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Arte ed esperienza. Dopo Dewey

Nel documento Esperienza esteticaA partire da John Dewey (pagine 177-197)

di Fulvio Carmagnola

Essere giusti con Dewey

Che significa “dopo”? Qualcuno (De Duve) ha scritto per esempio che ci sarebbe un Kant “dopo Duchamp”. Ci sarebbe un evento del-l’ordine dell’arte che in qualche modo ha plasmato o influenzato con la sua portata il proprio futuro e insieme il proprio passato teorico. Ma il “dopo Dewey” in fondo lo possiamo vedere in una prima accezione abbastanza facilmente: basta guardare pellicole recenti come Good night

and good luck o il più recente Michael Clayton per constatare l’influenza

duratura del pensiero e dell’atteggiamento laico-progressista e sincera-mente democratico – con la sua critica alle ingiustizie e l’ideale di una società migliore – radicato nei liberal americani, e di cui Dewey è stato certamente un insigne rappresentante.

E tuttavia, “dopo” può implicare anche una domanda scomoda: dove ci troviamo oggi? Siamo ancora lì? La mia impressione generale di sorvolo, dopo la lettura di Art as Experience, è che Dewey guardi all’indietro come l’angelo di Benjamin. Mi spiego: forse nelle arti figu-rative (prendiamo la pittura come pietra di paragone) possiamo leggere Dewey tenendo presenti artisti come Grant Wood o Wyeth. Forse Giorgia O’Keeffe, forse Hopper, e cosi via. È possibile che una figura emblematica sia quella dei due anziani coniugi che si trova in American

Gothic (1930), non a caso un’immagine che ritroviamo sulla copertina

di un’edizione italiana dell’Antologia di Spoon River, celebrazione dello spirito della comunità originaria dei pionieri del Nuovo Mondo…

Non è una critica ma una constatazione. Eppure, mentre Dewey sviluppa le sue riflessioni sull’arte come punto più alto dell’esperienza umana, è già avvenuta la rivoluzione duchampiana: la posizione rispet-to all’oggetrispet-to-opera è già cambiata in modo irreversibile e la nozione di bellezza come equilibrio è già tramontata, l’arte “retinica” è in discus-sione e in letteratura la “rutilante gioielleria barbara” della scrittura di Joyce ha già compromesso l’idea del linguaggio come rappresentazione del mondo là fuori. Che ne è di Dewey d’aprés Duchamp, o d’aprés

Joyce, forse si potrebbe chiedere allora.

Naturalmente la spocchiosa domanda su “ciò che è vivo e ciò che è morto” è del tutto ingiustificata perché presuppone che, seduti sulle spalle del gigante, noi lo possiamo giudicare da lì, con una certa

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dità di posizione. Tuttavia più giustificata, a mio avviso, sarebbe una domanda alla Foucault, voglio dire una domanda in stile archeologico o genealogico: a quale “formazione discorsiva” appartiene Dewey? Che cosa, restando immanenti alle sue categorie, possiamo o non possiamo vedere del suo stesso presente – piuttosto che misurarlo anacronisti-camente con il nostro? Occorre insomma misurare una distanza e in-sieme farlo generosamente. Al “dopo” dell’influenza e della continuità accoppiare un “dopo” che misura delle discontinuità. Ma una distanza c’è e va presa in considerazione.

La prima domanda

Proverò allora a formulare una prima domanda: di quale formazione discorsiva fa parte la parola “esperienza” nel pensiero di Dewey? Con che cosa si combina, a che cosa la si può opporre o commisurare – per esempio, al dibattito sulla perdita dell’esperienza che anima le pagi-ne, di poco posteriori, della Dialettica dell’illuminismo (1947) o quelle, contemporanee all’opera di Dewey, di Walter Benjamin? E perché, nel suo sistema di pensiero, la nozione di “arte” diventa necessariamente il punto apicale dell’esperienza umana? Una domanda complessa alla quale non so se sarò in grado di dare risposta, ma almeno resterà for-mulata. Eccone lo schema:

– che cosa significa “esperienza” per Dewey;

– a quale formazione discorsiva o concettuale appartiene;

– perché la nozione di “arte”, così come Dewey la formula, ne è necessariamente il punto apicale;

– quali parentele rivela e quali altre costellazioni di pensiero le possiamo ragionevolmente opporre.

