemporanea

di Fabrizio Desideri 151 Esperienza estetica e anestesie dell’esperienza

di Pietro Montani 163 Arte ed esperienza. Dopo Dewey

di Fulvio Carmagnola 175

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Appendice

a cura di Alfonso Ottobre 191 L’esperienza estetica come fase primaria e come sviluppo artistico

di John Dewey 195

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L’antropologia dell’esperienza estetica in Dewey

di Giovanni Matteucci

1. Come ogni opera filosofica di rilievo, Art as Experience 1 di Dewey presenta una trama concettuale fitta e densa. In tutti i casi del genere i concetti che vengono utilizzati non hanno la medesima fun- zione né il medesimo statuto. Vi sono concetti che definiscono alcuni elementi chiaramente enucleati nel corso della trattazione, ossia i con- cetti tematici. Vi sono però anche concetti che esprimono dinamiche pervasive essenziali che tuttavia non trovano uno specifico luogo di elaborazione e di definizione. Questi sono i concetti operativi. Eugen Fink, a cui si deve la classificazione, in un mirabile saggio sulla feno- menologia di Husserl ha mostrato come la concettualità del secondo tipo costituisca il nutrimento genuino della concettualità del primo tipo 2 . Negli atti di determinazione e di definizione ci si serve di, ov- vero si opera con, l’energia speculativa di ciò che accompagna come un’ombra le tematizzazioni.

Come si diceva, quanto alla dialettica tra tematicità e operatività Art as Experience non fa eccezione. I suoi concetti tematici principali coincidono con ciò che indicano i termini che compaiono nei titoli dei diversi capitoli. “Esperienza”, “espressione”, “forma”, “sostanza”,

“contenuto”, persino “arte”, sono lemmi in linea di massima ben mo- dellati, e costituiscono in senso proprio gli elementi della riflessione estetica deweyana. Nello svolgimento dell’opera, però, tali elementi vengono precisati facendo ricorso ad alcune dinamiche che non cono- scono una precisa determinazione. È tutt’altro che un difetto. In una prospettiva come quella di Dewey, che ammonisce costantemente a evitare forme indebite di ipostatizzazione, l’esistenza di tracce robuste di una viva operatività concettuale depone a favore della coerenza tra metodo e dottrina. Ma allora per valutare l’orizzonte complessivo nel quale si inscrive l’estetica deweyana ci si deve impegnare a vagliare la natura dei concetti operativi mediante i quali si disegnano gli aspetti dottrinali resi evidenti dai concetti tematici.

La definizione dei contenuti su cui insiste Art as Experience rinvia a concetti come “resistenza”, “tensione”, “energia”, “forza”, “equilibrio”,

“armonia”, “ordine”, “incorporazione”, “assimilazione”, “perfeziona-

mento”, la cui peculiarità è di esorbitare dalla logica della contrappo-

sizione tra soggetto e oggetto. Infatti, essi non designano né contenuti

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8

psichici né porzioni di enti obiettivi. Le dinamiche a cui alludono sono quelle dell’interazione tra organismo e ambiente che dà adito al «com- portamento biologico dell’adattamento» 3 . Descrivono cioè un confron- to che si rivela produttivo quando l’organismo che subisce un’iniziale sperequazione rispetto all’ambiente come inibizione all’affermazione di sé, assimila l’ostacolo che l’ambiente oppone alla sua prassi vitale facendone una sollecitazione immanente alla sua condotta. In partico- lare, mediante i concetti di “resistenza” ed “energia” viene messo a fuoco ciò che Dewey chiama «il prodigio di ciò che è organico, vitale:

l’adattamento per espansione, anziché per contrazione e sistemazione passiva» (AE, 41). Si può addirittura affermare che l’adattamento per espansione costituisce la cornice e determina l’architettura del progetto realizzato attraverso Art as Experience. Infatti esso viene considerato da Dewey fenomeno tipicamente umano nel momento in cui comporta la produzione di nuovi oggetti ove si addensano e si estrinsecano le alterazioni dell’organismo e dell’ambiente grazie a cui si stabilisce un pur momentaneo equilibrio – nel momento in cui, cioè, l’interazione assume la medesima espressività che connota le opere d’arte 4 .

La mia tesi è che i concetti operativi che caratterizzano essenzial- mente la riflessione consegnata ad Art as Experience, rinviando a di- namiche relazionali di tal sorta, sono resi omogenei da una comune natura antropologica. Se questo è vero, si dovrà parlare del programma estetico di Dewey come di una vera e propria antropologia dell’espe- rienza estetica che si muove entro un territorio rispetto a cui i domini ontologici del mondo interno e del mondo esterno appaiono incon- gruenti nella loro tendenza a risolvere la relazione in sostanza, la moda- lità in assolutezza e la qualità in quantità. Qui di seguito mi soffermerò sommariamente su alcune implicazioni di questo programma.

2. Nel primo capoverso di Art as Experience Dewey afferma che l’opera d’arte risiede, piuttosto che nell’ente obiettivo che si presen- ta alla fruizione, in ciò che l’ente prodotto dall’attività artistica «fa della e nella esperienza» (AE, 31). Ciò che fa dell’esperienza, poiché esso va colto come termine di una relazione; è un centro di resistenza che trasforma il corso esperienziale vigente in quanto gli conferisce una specifica intenzionalità, di modo che l’esperienza sia proprio di quell’oggetto. Ciò che fa nell’esperienza, poiché è un vettore che inter- viene a qualificare l’evento; è un punto di energia efficace all’interno dell’arco esperienziale vigente nella misura in cui l’esperienza assume l’andamento che si addice proprio a quell’oggetto. Anche la definizione dell’opera d’arte passa, dunque, attraverso un’elaborazione concettuale che ha come fulcro i concetti operativi di resistenza, energia e forza che ancorano l’analisi dell’esperienza estetica alla dimensione della re- lazione, della qualità e della modalità.

“Resistenza” ha un preciso connotato operativo-relazionale. A di-

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stinguere il comportamento biologico umano da quello di altre creatu- re viventi è la consapevolezza che può affiorare solo se si avverte una resistenza (cfr. AE, 61). La produzione artistica rappresenta il culmine di questo processo, tanto che per Dewey l’artista deve coltivare la resistenza e acuirla al massimo grado. Egli deve cioè mettere a frutto tutte le potenzialità che vi sono riposte per portare «a viva coscienza un’esperienza che è unificata e totale» (AE, 41), rendendo l’evento in atto una esperienza, ossia compagine articolata e compiuta il cui peri- metro e il cui profilo combaciano con la forma assunta dall’espressione artistica. D’altro canto, il connotato operativo-relazionale di “forza”

ed “energia” è altrettanto marcato. In quanto campo di forze, l’opera d’arte consiste infatti delle interazioni che si avvertono al suo interno.

Ecco perché una delle rarissime definizioni esplicite dell’opera d’ar- te che offre Dewey si risolve nella descrizione di relazioni operative:

«quando la struttura dell’oggetto è tale da far sì che la sua forza in- teragisca felicemente (ma non con semplicità) con le energie che si sprigionano dall’esperienza stessa; quando le loro reciproche affinità e i muti antagonismi operano insieme per determinare una sostanza che si sviluppa progressivamente e costantemente (ma non in maniera troppo rigida) verso la soddisfazione di impulsi e tensioni, solo allora c’è un’opera d’arte» (AE, 169).

Analoghe sono le premesse che motivano la posizione alternativa che assume Dewey rispetto a prospettive estetiche e, più in generale, teoretiche centrate sulla soggettività. Sulla scia della destituzione della sostanzialità della coscienza elaborata da William James 5 , egli attri- buisce alla dimensione soggettiva un valore eminentemente funzionale.

