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Esperienza estetica e interattività

Nel documento Esperienza esteticaA partire da John Dewey (pagine 139-153)

di Roberto Diodato

1. Propongo semplicemente di prendere nel senso più forte possi-bile il titolo dell’opera di Dewey, per cui Art as experience vuol dire l’Arte quale esperienza 1: l’opera d’arte è esperienza estetica compiuta e viceversa, e ciò comporta pensare l’opera d’arte non soltanto e pri-mariamente come oggetto, ma come evento, o meglio pensarla come oggetto-evento. Abbiamo così una convergenza stretta e determinata tra estetica e ontologia, per la quale appunto convergono in unità l’arte come questa opera e l’arte come questa esperienza. Ciò vale a due livelli, particolare e generale, in quanto il singolare intreccio tra opera d’arte ed esperienza estetica è in Dewey inteso come caso esemplare che svela il senso dell’esperienza in genere. Dewey esplicita con precisione la questione nel terzo capitolo di Art as experience, dove scrive: «l’estetico […] è lo sviluppo chiarificato e intensificato di tratti che appartengono a ogni esperienza normalmente compiuta. Considero questo fatto la sola base sicura su cui poter costruire una teoria estetica» 2; e proprio su tale affermazione 3 Dewey innesta immediatamente un problema: «Nella lingua inglese non c’è una parola che comprenda senza ambiguità ciò che è designato dalle due parole “artistico” ed “estetico”. Dal momento che “artistico” si riferisce anzitutto all’atto della produzione ed “esteti-co” a quello della percezione e della fruizione, è un peccato che manchi un termine per designare i due processi presi insieme» 4. Nella sua inesausta lotta contro ogni forma di dualismo, Dewey indica nell’arte quale esperienza il luogo in cui le polarità di passività e di attività, di costituzione e fruizione si intersecano esemplarmente dando vita alla concretezza esistenziale dell’opera, concretezza che è oltre le differenze tra mente e corpo, sensi e intelletto, spirito e materia. Sotto questo aspetto l’opera d’arte è una struttura dinamica densa, leggibile come realtà solo negli strati genetici dell’esperienza in cui consiste a livello sia costitutivo sia fruitivo, come oggetto-evento pensabile soltanto nella sua complessa struttura antropo-ontologica. È da questo punto di vista che intendo il tema del compimento o perfezionamento dell’esperienza che caratterizza per Dewey l’esperienza estetico-artistica: non come piacere o godimento per quanto complesso che il soggetto dell’esperienza este-tica proverebbe quale contrassegno della compiutezza dell’esperienza stessa, quasi fosse possibile una risonanza e una traduzione nell’ambito

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dei flussi di interessi esistenziali del piacere disinteressato di kantiana memoria, ma come perfezionamento e quindi comprensione vissuta in-sieme intelligente e sensibile del senso dell’esperienza.

Che quanto nell’arte quale esperienza estetica peculiarmente si disve-la sia estendibile come senso dell’esperienza in genere e quindi dell’es-sere stesso del mondo credo venga in chiaro nell’analisi della funzione della copula nella costruzione del giudizio predicativo che Dewey com-pie nella sua Logica, teoria dell’indagine, dove scrive: «Etimologicamente la parola è deriva da una radice che significa stare o soggiornare. Il rimanere e perdurare è un modo d’azione. Quanto meno, esso indica un temporaneo equilibrio d’interazioni. Ogni mutamento temporale è di natura esistenziale. Di conseguenza la copula nel giudizio, sia essa un verbo transitivo o intransitivo, o l’ambigua forma “è”, ha di per se stessa riferimento alla realtà» 5. Ora la copula può anche, a livello riflessivo-esplicativo, essere segno di una relazione puramente logica, ma «La situazione alla quale la frase si riferisce determina senza ambi-guità se “è” ha una forza attiva, che esprime un cambiamento in atto o potenziale, o se esprime una relazione fra significazioni o idee […] La copula di un giudizio esprime di conseguenza, a differenza del termine della relazione formale, la trasformazione effettiva della materia trattata da situazione indeterminata a situazione determinata. Lungi dall’essere un elemento isolabile, la copula può essere addirittura considerata come ciò che mette in opera i contenuti soggetto-e-predicato» 6. Dewey vede insomma addirittura nei giudizi predicativi la forza esplosiva del plesso essere-esperienza, la sua dinamicità, che viene prima delle oggettualità isolabili, bensì le costituisce come reti relazionali, come distribuzione di fattori attivi, come cooperazioni regolate, come progetti di lavoro solo successivamente rappresentabili in proposizioni, a loro volta leggibili, a questo livello, come cartografie definite dalle loro funzioni 7. È quanto con sempre maggiore chiarezza emerge dal passaggio, nel lessico che Dewey finalmente adotta in Knowing and the Know, dal concetto di interazione a quello di transazione: «Se l’interazione suppone che l’or-ganismo e gli oggetti del suo ambiente siano presenti come esistenze o forme di esistenza essenzialmente separate, antecedenti al loro sottoporsi congiuntamente ad esame, la transazione non ritiene adeguata alcuna preconoscenza né del solo organismo né del solo ambiente […] ma esige che essi si accettino prima di tutto in un sistema comune» 8.