Si tratta insomma di riflettere sulla coerenza del testo e di chiarirne i presupposti. Solo in seguito potrà essere formulata la seconda domanda: che ne è di noi ora, “dopo Dewey”, anche nel senso banale che ci tro-viamo in un punto differente dell’asse del tempo storico. Solo un’analisi immanente ci metterebbe al sicuro dalla presunzione, poniamo, di avere ragione “contro” di lui o di essergli semplicemente estranei come se il suo tempo non fosse più il nostro… presunzione alla quale farebbe eco una speculare: di poter dare giudizi sul nostro presente (sull’arte e l’esperienza estetica in particolare) usando le categorie di Dewey come un metro normativo. Insomma usare Dewey per dire, magari: questa è “arte”, questa no – oggi.

Comunità

La mia ipotesi è che la parola chiave per capire Dewey sia la pa-rola “comunità”. La usa parecchie volte nel testo. Proverò a ricordare sommariamente lo spazio concettuale circoscritto dalla terminologia, dal lessico. Questo spazio è delimitato da alcune parole chiave. Tro-viamo da un lato la costellazione che chiamerei ascendente: movimenti

dell’animale vivente/esperienza strutturata/arte – e dall’altra la costel-lazione critica: separatezza/astrazione/squilibrio.

Nella prima, la forma diventa allora il punto apicale di una continui-tà, di una sequenza naturalistica che parte dall’impulso, “stadio iniziale di ogni esperienza compiuta”. È qualcosa di simile forse al Trieb freu-diano o più indietro al conatus di Spinoza. È questo elemento primario che spinge l’esperienza verso la sua definizione.

Ma alla base naturalistica si accoppia strutturalmente un vertice dove intorno alla forma si accumulano i caratteri di una semantica classica: compimento, equilibrio, realizzazione, ordine, totalità. Così «l’esperien-za estetica è esperien«l’esperien-za nella sua integrità» (Dewey, p. 266) o al suo grado più alto, e naturalmente in questa luce l’arte può rappresentare ancora, come nella tradizione occidentale, «la più grande realizzazione intellettuale della storia dell’umanità» (p. 51).

Se ora ci domandiamo dove collocare questa costruzione, dovrem-mo parlare di una versione naturalizzata e critica dell’umanesidovrem-mo, la cui comprensione dei fenomeni specifici dell’arte si spinge (solo) fino a un certo punto della contemporaneità. Fino al punto, direi, in cui qualcosa come un’“opera”, con i caratteri tradizionali appena elencati: chiusura formale, equilibrio, bellezza, carattere intuitivo o «presenta-zionale» (S. Langer) è ancora individuabile. La bellezza, scrive Dewey, «denota la presenza evidente di relazioni di adeguatezza e reciproco adattamento tra i membri dell’intero […] manifestazione di una pro-porzione armonica tra parti» (p. 141).

Cerco di ricostruire sommariamente quel che mi pare uno schema generale molto chiaro:

– l’essere vivente ha un rapporto primario con il mondo, costituito dalla genesi senso-motoria dell’esperienza nel vissuto pre-linguistico (es. p. 243: «l’esperienza è una questione di interazione dell’organismo con l’ambiente circostante»);

– questa è la base dell’universalismo o della “costituzione comune”: diremmo il lato naturalistico della nozione di “comunità” il cui altro lato complementare è il sociale, l’interazione sociale;

– l’esperienza appare come il progressivo perfezionamento dei pro-cessi vitali elementari, la sua organizzazione sistematica: «un’unione integrale di qualità sensoriale e significato in una sola tessitura com-patta» (p. 254);

– l’arte che ha la capacità di «rendere intensa e concentrata l’espe-rienza» (p. 255) è il culmine questo processo, non il distacco da esso: è una qualità specifica dell’esperienza, che si caratterizza non per la discontinuità ma per l’intensificazione – così, da un lato la forma è «un movimento ordinato della materia dell’esperienza verso un compi-mento» e dall’altro l’arte porta a realizzare compiutamente l’esperienza della vita-in-comune: «la continuità della cultura […] è determinata dall’arte più che da qualsiasi altra cosa» (p. 312).

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Posta in questo modo la questione, si potrebbe pensare a una pura positivizzazione – e tuttavia l’altro lato è rappresentato da un’istanza critica: alla condivisione si oppone la “separazione” indotta dalle condi-zioni sociali specifiche (Dewey non usa il termine marxiano alienazione): «arte e vita della comunità» sono in contrasto con «le attuali condizioni […] il fatto significativo è la diffusa disgregazione […] (si tratta di) restituire un posto organico all’arte all’interno della civiltà […] in una unione immaginativa coesa e integrata» (p. 320).