Così la mente viene interpretata in accezione verbale. Essa coincide

con le attività mentali. Mind, scrive Dewey, «denota tutti i modi in

cui ci occupiamo consapevolmente ed esplicitamente delle situazioni

in cui ci troviamo», e solo a causa di «una maniera influente di pen-

sare» ci si è abituati a trasformare «i modi di agire in una sostanza

soggiacente che compie le attività in questione». Quando si tratta «la

mente come un’entità indipendente la quale fa attenzione, si prefigge,

si prende cura, osserva e ricorda», si annulla la relazionalità operativa

dell’attività mentale, sciogliendola «dalla necessaria connessione con gli

oggetti e gli eventi, passati, presenti e futuri, dell’ambiente con cui sono

intrinsecamente collegate le attività di reazione» (AE, 258). Quindi,

come l’“oggetto” viene considerato per quel che attiene all’energia che

esercita sulla configurazione di un campo esperienziale 6 , così nell’anali-

si deweyana il “soggetto” appare uno dei centri di forza interni all’arco

esperienziale. Soggetto e oggetto sono energie correlate, anzi diventano

termini tendenziali, fuochi, di una correlazione che non mette capo ad

alcuna sostanzialità. Se l’ente è l’orizzonte interno verso cui converge

e si distende un’esperienza quasi ne fosse l’ancoraggio intenzionale, la

mente è questo stesso distendersi che si attua nella concretezza dei gesti

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e delle pratiche di manipolazione ed elaborazione dei contenuti ogget- tuali. La soggettualità si identifica con le maniere in cui ci si misura con l’ambiente, in cui cioè si pone mente ad esso. Equivale a modalità e a qualità della relazione che si istituisce tra uomo e mondo.

Di conseguenza, come un’ontologia dell’oggetto artistico si dimo- stra sviante poiché assolutizza le componenti oggettuali dell’esperien- za trasfigurate in obiettività, così un’ontologia del soggetto artistico – che, nell’elevare l’uomo a collettore di stati mentali, interpone uno iato tra organismo e ambiente – emargina e depotenzia l’organo della relazione tra uomo e mondo, ossia il corpo, nello stesso momento in cui fa della mente una sostanza autonoma immateriale che conosce solo un rapporto contingente con l’alterità radicale della realtà fisica.

Occorre ovviare a questi impoverimenti, che comprimono l’intreccio pregnante di qualità oggettuali direttamente esperite nella controparte virtuale delle impressioni sensoriali, e il crogiolo di attività mentali e moti corporei nell’evanescente spiritualità di un’anima disincarnata. Ed è tal fine che Dewey combatte ogni estetica che cerchi, per intonazio- ne soggettivistica, di desumere gli elementi dell’esperienza estetica da presunti contenuti mentali stabilmente definiti entro il solo perimetro della psiche individuale (cfr. AE, 258-59).

3. Posta la premessa della corrispondenza indistricabile tra attività e passività rivelata dalla relazione tra uomo e mondo, la riflessione è tenuta a riconsiderare l’integralità antropologica precedente alla dico- tomia tra mente e corpo. Sul piano gnoseologico, ciò spinge Dewey a condurre una strenua battaglia contro l’intellettualismo. In sede este- tica, ciò indirizza invece la sua attenzione alla funzione mediatrice dell’organismo vivente. Perciò il tragitto descritto da Art as Experience è costellato dai risultati di un’insistita analisi della sensibilità. La teoria della percezione sottesa al volume diventa addirittura banco di prova decisivo per specificare la natura antropologica del programma teore- tico perseguito da Dewey. È infatti nel percepire che prende dapprima rilievo come l’interazione con l’ambiente si esplichi attraverso dinami- che che investono l’essere umano nella sua interezza, a conferma di quanto sia assurda la partizione rigida tra diverse facoltà e sterile la subordinazione della percezione alla conoscenza intellettuale.

L’aisthesis è di per sé evenienza pregnante di senso, una volta che si

veda in essa qualcosa di più di una serie di atti istantanei di riconosci-

mento di oggetti ovvero di fenomeni isolati di ricezione passiva. Anche

il percepire è invece insieme un fare e un subire. Articola in maniera

complessa un progetto d’ordine dettato dal modo e dalla qualità della

relazione che si istituisce mentre l’esperienza procede, e che coinvolge

sinesteticamente l’unità della persona nella sua continuità temporale

concreta e vissuta 7 . Oltre che prima della forzosa dicotomia tra mente

e corpo, ciò avviene anche prima della differenziazione analitica de-

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gli organi sensoriali e motori, e prima della contrapposizione astratta tra gli orizzonti temporali. È impossibile percepire qualcosa, osserva Dewey, «se non quando sensi diversi lavorano in relazione reciproca, se non quando l’energia di un “centro” si comunica agli altri, stimolando così nuove modalità di risposte motorie che a loro volta suscitano nuove attività sensoriali». Questa unità sinestetica e cinestetica è anche, però, continuità temporale, poiché ogni qualità sensoriale ricapitola un passato essendo «condizionata da una storia» e allude al futuro poiché

«l’impulso degli elementi motori che sono coinvolti genera un’esten- sione nel futuro, predisponendosi a ciò che deve venire e in un certo senso preannunciando ciò che deve accadere» (AE, 180).

La matrice antropologica della teoria della percezione sottesa ad Art as Experience fa sì che Dewey attribuisca al percepire la funzione primaria di cogliere direttamente nella tessitura qualitativa il senso della realtà concreta, non concettualmente idealizzata. Questo possibile accesso diretto allo strato qualitativo che dà consistenza alla realtà si riflette sul piano della produzione dell’arte in una ricerca naturalistica che costituisce il denominatore comune di tutte le opere pienamente riuscite. “Naturalismo”, per Dewey, designa perciò ogni indagine arti- stica condotta sulla pienezza del reale che emerge nella prassi percetti- va. Non indica l’ideologica proposizione dell’ideale artistico posto nella natura naturata, bensì la volontà di manifestare la relazione antropo- logica presa in tutta se stessa. Anziché in quanto esito dell’intento di restituire una scena con fedeltà rigidamente mimetica, l’opera d’arte risulta naturalistica nella misura in cui si sforza di presentare un’intera- zione nella sua ricca dotazione di qualità. Il naturalismo diventa allora

«necessità di tutta la grande arte»; significa «che tutto quello che si può esprimere è un qualche aspetto della relazione tra l’uomo e il suo ambiente, e che questo contenuto raggiunge la sua più perfetta unione con una forma quando ci si vincola e ci si affida completamente ai ritmi di base che caratterizzano la loro interazione» (AE, 159-60).

Alla tendenza al naturalismo corrisponde senza contraddizione la

tendenza all’astrazione, egualmente condivisa dalle opere d’arte ben

riuscite. Ogni volta che la creazione artistica si prefigge di esprimere la

concreta realtà relazionale, essa compie una riduzione della congerie di

contenuti attuali. Il senso di tale operazione non va comunque equivo-

cato. La creazione artistica prescinde dal dettaglio, fino all’estremo di

raffigurare la modalità azzerando elementi obiettivamente identificabili,

come spesso accade nelle ricerche artistiche del Novecento. Non lo fa,

però, attraverso un’astrazione intellettualistica che miri a presunti sche-

letri essenziali e formalisticamente determinati. Nell’astrazione artistica

a cadere è quanto si è soliti ipostatizzare assecondando l’abitudine a

servirsi di costrutti già confezionati che mistificano la qualità nella

quantità. Questa ineludibile astrazione è pienamente compatibile con

l’espressività naturale delle opere d’arte 8 .

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12

In questo quadro, la funzione dell’arte risiede nel potenziamento qualitativo della percezione che condensa e intensifica la naturalità.

Ciò che esibisce la forma prodotta è al più un nuovo modo di vede- re le stesse cose che si incontrano nell’esperienza quotidiana. Affiora di conseguenza un duplice vincolo estetico. L’opera d’arte nasce nel dominio percettivo, poiché è dagli ordini immanenti delle qualità sen- soriali che essa trae le dinamiche che la innervano. Inoltre è protesa verso il dominio percettivo, poiché anzitutto contribuisce a plasmare e consolidare modi di accedere al mondo talvolta inconsueti. In tal senso, si potrebbe dire che il suo compito è di rendere evidenti leggi estetiche che governano complessivamente il percepire anziché parti- colari contenuti sentiti o pensati. L’arte rivela i principi in base ai quali qualcosa diviene percepibile prima che percepito o concepito, ossia i principi della percettualizzazione 9 .