Cio, a me pare, è semplicemente esplicativo di quanto già Dewey scriveva in Esperienza e natura, rammentando i Saggi sull’empirismo

radicale di James: esperienza «è una parola “a due facciate” in quanto

nella sua primaria integrità non riconosce alcuna divisione tra atto e materiale, soggetto e oggetto, ma li contiene entrambi in una totalità non analizzata» 9. In altri termini la materia dell’esperienza consiste in processi di adattamento tra azioni, abiti, funzioni attive tra fare e subire, cioè materia dell’esperienza non sono innanzi tutto oggetti di

cui un soggetto farebbe esperienza: abbiamo cosi immediatamente la destrutturazione di un rapporto meramente naturalistico tra oggetto e soggetto, tra interno ed esterno. L’esperienza è piuttosto sintesi di materia e atto, e tale sintesi è interazione; ma se il termine interazione implica azione “tra” polarità, si dovrà allora dire che l’esperienza acca-de nel suo senso perfetto o compiuto quando tali polarità non si rela-zionano come poli in sé costituiti ma si coordinano in unità di senso, come avviene appunto esemplarmente nell’esperienza estetico-artistica, che non è né emotiva, né pratica, né intellettuale, ma realizza in unità questi fattori: «L’arte rappresenta così l’evento culminante della natura e nello stesso tempo il grado più elevato di esperienza» 10.

2. Ora si intende procedere allo sfruttamento del risultato di Dewey. Com’è noto infatti Dewey intende la nozione capitale di esperienza in genere come «l’interazione tra organismo e ambiente dalla quale risulta un adattamento che garantisce un utilizzo del secondo» 11. Ma, pos-siamo domandarci, cosa accade quando l’ambiente non è più soltanto e forse principalmente quello, ascrivibile a dinamiche biologico-vitali quali motori originari di rapporti e istituzioni sociali, a cui Dewey po-teva riferirsi? La mia risposta, che ora cercherò di giustificare, è che in tale nuova situazione la relazione arte-esperienza come esemplare del senso dell’esperienza pensata da Dewey acquista un significato peculiare e radicale.

Il nostro attuale, comune “ambiente”, in cui costantemente cerchia-mo adattamento e riequilibrio, ha oggi i tratti dell’immaginario mediale e del relativo regime del desiderio proprio dell’epoca del marketing emozionale; è l’ambiente dell’esteticità diffusa (dalla moda al design, dalla pubblicità al videoclip, dal packaging alla progettazione ambientale ecc.) di cui gusti, sentimenti, emozioni e propensioni grazie a complessi processi di mediazione configurano l’apparente immediatezza. È cer-tamente tanto complesso quanto necessario tener conto di tutto ciò per riscoprire l’eventuale pregnanza del messaggio di Dewey, ma qui mi permetto di isolare, per dir così, un aspetto dell’ambiente contem-poraneo che mi pare consenta la ripresa e il ripensamento del nostro modello. Da questa limitata prospettiva ciò che chiamiamo “ambiente” è l’ambiente in senso lato virtuale, reso possibile da dispositivi tec-nologici che interagiscono non sempre ma per lo più con organismi proteseizzati, organismi non più soltanto biologici ma biotecnologici. Ci si chiede allora che ne sia, in tali ambienti, dell’esperienza in genere e dell’esperienza estetico-artistica.