Proprio perché l’arte è il punto culminante dell’esperienza, a essa va restituito un posto “organico” nella vita sociale. Non c’è arte sen-za il movimento del vivente, ma nemmeno sensen-za vita della comunità sociale. Il punto di originalità di Dewey mi pare proprio questo, la congiunzione o la continuità esperienziale tra i due lati del vivente e del sociale, come stadi di un unico processo. Ecco allora la doppia posizione dell’arte: critica della separatezza e dimostrazione delle pos-sibilità di unificazione, sotto forma di prefigurazione «ideale» (p. 271) – o forse si potrebbe dire “idealtipica” – di una condizione liberata dell’esperienza: «i valori che portano a produrre l’arte e a goderne in maniera intelligente devono essere assimilati nel sistema delle relazioni sociali […] possibilità che sono irrealizzate e che potrebbero realizzarsi […] l’arte è un tipo di predizione […] e delinea possibilità di relazioni umane» (pp. 326-30).

Segnalo la contrapposizione frontale: “unificazione” (dell’esperien-za) versus “separazione”: una società libera è, per cosi dire, una co-munità sociale estetizzata.

Vorrei anche ricordare alcune analogie o derive di pensiero che traspaiono dal testo: lo Schiller delle Lettere e il Marx dei Manoscritti sembrano le più immediatamente visibili. Più interessanti, sul versante “naturalistico”, è l’analogia con concezioni che troveremo molto tempo dopo in una corrente innovativa del pensiero della complessità rappre-sentata in particolare da Maturana e Varela: la cognizione è intimamen-te legata allo sviluppo dei processi sensomotori del vivenintimamen-te.

Colpisce poi l’analogia con le posizioni sistemiche di un pensatore eclettico e eterodosso come Gregory Bateson. Quando Dewey parla dell’intelligenza come «percezione di una relazione» (p. 70), o afferma che «è il modo in cui la cosa è connessa che conta» (p. 178), viene alla mente la definizione di comportamento estetico che si trova in Bateson: «per estetico intendo sensibile alla struttura che connette» (pattern

which connects) (Bateson, 1979, tr. it. 1984 p. 22; cfr. anche Manghi,

2007, p. 74). E quando Dewey ricorda che «la mente» non deve es-sere sostanzializzata metafisicamente ma trattata come «un verbo», o «uno sfondo costituito dalle modificazioni del sé […] dagli scambi con il mondo […] uno sfondo esperienziale […] di cui la coscienza è il primo piano» (pp. 258-260) non si può non ricordare la definizione di mente sistemica che si trova nei saggi di Steps to an Ecology of Mind.

Dunque da un lato la naturalizzazione dell’esperienza valica il ri-stretto orizzonte antropomorfo, è il riconoscimento dell’appartenenza dell’umano alla natura. Ma dall’altro l’esperienza culmina comunque nell’umano, e connette il singolo alla comunità come forma di sentire comune, in una sorta di religione laica, civica.

Natura e comunità civile sono i due estremi di un continuum, nel quale l’arte diventa la forma più alta della dimora, dell’appaesamen-to. Noi “in-abitiamo il mondo” e l’arte è apparizione nelle opere di un mondo possibile liberato dalla “separazione”: «[…] in-abitiamo il mondo. Esso diventa una dimora […] l’arte toglie il velo che nasconde l’espressività delle cose esperite; li distoglie dall’indolenza della routine […] le opere d’arte sono i soli media capaci di una comunicazione completa e non ostacolata tra uomo e uomo […] in un mondo pieno di abissi e pareti che limitano la condivisione dell’esperienza» (pp. 119-20).

Ripeto: l’originalità di Dewey mi pare quella di aver coniugato un asse genetico di continuità (la matrice naturalistica dell’esperienza nel-l’organismo o nella creatura: termini che verranno non a caso usati appunto da Bateson e che ricordano «l’animal vivente» di Galileo) con un asse critico-ideale: il compimento estetico dell’esperienza nell’ope-ra che si presenta come Idealtypus di una possibilità contenuta nella

natura umana e frenata dalle condizioni sociali. Ne deriva, ripeto, il

carattere tradizionale della forma estetica implicata da questa coniu-gazione: compimento, senso intensificato, bellezza percettiva eviden-te. Naturalismo e umanesimo compaiono insomma come le premesse complementari del terzo asse, quello fondamentale.

Due versanti della critica?