4. Così incardinata su una teoria dell’aisthesis e della naturalità percepibile, quella di Dewey si profila come un’estetica in senso origi- nario che ha per argomento la soglia relazionale tra organismo umano e ambiente. Quest’ultimo è al tempo stesso fisico e sociale. Anzi, la disomogeneità di un ambiente fortemente antropizzato, di una natura più che fisica, spinge al centro di Art as Experience il problema della ricostituzione dell’unità dell’uomo, ossia di come pervenire a equili- brio, armonia, ordine in situazioni che tendono in misura crescente alla disgregazione 10 . È un programma che richiede di evadere dagli schemi dominanti del pensiero moderno e che anzi ambisce a rispondere allo svuotamento antropologico che quegli schemi hanno determinato sulla scorta di una fraintesa semplificazione della natura umana.

La peculiarità risiede nel fatto che Dewey parte dallo stesso principio di tale svuotamento anziché volgergli sterilmente le spalle. La drastica diminuzione di senso dell’uomo è dovuta non da ultimo alla pretesa di giungere alla sua totale e obiettivistica naturalizzazione. La risposta che suggerisce Dewey è opposta alla ricerca di compensazioni da ottenere rievocando nostalgicamente la metafisica di un soggetto spiritualizzato.

La naturalizzazione ha i suoi buoni diritti, dà ottimi risultati sul piano scientifico e addirittura, osserva Dewey, produce «un effetto favorevole, non sfavorevole, per l’arte nel momento in cui se ne coglie il senso intrinseco e non se ne interpreta più il significato in base al contrasto con le credenze che ci derivano dal passato» (AE, 321).

Nel confrontarsi con questa realtà epistemica la filosofia deve sem-

mai farsi carico di mostrare come la natura dell’uomo ecceda l’obiet-

tività della sua fisiologia perché fa qualcosa in, con e di essa. Per sa-

perne qualcosa si possono solamente analizzare le forme della condotta

umana 11 . L’organismo antropologico si innesta nella natura vivente

con una capacità che, essendo pragmaticamente e operativamente

produttiva, è anomala rispetto a ogni meccanismo deterministico. È

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il decentramento interno alla natura (di cui ci appropriamo in parte quando la rendiamo “nostra”) che crea quegli scarti vissuti dall’uomo come dinamiche di sensatezza. Occorre allora radicalizzare lo studio della natura umana per enuclearne le dinamiche senza ipostatizzarle, magari perché si parte da un netto concetto di uomo o perché si at- tribuisce indebitamente valore esplicativo a strutture concettuali che invece ne possiedono solo uno descrittivo così da incorrere in perni- ciose fallacie metodologiche 12 . Ecco perché la relazione e la funzione dell’uomo come creatura vivente anomala, poietica, trovano espressione nell’analisi dell’esperienza estetica sotto forma di una concettualità che si sottrae alla tematizzazione. Il risultato è un’antropologia che ha la propria forza nella mancanza di una definizione preventiva della natura umana.

La realizzazione di questo progetto esige il difficoltoso studio di forze che risultano tanto più efficaci quanto più permangono sullo sfondo. Per affrontare questo compito, in Art as Experience Dewey effettua ripetuti rilievi sull’emozione, intesa come lo scenario qualita- tivo sul quale si stagliano i vettori soggettuali e i vettori oggettuali che si intersecano nell’esperienza estetica 13 . Anzitutto l’emozione viene sottratta al dominio della soggettività. Per Dewey essa non va confusa con uno stato mentale che insorgerebbe in aggiunta a, o in occasione di, un contenuto sensoriale dato. L’emozione è, invece, l’intonazione che pervade e permea sia i cosiddetti stati mentali che i cosiddetti elementi obiettivi che agiscono in un arco esperienziale. Le attività mentali e i punti di resistenza, ossia tutti gli aspetti passibili al limite di naturalizzazione, fanno la loro comparsa in un campo di per sé refrattario alla quantificazione, e anzi connotato solo qualitativamente.

È la modalità della relazione che si avverte come emozione, di cui ci

si accorge per come agisce dando configurazione alla circostanza, os-

sia conferendo alla circostanza potenzialità espressiva e prospettiva di

senso. Per questo motivo l’emozione mai va disgiunta dalla concretezza

materiale dell’evento in corso di svolgimento a cui afferisce 14 . Diventa

privo di senso parlare di emozioni come se si trattasse di entità recluse

nel perimetro dello psichismo. In termini fenomenologici, ogni emo-

zione possiede una particolare intenzionalità poiché costituisce il modo

in cui l’attività mentale, e in generale la condotta dell’organismo, si

distende verso l’orizzonte attuale del mondo. Grazie alla sua pervasi-

vità, l’emozione colora la stessa attività mentale senza tuttavia ridursi

a un distinto contenuto psichico, a un definito stato mentale. Sottrat-

ta a ogni obiettivazione e a ogni soggettivizzazione, l’emozione viene

avvertita solo come forza. Essa rivela così di possedere uno statuto

qualitativo (qualifica l’esperienza), relazionale (sussiste esclusivamente

nell’interazione tra organismo e ambiente) e modale (è l’indice che

esprime la maniera in cui l’esperienza si compagina e si articola) 15 .

In tal senso essa impregna anche gli strumenti espressivi che vengono

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14

prescelti per dare una forma all’esperienza dotata di validità extra- individuale (cfr. AE, 67).

Se si dicesse semplicemente che lo strato qualitativo che innerva un arco esperienziale è sfondo, si rischierebbe di darne un’immagine di assoluta vaghezza e indeterminatezza. Essendo operativa, l’emozione è invece informata da grammatiche potenziali. È, cioè, uno sfondo selet- tivo e filtrante che tende al perfezionamento nella scansione, quando assume quella ritmicità che rende l’espressione capace di restituire, in forma condensata, la misura e il passo dell’ambiente circostante. Più corretto sarà dire allora che nell’emozione si rispecchia la struttura della percepibilità e della percettualizzazione, ovvero l’inobiettivabile compagine olistica che, come campo di forze, governa l’aggregazio- ne e l’ordinamento del pattern percettivo, da cui si sviluppano anche eventuali costruzioni concettuali 16 . L’enucleazione di contenuti chiari e distinti si ottiene con un esercizio analitico che diminuirebbe in senso e incisività qualora dovesse recidere le proprie radici che si inoltrano nello sfondo da cui trae alimento. Come ogni forma è il profilo che assume un gioco fluido di forze che intramano una scena percettiva (cfr. AE, 147), così ogni elaborazione intellettuale – a prescindere da che sia finalizzata alla produzione artistica o alla conoscenza scientifica – non fa che restituire di scorcio l’intonazione qualitativa, la tonalità, che tinge i vettori di campo sospinti di volta in volta in primo piano, e che «non solo viene per prima, ma persiste quale substrato dopo che sono emerse distinzioni; esse infatti emergono come sue distinzioni»

(AE, 195).

5. Il riferimento alla tonalità non è rapsodico. Si deve prima di tutto al luogo schilleriano menzionato da Dewey nella pagina appena citata, che verte sulla Stimmung quale origine e condizione di possi- bilità di un’idea poetica 17 . Ha però anche una giustificazione di ordi- ne teoretico. Il registro metaforico che evoca svela che la dimensione uditivo-sonora occupa una posizione di tutto rispetto nell’indagine deweyana. Infatti, più che attraverso ogni altro senso, l’efficacia di forze che insistono prevalentemente sulla soglia di relazione tra organi- smo e ambiente costituita dal corpo si avverte attraverso l’orecchio. A differenza dell’occhio, l’orecchio è incompatibile con l’inclinazione al- l’ipostatizzazione. Per almeno tre motivi. L’orecchio non prescinde dal contesto, non isola profili di enti determinati, non sopporta l’ipotesi di soggettività disincarnate (cfr. AE, 233). La sua radicale contestualità è testimoniata dal fatto che l’ascolto avviene sempre in rapporto a uno scenario estetico (presente al limite come silenzio). Inoltre, l’ascolto è radicalmente anti-obiettivista poiché è l’accorgersi di cambiamenti come tali, ossia è proteso a fuochi oggettuali presenti nel campo uditi- vo solo come nuclei d’energia in interazione tra loro e con l’organismo.