Le nuove tecnologie di natura fondamentalmente numerica con-sentono un’uscita dal duplice paradigma che ha di fatto orientato le riflessioni sulla tecnica: la tecnica come strumento di supplenza del-le carenze adattive tipicamente umane (tesi classicamente esposta da Gehlen 12 e da molti altri) oppure la tecnica come protesi “naturale”,

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cioè originariamente connessa alla “natura umana”, in sé stessa ibridata con l’artificiale (nota tesi di Leroi-Gourhan 13). Le nuove tecnologie si collocano oltre l’esperienza adattiva di controllo, riequilibrio ed espansione, poiché l’esperienza si riconfigura non attraverso di esse ma sostanzialmente in esse, come intorno a un centro gravitazionale mutevole e plurale. Radicalizzata secondo l’ormai classica metafora del-la deterritorializzazione, questa idea si ritrova in Baudrildel-lard: «invece di gravitare intorno a lui in ordine concentrico, tutte le parti del corpo dell’uomo, ivi compreso il suo cervello, si sono satellizzate intorno a lui in ordine eccentrico, si sono messe in orbita per se stesse e, di colpo, in rapporto a questa estroversione delle sue stesse tecnologie, a questa moltiplicazione orbitale delle sue funzioni, è l’uomo che diviene esorbitato, è l’uomo che diviene eccentrico. Rispetto ai satelliti che ha creato e messo in orbita è l’uomo che oggi, con il suo corpo, il suo pensiero, il suo territorio, è divenuto esorbitante» 14. Baudrillard ela-bora al proposito il concetto di “videosfera” come senso complessivo delle nuove tecnologie digitali, ipermediali e telematiche, un concetto tutto sommato riduttivo e potenzialmente fuorviante poiché le nuove tecnologie informatiche non sono soltanto e forse essenzialmente pro-cessi di analisi e sintesi dell’apparenza, in qualche modo soltanto tele-visivi. Ma al di là dei termini il messaggio è chiaro: le nuove tecnologie più che essere strumenti o esplicazioni della “natura” per dir così, “umana”, sembrano costituirsi come flussi autonomi, forse espressioni di un aspetto prima celato della physis, che implicano, cioè struttu-rano e destrutturato, l’umano (le modalità percettive, le emozioni e i desideri, gli scambi sociali, in generale il plesso corporeo-mentale) all’interno dei loro processi, l’autonomia sempre maggiore dei quali rende l’umano eccentrico rispetto a essi, e quindi non li sottopone più alla presa della volontà e del progetto, per quanto gettato. Forse ciò costringe a pensare in modo nuovo la sintesi physis-techne come luogo proprio dell’ethos, dell’abitare umano, e se fino a ora la polis è stata l’espressione più articolata di questa sintesi, adesso la dimensione del politico non appare più sufficiente. Ora per comprendere la relazione tra arte e nuove tecnologie a mio avviso la prospettiva “telematica”, intesa come attenzione rivolta alle nuove tecnologie nella loro qualità nuovi media, non è sufficiente e forse non coglie l’essenziale; è infatti necessario esaminare i concetti di virtuale e di corpo-ambiente virtuale, i quali da un lato sono alla base delle nuove tecnologie informatiche e digitali in senso generale, e d’altro canto sono alla base di produzioni artistiche non immediatamente mediali o che non hanno una finalità specificamente comunicativa, se non nel senso che l’aspetto comunica-tivo può eventualmente competere a qualsiasi produzione artistica 15.

3. Con l’espressione “corpo-ambiente virtuale” possiamo intendere in primo luogo e in senso ampio un’immagine digitale interattiva, il

fenomenizzarsi di un algoritmo in formato binario nell’interazione con

un utente-fruitore. Si tratta di qualcosa di preciso, su cui da anni la sperimentazione estetica internazionale lavora, vale a dire a tutti que-gli oggetti-ambienti informatici con i quali un fruitore può interagire attraverso le periferiche di un computer, le quali possono assumere la forma protesi bio-robotiche atte a consentire gradi di immersività molto elevati. Con tali ambienti informatici, elaborati per lo più non da un individuale singolo autore-(eventualmente)artista ma da una mente col-lettiva, talvolta l’utente interagisce attraverso i suoi avatar, gli alter-ego virtuali che gli appaiono agire all’interno di tali ambienti, producendovi delle trasformazioni, altre volte la sua funzione spettatoriale coincide con l’essere attore della situazione. Ora, le trasformazioni o modificazio-ni “estetiche” prodotte dagli utenti negli ambienti informatici o virtuali sono possibili in quanto le percezioni sensibili (visive, uditive, tattili ecc.) che essi percepiscono/producono non sono altro che differenti fenome-nizzazioni di una matrice algoritmica, non sono altro che le differenti possibili attualizzazioni estetiche permesse dal programma. Tuttavia, si noti, il grado di interattività di tali oggetti informatici muta a seconda che l’interazione avvenga sulla base di matrici algoritmiche “rigide” – che preordinano le possibili interazioni – oppure sulla base di matrici “flessibili” che “apprendono” e si modificano attraverso l’interazione. Quando l’interazione implica esperienza estetica in senso deweyano, cioè un perfezionamento dell’esperienza che assume caratteri tipici ai quali accennerò, ed è tale da costruire il senso dell’oggetto-evento, del corpo-immagine o ambiente virtuale qualificandolo come opera d’arte, allora l’interazione è propriamente interattività.