Sarebbe qui il caso di toccare il quarto punto della mia domanda: con quale altra teoria estetica possiamo ragionevolmente confrontare questo sistema di pensiero? Viene in mente immediatamente la Teoria critica almeno nelle versioni di Benjamin e poi di Adorno, perché an-che qui si sviluppa un ragionamento sull’esperienza.

Vorrei tornarci sopra alla fine, e anticipo solo un’osservazione. Se l’esperienza per Dewey è, per cosi dire, il bagaglio naturale del vi-vente e viene vista nel modo della continuità, al contrario per la Teo-ria critica c’è una grande faglia che non permette alcuna continuità: l’esperienza è, diremmo, la promessa non mantenuta della modernità e dell’illuminismo. Questa differenza si manifesta in due teorie della forma artistica radicalmente differenti: per la prima, la forma sta in continuità con la classicità e con il primo moderno – per la seconda la bellezza e l’intero devono cedere il posto all’espressione della frattura e al valore testimoniale dell’arte.

Potrei azzardare che in un certo senso Dewey e Adorno (o Ben- Ben-jamin) si fronteggiano come i due versanti di un’estetica critica: anti-) si fronteggiano come i due versanti di un’estetica critica:

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cipatrice o dialettico-negativa. Ma anche: la nozione di esperienza di Dewey “vede meglio”, per cosi dire, fino a un certo punto dell’evo-luzione delle arti. Basta consultare l’indice dei nomi del suo libro per rendersene conto. Mentre Adorno (e Benjamin) si trovano al centro di quella fase dello sviluppo delle arti dove più radicale appare la nega-zione della “buona forma”. Un presente che era già quello di Dewey ma che nella sua teoria non viene pienamente raccolto.

La realizzazione ironica

La condizione culturale alla quale Dewey appartiene, e che ho cer-cato rozzamente di richiamare, è ancora la nostra? Dove ci troviamo oggi rispetto a questa costellazione di pensiero? Che valore critico ha oggi l’umanesimo di Dewey? Ma soprattutto: che cosa vediamo, ma anche, che cosa non riusciamo a vedere, se guardiamo con gli occhi di Dewey? Vorrei solo toccare due punti specifici che chiamerei “realiz-zazione ironica” e “eteronomia sistemica”.

È stata recentemente sollevata la questione doppiamente proble-matica della universalità e dell’esemplarità dell’arte – questione che tocca da vicino i temi di Dewey. Secondo questo punto di vista l’arte non sarebbe «un termine primitivo, dotato di uno statuto sostanziale». La sua origine deve essere identificata in «un insieme di artefatti ed esperienze determinate a cui, dal xviii secolo in poi, si è convenuto di dare il nome di arte». Dunque non sarebbe garantita la conservazione della sua esemplarità in condizioni storiche mutate, in quanto essa va intesa come «un nome che appartiene al vocabolario della moderni-tà» (Montani, 2007, pp. 10-11). Concordo con questa impostazione e vorrei riprendere la questione da un punto di vista differente ma, credo, complementare.

In primo luogo, a mio parere è avvenuta (riprendo qui osservazioni che si possono già trovare in Baudrillard) una sorta di realizzazione ironica dei teoremi critici modernisti enunciati da Dewey, che dunque vedono sfocarsi il loro valore ideale critico e anticipativo. Ne consegue che l’esperienza non è più un definiens ma un elemento problematico, e che l’arte non è più di per sé il valore da contrapporre, la sporgenza rispetto al mondo della “separazione” – anzi si è pienamente realiz-zata, in maniera ironica, la sua profonda “integrazione” con il mondo mercificato. Come tale oggi l’arte non è più il centro o il punto apicale dell’esperienza ma semmai il punto (locale o regionale) di un com-plesso che si potrebbe definire come “immaginario mediale” connesso inestricabilmente al mondo delle merci e non contrapponibile a questo. Chiamo “ironica” questa realizzazione perché a mio parere cambia il segno delle affermazioni di Dewey se le rileggiamo alla luce di ciò che sta accadendo.