Infine, il fatto che i suoni equivalgano alla presenza di corpi sonori, e

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non siano assimilabili a rappresentazioni mentali, smarca l’ascolto dal rischio di ipostatizzazioni soggettivistiche.

È nell’ordine uditivo che ci si confronta in grado estremo con l’in- tegrità antropologica. Il suono proveniente dall’esterno è al tempo stes- so riverbero interno di un’eccitazione fisica dell’organismo. In questa struttura triadica primitiva (fonte – organismo – riverbero) il segmento cruciale è il corpo. Con e in esso la fonte si tramuta in riverbero. In quanto ambito d’azione, confine e concerto di fare e subire, il corpo si mantiene all’interno di una dimensione funzionale che vieta di met- ter capo a entità sostanziali 18 . Avendo esclusivamente il carattere del mutamento, il fenomeno uditivo è intimamente congenere allo sfon- do qualitativo-emotivo a cui vuole accedere l’antropologia deweyana.

Di conseguenza, almeno dal punto di vista antropologico la musica diventa l’arte per eccellenza. Essa gestisce un mezzo espressivo che ha presa diretta sulle modalità d’andamento del sistema di energie efficaci nell’interazione esperienziale. Il tessuto musicale, infatti, non rappresenta ma incarna l’emozione – anzi, in gran parte si “limita”

a ciò, sfruttando il fatto che «i suoni hanno la forza dell’espressione emotiva diretta», dal momento che «un suono è di per sé, nella sua stessa qualità, minaccioso, lamentoso, rasserenante, deprimente, feroce, tenero, soporifero» (AE, 235).

In breve, nella dimensione uditivo-sonora la soglia relazionale, quali- tativa e modale diviene come tale esperienza, con il suo carico di minac- cia e promessa che assegna prospettiva futura al presente, e dunque im- prime il sigillo antropologico del possibile sul comportamento biologico attuale: «il suono è ciò che comunica quanto incombe, quanto sta per accadere, poiché è un’indicazione di quel che è probabile che accada.

Rispetto alla visione è molto più carico del senso delle conseguenze;

attorno a ciò che incombe vi è sempre un’aura di indeterminatezza e incertezza – tutte condizioni favorevoli a un’intensa eccitazione emo- tiva» (AE, 235).

6. Lo scandaglio obliquo delle dinamiche di sfondo effettuato da Art as Experience sfocia in elementi ben definiti. A connettere i due livelli, quello operativo e quello tematico, è un importante insieme di ibridi che esprimono la scansione mediante la quale le dinamiche dan- no luogo ad elementi. Tali concetti non sono propriamente tematici, nel senso che esprimono gli elementi solo in rapporto alle dinamiche che li informano. Nemmeno sono propriamente operativi, poiché espri- mono le dinamiche, a loro volta, solo in rapporto agli elementi che vi danno corpo. Così, anche se non definiti in maniera diretta, sono concetti che vengono esplicitati, svolti, nel corso della trattazione e che percorrono trasversalmente vari capitoli di Art as Experience. Concetti di tal genere sono “significato”, “medium” e “ritmo”.

La funzione contemporaneamente semi-operativa e semi-tematica di

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alcuni di questi concetti può essere illustrata mettendo a fuoco il modo in cui l’emozione (che in sé assorbe le dinamiche operative variamente alluse) prende profilo in una forma espressiva (che è un concetto tema- tico). Ciò capita, scrive Dewey, solo quando un’emozione «trae forma dai materiali afferrati e raccolti», poiché «un’emozione assume forma e viene spinta in avanti quando la si sfrutta indirettamente nel cercare materiale e nel dargli ordine, non quando la si consuma direttamen- te» (AE, 91). I concetti che mediano l’operatività dell’emozione nella tematicità della forma espressiva sono, in particolare, due. Da un lato quello di medium, che appunto designa il materiale in cui si realizza la forma, in cui si incarna l’espressione. Dall’altro, quello di significato, che indica la vettorialità impressa su contenuti, all’apparenza scalari, per effetto della “spinta in avanti” assorbita nell’emozione. La sinergia di medium e significato traduce un’emozione in costrutti che possiedo- no un rapporto più che strumentale con i mezzi di cui si servono per apparire, e che nella loro presenza tendono a un prima e a un dopo e pertanto, oltre a essere, significano 19 . Quando si concretizzano ricerca del materiale appropriato e conferimento di un ordine, la dinamica emotiva si pone in un rapporto produttivo con gli elementi fattuali dell’espressione, e gli elementi espressivi che appaiono in primo piano si pongono in un rapporto pregnante con la dinamica di sfondo.

Si dovrà quindi parlare di tre ordini di concettualità, il cui intreccio viene illustrato dallo stesso Dewey quando tenta di dare una definizione tematica dell’espressione sulla base del doppio cambiamento generato da medium e significato: «cose nell’ambiente che altrimenti sarebbe- ro solo alvei scorrevoli ovvero ciechi ostacoli diventano mezzi, media.

Al tempo stesso cose trattenute dall’esperienza passata che sarebbe- ro avvizzite per la routine o divenute inerti per mancanza di utilizzo, diventano coefficienti in nuove avventure e indossano la veste di un nuovo significato. Qui ci sono tutti gli elementi necessari per definire un’espressione» (AE, 83). L’espressione vive dell’interazione circolare tra mezzi e fini, e incorpora il proprio significato in quanto incarna la materialità vissuta degli ordini temporali. L’esperienza diviene allora un accadimento per l’uomo. In tal senso, la pratica che perfeziona questa funzione risulta essere l’arte come esperienza, e l’indagine volta a son- darla coincide con un’antropologia dell’esperienza estetica.

1 J. Dewey, Arte come esperienza, ed. a cura di G. Matteucci, Aesthetica, Palermo 2007 (da cui si cita d’ora in poi con la sigla AE).

2 E. Fink, Operative Begriffe in Husserls Phänomenologie, “Zeitschrift für philoso- phische Forschung”, 1957, pp. 321-337.

3 J. Dewey, The Development of American Pragmatism, ora in Id., The Later Works, vol. 2: 1925-1927, Southern Illinois University Press, Carbondale 1988, p. 17.

4 «Dalla prima manifestazione nel bambino dell’impulso a disegnare fino alle crea-

(19)

zioni di un Rembrandt, il sé si crea creando oggetti, fatto che richiede l’adattamento attivo a materiali esterni, compresa una modificazione del sé al fine di utilizzare, e pertanto superare, necessità esterne assimilandole in una visione ed espressione indi- viduale» (AE, 273).

5 In particolare, cfr. W. James, Esiste la “coscienza”?, in Id., Saggi sull’empirismo radicale, a cura di N. Dazzi, Laterza, Bari 1971.

6 Se ne veda il corrispettivo gnoseologico in J. Dewey, Logica, teoria dell’indagine, a cura di A. Visalberghi, Einaudi, Torino 1965 2 , p. 112.

7 Come Dewey scrive in Esperienza e natura (cfr. ed. it. a cura di P. Bairati, Mursia, Milano (1973) 1990, p. 142), «percepire significa riconoscere possibilità finora non rea- lizzate; significa porre in relazione il presente con delle conseguenze, con eventi finali e risolutivi, e perciò comportarsi in riferimento alle connessioni degli eventi». Implica dunque una “protensione” pragmatica dell’organismo, come viene spiegato in polemica con Bergson in Perception and Organic Action (ora in J. Dewey, The Middle Works, vol.

7: Essays on Philosophy and Psychology, 1912-1914, Southern Illinois University Press, Carbondale 1979, pp. 1-30).

8 Cfr. AE, 111. – Una significativa conferma della combinazione tra naturalismo e astrazione Dewey la ricava esaminando le riflessioni di Wordsworth su alcune sue prove giovanili, in cui si avvertirebbe già la ricerca di un naturalismo autentico in quanto sarebbero comunque evitate forme di obiettivismo dogmatico (cfr. AE, 161-162).

9 Cfr. J. Dewey, Esperienza e natura, cit., p. 280; e AE, 95. – Su queste basi appare possibile il confronto con l’antropologia dell’esperienza estetica delineata da Ernst Cas- sirer, incentrata appunto sul concetto di percettualizzazione (cfr. soprattutto E. Cassirer, Saggio sull’uomo, trad. it. di C. D’Altavilla, Armando, Roma 1968, p. 263; al riguardo mi permetto di rinviare a G. Matteucci, Ipotesi di una estetica della “forma formans”, introd.

a E. Cassirer, Tre studi sulla “forma formans”, Clueb, Bologna 2004, pp. 18-23).

10 Si veda la cornice di critica della società che apre e chiude Art as Experience (AE, 31-38 e 323-30). Questo intento educativo dell’estetica di Dewey viene esplicitato anche nella chiusura di un saggio sull’Affective Thought pubblicato nel 1926 sulla rivista della Barnes Foundation: «i dipinti, quando sono estratti dalla loro nicchia specializzata, sono la base di un’esperienza educativa, che si contrappone alle tendenze disgregatrici delle specializzazioni inviolabili, delle divisioni a compartimenti e delle rigide separazioni che confondono e vanificano a tal punto la nostra vita presente» (J. Dewey, Educazione e arte, a cura di L. Bellatalla, la Nuova Italia, Firenze 1977, p. 37-38).

11 “Condotta” è appunto per Dewey «un’interazione fra gli elementi della natura umana e l’ambiente naturale e sociale» (J. Dewey, Natura e condotta dell’uomo, a cura di L. Borghi, La Nuova Italia, Firenze 1958, p. 16).

12 Esemplare al riguardo la critica della nozione di “istinto” in Natura e condotta dell’uomo, cit., pp. 141-42 (passo ripreso e giudicato positivamente, non a caso, anche da Cassirer nel Saggio sull’uomo, cit., pp. 142-43).

13 Radicalizzando le medesime premesse anti-sostanzialiste, nella Logic del 1939 Dewey preferirà evitare di parlare, oltre che di sentimento e sensazione, anche di emo- zione, a cui sostituirà di fatto la locuzione «situazione qualitativa totale» senza tuttavia mutare la struttura della sua analisi (cfr. J. Dewey, Logica, cit., p. 113).

14 Cfr. anche J. Dewey, Esperienza e natura, cit., p. 279.

15 Sulla originarietà relazionale delle situazioni qualitative cfr. anche J. Dewey, Qua- litative Thought, ora in Id., The Later Works, vol. 5: 1929-1930, Southern Illinois Uni- versity Press, Carbondale 1988, soprattutto pp. 244-249. Ma cfr. anche Logica, cit., pp.

112-16. – Su questi argomenti si è soffermata di recente Roberta Dreon ricostruendo con chiarezza la nozione deweyana di esperienza, senza però rilevare l’operatività antropo- logica che caratterizza la posizione di Dewey, e dunque ammorbidendo il suo contrasto rispetto ad approcci ermeneutici e fenomenologico-linguistici, da Heidegger a Merleau- Ponty (cfr. R. Dreon, Il sentire e la parola, Mimesis, Milano 2007, pp. 55-73).

16 Si legge nel saggio del 1930 Qualitative Thought (cit., p. 259), in riferimento al

riconoscimento di identità formali: «la sola maniera in cui forma o pattern possono

(20)

18

operare come collegamento immediato è sfruttando il modo di una qualità direttamente esperita, qualcosa di presente e prioritario e indipendente rispetto a ogni analisi riflessi- va, qualcosa che ha la stessa natura che controlla la costruzione artistica».

17 Il medesimo passo è citato e commentato, in maniera assai affine a quella di Dewey, da Wilhelm Dilthey (cfr. Estetica e poetica, nuova ediz. ampliata, a cura di G.

Matteucci, Angeli, Milano 2005, pp. 163-64), proprio per sottolineare la funzione di sfondo tonale che compete all’emozione.

18 «I suoni vengono dall’esterno del corpo, ma il suono stesso è vicino, intimo; è un’eccitazione dell’organismo; sentiamo lo scontro delle vibrazioni attraverso tutto il nostro corpo. Il suono sollecita direttamente un mutamento immediato perché dà conto di un mutamento» (AE, 234).

19 Sul piano linguistico la vettorialità semantica viene camuffata dall’uso copulati- vo del verbo essere. Da qui una serie di equivoci che si ingenerano in particolare in riferimento alla “predicazione” di attributi qualitativi secondari e terziari. Al riguardo Dewey osserva: «è soltanto una peculiarità linguistica, non un fatto logico, che si dica

“questo è rosso” anziché “questo arrossisce”, sia nel senso di farsi, di diventare, rosso, sia nel senso di rendere qualcos’altro rosso. Anche linguisticamente il nostro “è” è una forma indebolita di un verbo attivo che significa “sta” o “si presenta”. Ma la natura di qualsiasi atto (designato dalla forma verbale precisa) è colta meglio nel suo effetto e nel suo esito; diciamo “è dolce” piuttosto che “addolcisce”, “è rosso” piuttosto che

“arrossisce”, perché definiamo il cambiamento attivo per il tramite del suo risultato

anticipato o conseguito» (J. Dewey, Qualitative Thought, cit., p. 252).

(21)

Emozioni e soggetti nell’espressione artistica:

il contributo di Dewey

di Roberta Dreon

L’idea che le arti siano espressive e che, anzi, la loro espressività sia proprio tra le caratteristiche che le rendono più interessanti è for- se una delle ovvietà più trasversali, comune alle concezioni estetiche più raffinate come alle opinioni più ordinarie dell’uomo della strada.

La questione si fa tuttavia estremamente intricata quando si cerca di comprendere che cosa il termine “espressione” significhi di volta in volta e, ancor più, allorché si tenta di chiarire quale ruolo vi assumano le emozioni individuali, la sensibilità o l’apporto dei singoli. Eppure nel corso del Novecento fino agli anni più recenti una serie di criti- che provenienti da vari fronti sembra avere mostrato l’inopportunità di questo tipo di categorie per comprendere e articolare i fenomeni artistici, ovvero la loro ascendenza dogmatica e dualistica.

Se l’ermeneutica ha dato un contributo decisivo contro le concezio- ni soggettivistiche dell’esperienza dell’arte, in particolare con la critica delle nozioni di Erlebnis, di differenziazione e di coscienza estetica, sul versante fenomenologico Merleau-Ponty ha proposto una interpreta- zione delle espressioni artistica e linguistica radicalmente innovatrici anche rispetto alla sua stessa provenienza culturale. Se Goodman ha operato un decisivo trasferimento del concetto di espressione sul pia- no delle relazioni di riferimento, gli argomenti di Wittgenstein con- tro il mito del linguaggio privato, contro le concezioni reificanti dei significati e quelle pittografiche del linguaggio, nonché nei confronti dell’opposizione tra interno ed esterno, sono stati variamente ripresi per evidenziare i limiti delle interpretazioni delle arti come espressioni soggettive.

Con questo tipo di strumenti concettuali e di argomenti filosofici è stata così rilevata la debolezza di concezioni dell’arte quale linguaggio delle emozioni indicibili di Susanne Langer, delle tesi di Collingwood e di Croce sull’intuizione estetica come espressione di emozioni, della assunzione di Santayana della qualità estetica quale oggettivazione o proiezione di uno stato soggettivo… Tra gli studi critici più recenti in questa direzione si possono ricordare quelli di Nigel Warburton, di Garry Hagberg, e più indietro nel tempo quello di Bouwsma, signifi- cativamente intitolato The Expression Theory of Art 1 .