Senza alcuna acrimonia, si potrebbe osservare infatti che in un cer-to senso gran parte dei valori che in Dewey assumono la posizione di

ideale critico si sarebbero realizzati con il segno cambiato, nella cultura del “terzo capitalismo”. Che non è più la società dell’omogeneità stan-dardizzata e della macchina seriale ma della smart machine (The Age of

the Smart Machine, suona appunto il titolo di un best seller di qualche

anno fa). Alcuni esempi con riferimento al testo deweyano possono illustrare questa circostanza:

– la cultura come «espressione naturale della vita collettiva» (p. 36) si realizza nei profili di «vita artistica» di cui si adornano i mana-ger creativi (Perniola, 2002) e nella popolarizzazione attuata nello stile para-televisivo dell’orgia di festival. C’è un festival per tutto – dalla scienza alla formazione aziendale – e davvero l’alta cultura pare fare a gara per popolarizzarsi e presentarsi in modo agibile, agevole, fruibi-le, non distaccato. La divulgazione è il modello vincente della cultura attuale;

– la «connessione sociale» e la fine della scissione tra produttore e consumatore che doveva ripristinare la continuità dell’esperienza este-tica con i processi naturali del vivere (p. 37) si realizza nella figura del consumatore come nuovo produttore inconsapevole – un lavoratore che non sa di lavorare, come recitavano i Situazionisti – nell’ambiente pervasivo del nuovo marketing virale;

– l’esperienza estetica pare realizzarsi in una pratica di consumo che poco ha a che vedere con la pura funzionalità strumentale o fun-zionalità rispetto allo scopo (Weber), come voleva Dewey. Proprio nel consumo postindustriale la forma dell’oggetto «viene svincolata dall’es-sere limitata a un fine specifico e serve anche agli scopi di un’espe-rienza immediata» (Dewey, p. 130); proprio qui e pienamente all’in-terno delle regole del marketing “esperienziale” appunto, l’esperienza estetica si quotidianizza, e smette di essere «il salone di bellezza della civiltà» (p. 325);

– l’esperienza come un “questo”, una singolarità, per la quale Dewey ha espressioni precise e pregnanti – quel pasto, quella tempesta (p. 62) – non si realizza forse ironicamente nelle pretese del marketing esperienziale (Ferraresi, Schmidt, 2006) che punta precisamente su una sorta di intensificazione del valore d’uso nella declinazione estetica post-industriale del “piacere”? “The Ardbeg Experience” si legge appunto nel claim di una nota (e peraltro eccellente) marca di Malt scozzese;

– e la concezione tradizionale della separatezza tra «lavoro» e «pia-cere» (p. 258) non viene forse smantellata dall’insistenza attuale sulle nuove dimensioni lavorative ad alta densità creativa e cognitiva nell’am-biente del terzo capitalismo (Boltanski-Chiapello, 1999)? La liberazione del lavoro, scriveva Dewey, è il «prerequistito essenziale della soddisfa-zione estetica» (p. 325). Proprio questo oggi il capitalismo richiede tan-to al lavoratan-tore cognitivo quantan-to al consumatan-tore creativo, sottan-to forma di ingiunzione performativa: sii creativo! Sii felice!

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turale (p. 317 ) non è forse oggi diventata effettivamente, come Dewey auspicava, «parte intrinseca della creazione artistica» (p. 317)? Certo, ma lo è diventata in qualche modo con il segno cambiato dal momento che la «unione immaginativa coesa e integrata» (p. 320) pare essersi realizzata nella globalizazzione etnico-commerciale e nella forma del-l’immaginario melting pot.

Dunque si direbbe che al posto di parlare di «isolamento dell’arte» (p. 317) sia necessario parlare oggi di una crescente e forse definitiva integrazione dell’arte nel sistema della comunicazione mediale. Ne con-segue che l’arte deve cercare, come sta facendo, altre forme.

In particolare, per quanto riguarda le poetiche, mi pare che l’este-tizzazione della vita comune sia rispecchiata (ancora una volta ironica-mente) da certe correnti dell’arte contemporanea che espone la quoti-dianità nella sua sconcertante vacuità informe. Sembra che la compo-nente critica dell’arte abbia preso sempre più spesso l’apparenza del rovesciamento dei teoremi modernisti: non l’organicità ma l’informe (la vita quotidiana come tale: Nan Goldin, Sophie Calle, Philip Lorca Di Corcia e molti altri); non la comprensibilità immediata ma la negazione del senso (Lynch per esempio); non l’originalità ma la virtù della cover secondo la direzione indicata dal celebre racconto di Borges, Pierre

Menard, autore del Don Chisciotte (Senaldi, 2003). L’eteronomia sistemica

In secondo luogo, il paesaggio attuale dell’arte è eteronomo e non più definibile con la classica nozione di “forma”. L’innovazione riven-dicata dal pensatore americano consisteva, abbiamo visto, nel com-battere la separatezza con la continuità: la forma artistica deriva dai processi vitali della creatura. In questo modo, osservavo, Dewey svolge una efficace critica dell’antropomorfismo.

Resta tuttavia il fatto che la forma ha nel suo pensiero i tratti

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