Ci troviamo allora costretti ad abbandonare questo genere di cate-

(22)

20

gorie filosofiche per parlare di arte e a epurarne il lessico, in un modo o nell’altro metafisicamente pregiudicato?

Come è stato notato, l’approccio di Dewey al linguaggio della tra- dizione filosofica è sempre stato caratterizzato nel senso opposto, con tentativi costanti di reinterpretazione dei termini della tradizione, spes- so attraverso il ricorso agli usi del linguaggio ordinario, e sempre senza ignorare che anche le sue scelte lessicali non erano certo innocenti 2 . In particolare sul tema affrontato in questa sede, si è riconosciuto che Dewey è riuscito ad articolare una concezione dell’espressione artistica e dell’oggetto espressivo capace di prendere radicalmente le distanze dal «principio dell’espressione come estrinsecazione di sentimenti» 3 , di evitare la caduta nel dualismo della rappresentazione all’esterno di un contenuto a essa estrinseco e antecedente, non rinunciando tuttavia ad articolare la centralità della componente emotiva e del contributo individuale nei fenomeni espressivi. Questo è accaduto non solo at- traverso una profonda rielaborazione della nozione di espressione, ma anche per il tramite di una concezione dell’emozione, o meglio della qualità emotiva dell’esperienza, maturata in una direzione che tende nettamente a evitarne l’ipostatizzazione e l’attribuzione a un ambito psichico contrapposto alla dimensione fisica, ma anche una caratteriz- zazione in termini privatistici e al limite estranei alla razionalità e al linguaggio. La terza componente di questo ripensamento complessivo riguarda la reinterpretazione del soggetto, della mente e del sé indi- viduale nel corso esperienziale, in una concezione capace di sottrarsi alla contrapposizione tra dualismi e riduzionismi, nell’alveo di quel

“naturalismo culturale” professato e praticato dal filosofo americano.

1. Emozioni e stati mentali

Uno degli aspetti che caratterizzano la concezione dell’espressione

elaborata da Dewey è senz’altro la centralità che è attribuita alla com-

ponente emotiva, che ha generato, tuttavia, numerosi fraintendimenti,

primo fra tutti la polemica con Croce e i tentativi di ricondurre le

proposte del filosofo americano in materia di espressione artistica a

forme di idealismo “organico” 4 . Ma come è stato notato 5 , questo

genere di lettura trascura almeno un punto sul quale le indicazioni di

Dewey sono sempre state molto nette: la tesi che l’emozione non co-

stituirebbe il contenuto oggettuale espresso dalle opere d’arte, quanto

piuttosto funzionerebbe da principio di guida, controllo e selezione di

quei materiali sui quali l’atto espressivo esercita un’azione trasformatri-

ce. A ben vedere già in questa versione sommaria delle connessioni tra

emozioni ed espressioni sono racchiusi almeno due aspetti di profonda

discontinuità con la nozione crociana di arte: da un lato, appunto, l’as-

sunzione che l’espressione artistica equivalga all’intuizione di un sen-

timento, seppure purificato e reso universale, alla produzione di una

sua immagine, e dall’altro l’idea che questa immagine sia collocabile

(23)

in un ambito primariamente spirituale, mentale o psichico, indifferente in linea di principio ai materiali e alle tecniche artigianali nelle quali potrà successivamente ed eventualmente essere comunicato 6 .

Ma si tornerà più tardi su questi elementi, per fermarsi ora a con- siderare le componenti della concezione dell’emozione elaborata da Dewey.

Come era già stato sottolineato nel 1978 7 , occorre assumere una prospettiva continuistica e unitaria, seppure nel senso di una progressi- va maturazione e articolazione dei temi, sia nella interpretazione di Art as Experience rispetto al contesto più ampio dell’opera deweyana 8 , sia nel dettaglio sul tema dell’emozione, che non può essere confinata alle decisive, ma non numerose indicazioni che si riscontrano nell’opera del 1934. In particolare Whitehouse recuperava lo scritto giovanile The Theory of Emotion 9 , cui a mio parere vanno aggiunti un testo appartenente ai primissimi anni di quella che viene considerata la pie- na maturità del filosofo americano, What are States of Mind? 10 , oltre ad alcune importanti indicazioni del capitolo di Experience and Nature dedicato all’arte 11 .

Nel primo articolo menzionato Dewey propone una caratterizzazio- ne prevalentemente fisiologica dell’emozione 12 , definendola come una modalità di comportamento contraddistinta da una forma di tensione e di esitazione momentanea circa la risposta da dare a una determinata sollecitazione ambientale: a essere disturbata o momentaneamente so- spesa sarebbe la connessione unitaria tra attività senso-motorie, quali il vedere, il toccare, l’udire, e le attività motorio-vegetative del cuore, dello stomaco e degli altri organi interni, regolati dal sistema simpatico, che di solito risultano fuse in atti unitari, dai quali si originano risposte abituali per lo più non coscienti e comunque non tematiche. In certe circostanze questa unità verrebbe a rompersi in fasi apparentemente giustapposte, che richiederebbero una scelta tra più possibilità dispo- nibili per rispondere a quegli impulsi provenienti dall’ambiente che determinano una forma di disagio o di disorientamento nelle risposte abituali e consolidate.

Già a questo livello di elaborazione della questione il giovane filo-

sofo americano ritiene pertanto che l’emozione sia da intendere non

tanto in termini sostantivi, quanto come modalità o qualità di un com-

portamento e più in generale di una certa esperienza dell’ambiente, e

che sia appunto caratterizzata da una direzione latamente intenzionale,

ovvero che riguardi innanzi tutto non già la presunta interiorità pri-

vata del soggetto, ma le sue relazioni strutturali con l’ambiente, e in

particolare le sue modalità di risposta non abituali e ordinarie, in cui

interviene la necessità di una scelta sul da farsi; il terzo elemento che

ritornerà nelle interpretazioni dell’emozione proposte successivamente è

l’assunzione per cui le esperienze caratterizzate da una forte preminen-

za emotiva comporterebbero una qualche forma di presa di coscienza

(24)

22

delle componenti attive e passive che sono in gioco, vale a dire un approccio non diretto alla consumazione immediata dell’esperienza, ma a una considerazione in qualche modo riflessa delle sue compo- nenti soggettive e ambientali. In altri termini, già a questo stadio di elaborazione della questione le indicazioni di Dewey appaiono molto distanti sia dall’iscrizione del sentire emotivo in un ambito psichico o soggettivo primariamente privato, sia dalla contrapposizione dualistica tra l’affettivo o l’emozionale e l’intellettuale: come dirà in seguito il fi- losofo americano, l’emozione è un modo di coscienza perché comporta una tensione o una rottura di un comportamento responsivo ormai consolidato, che diventa pertanto consapevole o tematico, “riflessivo”

e non “immediato” 13 .

Nel successivo What are States of Minds? Dewey avvia la sua in- terpretazione, come gli accade di sovente, dall’analisi dell’espressio- ne “stato mentale” nel discorso ordinario, nel quale a suo parere si possono trovare indicazioni migliori rispetto a quelle di tanti tomi di epistemologia, che gli appaiono pregiudicati dai dualismi tra mente e corpo, nonché tra mente, soggetto o coscienza, da un lato, e mondo o realtà materiale, dall’altro. Nell’inglese colloquiale dire che qualcuno si trova in un determinato “state of mind” significa ritenere che egli assuma una certa disposizione comportamentale nei confronti delle cose e degli individui che gli stanno intorno – in particolare il riferi- mento è di solito a una forma di irritazione o almeno di impazienza nei confronti delle une e degli altri. Pertanto «Uno stato mentale è essenzialmente un atteggiamento o una disposizione emotiva, tale per cui questo atteggiamento o disposizione sono caratteristiche di certe condizioni di un agente organico» 14 .

Gli stati mentali non sono pertanto equiparati alle emozioni, ma riguardano «sensazioni, idee, immagini, volizioni e i cosiddetti stati di coscienza» 15 in quanto, prima di essere ipostatizzati in sostanze o anche solo in eventi psichici autonomi, si riferiscono ai modi in cui un organismo vivente è disposto nei confronti dell’ambiente circostante – modalità che sono caratterizzate da una certa qualità emotiva. Il ge- nitivo non va inteso in senso possessivo, come se un certo stato appar- tenesse a una certa dimensione speciale chiamata mente, ma nei termini di una qualità che permea una determinata esperienza, una particolare interazione tra un organismo e l’ambiente al quale esso appartiene, per cui si tratta di una disposizione che è percepita come tale, diventa cosciente come aspetto che caratterizza un sé individuale a causa della tensione emotiva che viene a crearsi.

Il punto fondamentale per Dewey è interpretare questo genere di

fenomeni a partire dal dato primario di ogni esperienza, il quale non

è costituito da una mente o da una coscienza separata e indipendente

da un mondo e da una realtà bruta e indifferente che si limita a offrirsi

come tale alle nostre percezioni, ma è di volta in volta una «moving

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complex situation» 16 in cui un organismo vivente si trova a lottare con un mondo dal quale dipende, dando risposte sempre interessate – a differenza delle entità inorganiche –, che contribuiscono a modificare l’ambiente circostante, su cui le sue azioni e le sue passioni retroagi- scono in una forma di adattamento reciproco e sempre dinamico. Se si prende avvio da questa situazione mediale, per così dire, in cui gli organismi viventi si trovano già sempre situati in relazioni di dipen- denza circolare da un mondo del quale sono al contempo una parte strutturale, si evitano secondo Dewey quei fraintendimenti fatali dei fenomeni mentali ed emotivi che danno per originarie la separazione tra un ambito psichico a se stante e un corpo meramente fisico, per cui diventa problematico spiegare come l’uno possa esercitare una azione causale sull’altro. Tra l’altro, il filosofo americano ritiene che in questo modo sarebbe stata sostenibile con maggiore efficacia la teoria dell’emo- zione sviluppata da William James, per cui le risonanze o i riverberi organici di una emozione non dovrebbero essere intesi quali conse- guenze a livello di espressione corporea di stati mentali antecedenti, ma come lo stesso «materiale mentale» 17 di cui sono costituite le nostre disposizioni emotive verso il mondo circostante: la concezione tradi- zionale secondo la quale una emozione o un sentimento determinano una certa espressione del volto o una certa postura come conseguenza esteriore o puramente fisica di uno stato interiore appare inattaccabile solo se si assume come dato primario il dualismo tra mente e corpo e tra organismo e ambiente.

Questo, d’altra parte, non significa che la discriminazione tra un organismo vivente, una mente individuale o un sé, e l’ambiente verso il quale è disposto in un certo modo non si dia o sia fallace. Significa in- vece per Dewey che si tratta di una differenziazione derivata rispetto a una interazione e a una interdipendenza circolari – e in particolare, nel senso che il discriminare interviene come un tipo di esperienza riflessa rispetto a quella immediata dell’interconnessione reciproca organico- ambientale, rispondente all’esigenza di considerare analiticamente le componenti della interazione che sta avvenendo, per poter controllare più efficacemente i rapporti tra mezzi e conseguenze quando gli abiti di risposta consolidati diventano problematici e si crea una tensione emotiva sul da farsi, che porta ad assumere consapevolemente l’intri- co del tessuto esperienziale. Tra l’altro, questo tipo di interpretazione rende evidenti i limiti di una caratterizzazione dell’emozione in termini irrazionali o ineffabili: come si sostiene in The Quest for Certainty, se

«L’aspetto emotivo di un comportamento responsivo è la sua qualità

immediata» 18 , questo vuol dire che una situazione di tensione circa il

da farsi viene senz’altro esperita o vissuta come tale, ma non è sepa-

rabile dalla esigenza di una considerazione riflessa per uscire dall’im-

passe che si è creato, ovvero non è nettamente districabile dall’analisi

che essa avvia delle componenti in gioco nell’esperienza immediata

(26)

24

della tensione, che proprio come tale ne produce una prima forma di consapevolezza.

Lo scritto del 1912 si conclude attribuendo la genesi e il successo dell’ipostatizzazione del mentale o dello psichico, da un lato, e del corporeo e del meramente fisico dall’altro lato, insieme alla loro indivi- duazione come dati primari, a motivazioni di matrice sociale e religio- sa, oltre che a un certo autocompiacimento isolazionistico tipico delle forme d’arte drammatica e letteraria, ma anche di tanta psicologia.

Il capitolo del volume del 1925, intitolato Experience, Nature and Art, riprende il tema dell’emozione brevemente, ma con un intervento decisivo, che mette in discussione l’interpretazione tradizionale dell’arte come espressione delle emozioni, e in particolare l’implicazione che essa porta con sé per la quale un’opera d’arte autentica comporterebbe la riduzione dei materiali e dei mezzi in cui essa si realizza a meri stru- menti esteriori di esternazione di una emozione già data in altra sede 19 . Di nuovo la critica di una simile concezione dell’arte si rifà al significa- to della parola emozione nella vita e nel linguaggio quotidiani:

L’emozione infatti nel suo senso ordinario è qualche cosa che viene chiamato in causa da oggetti, fisici e personali; è una risposta a una situazione oggettiva. Non è qualcosa che esista di per sé in un qualche stato e che poi adoperi del materiale attraverso cui esprimersi. L’emozione è il segno indicatore dell’intima partecipazione, in modo più o meno vivace, a qualche vicenda della natura e della vita; l’emozio- ne è per così dire un atteggiamento o una disposizione che è funzione delle cose oggettive 20 .

L’assunzione per cui l’emozione costituirebbe innanzi tutto il dato di una coscienza individuale a se stante, autonoma dal mondo nel quale potrebbe in seguito rintracciare i materiali per essere resa pubblica, contraddice la sua caratterizzazione nel discorso ordinario, in cui ap- pare evidente che abbiamo paura di qualcosa, gioiamo per un certo incontro, ci preoccupiamo per la nostra vita o avvertiamo una forma di repulsione nei confronti di un certo atteggiamento… In altri termini, piuttosto che uno stato mentale chiuso in una dimensione interiore, l’emozione è assunta nella nostra vita quotidiana come qualità o come modalità di risposta a una certa situazione nella quale viviamo e rivela, al contrario, proprio la nostra esposizione strutturale all’ambiente.

Art as Experience ritorna su questo aspetto, sottolineando come

l’emozione riguardi un sé, ma gli appartenga solo in quanto «è coin-

volto nel movimento degli eventi verso un esito che si desidera o che si

avversa» 21 . Pertanto non c’è alcuna necessità che un soggetto proietti

le proprie emozioni sulla natura, poiché questa è esperita immediata-

mente come avversa, ostile, o favorevole, a seconda dell’accento su cui

cade il ritmo dell’interazione che costituisce di volta in volta l’organi-

smo individuale. Questo diventa appunto un individuo, un sé anche

grazie alle qualità emotive delle esperienze che va compiendo, poiché

(27)

esse segnalano appunto delle rotture nel ritmo di integrazione con l’ambiente, che diventano pertanto consapevoli 22 .

Una precisazione ulteriore riguarda la distinzione tra mero conato ed emozione: a differenza del primo che offre una risposta istintuale, quasi automatica alle sollecitazioni ambientali, la seconda ha una quali- tà significativa che la caratterizza immediatamente proprio nella misura in cui comporta un riferimento intenzionale o oggettuale in senso lato, ovvero segnala il conforto o il pericolo che una determinata situazione offre o impone a un sé.

Ma l’aspetto che viene articolato con maggiore ampiezza nel volu- me del 1934 riguarda il ruolo di guida, di selezione dei materiali, di controllo e di tenuta unitaria dell’emozione nell’ambito dell’espres- sione, e di quella artistica in particolare. Prima di affrontare questo tema, è però opportuno fornire alcune precisazioni sulla posizione del sé che appare pur sempre coinvolto emotivamente nelle esperienze che va compiendo e al quale Dewey riconosce una funzione comunque decisiva nell’espressione artistica.

2. Soggetti, menti e coscienze

Ai temi del soggetto, del sé individuale, della mente, della coscienza è dedicato il sesto capitolo di Experience and Nature, intitolato “Natu- re, Mind and the Subject”, cui si devono aggiungere alcune indicazioni del successivo ottavo capitolo, “Existence, Ideas and Consciousness”.

Il testo esordisce con una presa di posizione netta rispetto alle istanze del soggettivismo di matrice idealistica, ma anche nei confronti delle forme coscienzialistiche di interpretazione dell’esperienza: «La personalità, l’essere un sè, la soggettività sono funzioni di eventi che emergono con il costituirsi di interazioni organiche e sociali in intera- zioni organiche e sociali organizzate in modo complesso» 23 .

Fin dal primo approccio alle questioni Dewey vuole sottolineare che le individualità soggettive non si situano all’inizio di un processo di costituzione del mondo, ma nemmeno dell’esperienza, poiché si configurano piuttosto quali fattori che si costituiscono all’interno del- l’esperienza stessa, delle interazioni con un ambiente che è naturale e naturalmente condiviso e pubblico. In particolare, inoltre, è necessa- rio che le interazioni in corso abbiano raggiunto un grado di grande complessità, tale da comportare quelle forme di consapevolezza delle parti coinvolte nei processi di godimento o di sofferenza immediata, che sono costituiti già dalla sensibilità emotiva e dall’analisi riflessiva che ne consegue. È in questo senso che risulta sostenibile la differenza decisiva dell’individualità umana pur nell’ambito dell’assunzione della sua continuità profonda con i processi naturali da cui insorge e a cui risponde 24 .

Questo non significa – e la cosa ha una forte rilevanza nell’ambito

dell’espressione artistica – che i soggetti non siano riconosciuti come

(28)

26

fattori rilevanti e anzi decisivi per l’esperienza umana, ma ne implica l’interpretazione quali «agent[i] di nuova ricostruzione di un ordine pre-esistente» 25 . I sé, in altre parole, si situano in una posizione mediale nell’ambito di transazioni che stanno già accadendo e che generalmente hanno già assunto una qualche forma di equilibrio mobile ma consoli- dato. Sono eventi che sopravvengo non già rispetto a una realtà in sé, né rispetto all’esperienza tout court, quanto nei confronti dell’espe- rienza che procede per lo più senza intoppi, per cui «In primo luogo e in prima istanza non è esatto né rilevante dire ‘io esperisco’ o ‘io penso’. ‘Si’ (It) sperimenta o si è esperiti, ‘si’ pensa o si è pensati sono espressioni più appropriate» 26 . Nell’interazione esperienziale il singolo individuo emerge come tale da forme di esperienza “prepersonali”, per ricorrere al termine usato da Mereleau-Ponty 27 , quando si sente chia- mato in causa in prima persona da quello che sta facendo o vivendo, perché si trova in una situazione di incertezza o di indeterminazione tali da fargli riconsiderare riflessivamente ciò che sta esperendo e da fargli dunque assumere consapevolmente la propria individualità. Dire

“io” vuol dire impegnarsi in una cura, addossarsi una responsabilità in vista di certe conseguenze, non significa esserne l’autore, la sorgente, il primo della costituzione: «Dire in modo significativo ‘Io penso, credo, desidero’, invece di limitarsi a dire ‘si pensa, crede, desidera’ significa accettare e dichiarare esplicitamente una responsabilità e avanzare una pretesa. Non significa che io sia l’origine o il creatore del pensiero o dell’affezione, né che l’io ne sia la sede esclusiva» 28 .

L’io emerge dunque come un fenomeno naturale e sociale al con-

tempo, intervenendo come evento che accade a un organismo coinvolto

nell’esperienza dell’ambiente da cui dipende e rispondendo alla istanza

sociale di rendere conto di certe azioni, di attribuire delle responsabi-

lità rispetto agli esiti di certe attività. Da un lato, pertanto, la mente

non deve essere intesa come qualcosa di primariamente individuale, ma

si costituisce come tale socialmente: è «un sistema di credenze, rico-

noscimenti, omissioni, assunzioni e rifiuti, aspettative e apprezzamenti

di significati che sono stati istituiti sotto l’influsso del costume e della

tradizione» 29 – non è invece il polo da cui si diparte una percezione

o un’osservazione del mondo là fuori, già costituito come tale. D’altra

parte, la struttura partecipativa dell’esperienza umana, radicata nel lin-

guaggio, consente di distinguere tra la mente e il sé, tra possibilità e

modalità di comportamento comuni e relazioni riflessive, che risultano

pertanto derivate nella misura in cui l’accento cade innanzi tutto sui

rapporti tra sé e il mondo, e in particolare con gli altri sé dai quali

ci si può o ci si deve distinguere – la riflessività non è in altri termini

una questione che si giochi nei recessi privati di una coscienza isolata

e autonoma, ma nasce come istanza di differenziazione, di riconosci-

mento e di assunzione di responsabilità nell’alveo di esperienze e di

attività partecipate 30 .

(29)

Dire di una percezione, di un riconoscimento, di un certo compor- tamento che è soggettivo significa allora sostenere che mi appartiene, che mi coinvolge in prima persona e che posso essere tenuto a rispon- derne, non che per questo non dica qualcosa del mondo di cui faccio esperienza – come se si dicesse che, poiché l’attributo di quella casa è di essere mia, allora la mia proprietà impedisce alla casa di essere come essa è in sé. In altri termini, dal riferimento soggettivo di qualcosa non si può inferire la negazione della sua struttura intenzionale.

Experience and Nature sostiene che le esagerazioni del soggetti- vismo – che dunque segnalano pur sempre un fenomeno autentico, sebbene lo fraintendano – sorgerebbero storicamente nell’Umanesimo in contrasto con il primato divino tipicamente medievale, ma in par- ticolare dalla dottrina medievale per cui la salvezza (o la dannazione) riguardano l’anima individuale. Ma il nodo centrale del travisamento concerne l’assunto della separazione del soggetto dall’oggetto quale dato primario, la concezione per cui ciò che è esperito è inteso come indipendente dal modo in cui è esperito e i modi di esperienza del mondo sono separati e determinati autonomamente rispetto al mondo di cui fanno esperienza.

I contributi successivi su questo tema sono improntati soprattut- to a intendere il fenomeno in termini non sostantivi, come la qualità mentale che sarebbe tipica di relazioni organico-ambientali a elevato grado di complessità e di libertà, e a sottolinearne l’apertura strutturale al mondo, di contro al modello tradizionale in cui è interpretata pre- valentemente come un ambito privato – o all’estremo opposto è intesa in termini fisicistici, attraverso una riconduzione di tipo riduzionistico ai fenomeni neurofisiologici, per dissolvere le difficoltà del solipsismo soggettivistico e della sostantivizzazione delle rappresentazioni menta- li 31 . The Quest for Certainty propone allora di considerare la mente come la qualità tipica di un insieme di risposte – emotive, deliberative, intellettuali – all’incerto che caratterizza solo la vita umana, poiché gli esseri inanimati non sono in grado di reagire alle cose come problema- tiche, ma si limitano a reazioni standard. Solo organismi dotati di una struttura complessa e che si trovano a interagire con un ambiente al- trettanto complesso avvertono la problematicità delle cose, l’incertezza sul da farsi, con forme di consapevolezza che vanno dalle modalità più emotive a quelle in cui la componente intellettiva diventa dominante.

L’intelligenza risulta pertanto una componente della mente: è la qualità che un’esperienza assume quando si affronta esplicitamente un pro- blema, quando si tratta di mettere in atto una strategia per migliorare una interazione con l’ambiente, poiché quella attuale non funziona ordinariamente e diventa perciò problematica e cosciente.

In Art as Experience la necessità di evitare la reificazione e l’isola-

mento della mente in un ambito psichico separato si appella agli usi

linguistici ordinari, dai quali risulta evidente, da una lato, la compo-

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