Sarebbe a questo punto necessaria una descrizione del campo, una fenomenologia dei corpi virtuali che qui interessano la quale li distingua in base al grado di immersività e di interattività che consentono. Questo è quanto, certamente, qui non è possibile fare; mi limito al proposito a notare che attualmente le tecnologie stabiliscono almeno una differenza di rilievo, tra ambiente “virtuale” nello schermo (schermo informatico, che non è ovviamente quello televisivo) e quindi anche, ma non neces-sariamente, nella rete (web) così come può fenomenizzarsi sullo scher-mo, e quello che chiamerei ambiente virtuale in senso proprio. Si tratta di una differenza essenziale, che consente la produzione di sperimenta-zioni artistiche e di poetiche molto, quasi completamente, diverse. Per quanto concerne l’esperienza mediata dallo schermo troviamo, divisi in due campi che si intersecano, da un lato gli ipertesti narrativi costruiti specificamente per la rete, tra i quali assumono ora un rilievo specifico i blog che sviluppano narrazioni 16, dall’altro la cosiddetta net-art 17 con altre forme che potranno essere inventate in second life. Questi campi si distinguono per il prevalere di linguaggio verbale, in genere alfabeti-co, oppure di immagini e suoni, ma sono entrambi caratterizzati dall’es-sere sempre apparire di scritture ipertestuali, le quali si fenomenizzano

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nei limiti delle possibilità intrinseche dello schermo. Ciò implica for-me specifiche di programmazione dell’interattività, dove con il termine interattività si intende «sia l’azione dell’utente che le retroazioni che comportano queste azioni sull’interfaccia (principalmente automatismi e azioni di feedback)» 18. Si tratta di operazioni di scrittura informatica intesa essenzialmente come montaggio di oggetti-scrittura che derivano da un’idea fondamentale di ipertesto come «documento elettronico che prevede un accesso interattivo ai suoi contenuti e alle unità discontinue riunite dal montaggio [in cui] rispetto agli altri documenti elettronici,

l’interattività è strutturata nelle sue componenti» 19, le quali in ultima analisi sono i punti di intervento o bottoni di collegamento o link, che consentono forme di interattività differenti e trasformano il fruitore in fruitore-utente. Perciò 20 la specificità estetica dell’ipertesto, eccedente rispetto a una qualsiasi forma testuale anche digitale, consiste nella qualità dei nessi e quindi nell’esperienza interattiva resa possibile dai collegamenti. Un’estetica della rete, e quindi dell’ipertesto in quanto in rete, implica probabilmente una revisione della nozione di schema cor-poreo, della relazione Körper-Leib e del rapporto percezione-immagina-zione, cioè di quelle dimensioni strategiche del rapporto uomo-mondo che abbiamo assorbito, e ormai pensiamo come ovvie, dalla tradizione fenomenologica: ciò che costituisce una difficoltà quasi insormontabile per i programmatori, far vivere l’avatar sullo schermo e farlo navigare nella rete come se avesse un corpo vivo, e quindi in modo da trasmet-tere in tempo reale all’abitante dell’avatar i processi estetico-noetici di presenza, costituisce probabilmente una sfida per il pensiero che si vede costretto a elaborare nuove categorie per render conto della relativa in-esperibilità della rete 21.

Oltre questo aspetto genericamente ipertestuale della scrittura elet-tronica esiste com’è noto una linea di ricerca che procede dalle scul-ture immateriali agli ambienti sensibili con interfacce naturali, ai corpi proteseizzati in ambienti telematici, fino alle prime sperimentazioni di ambienti virtuali propriamente detti. E un discorso ancora a parte meriterebbero le sperimentazioni artistiche nell’ambito della bioestetica telematica 22 e quelle che tentano una connessione o con-vivenza tra corpo proteseizzato e reti telematiche 23.

4. Per quanto invece concerne il corpo virtuale in senso proprio, possiamo intenderlo come ambiente strutturalmente relazionale ed es-senzialmente interattivo; ispezioniamo quindi per sommi capi l’onto-logia del corpo-ambiente virtuale. Per descriverla in massima sintesi possiamo enunciarne le caratteristiche essenziali: l’intermediarietà e la

virtualità – caratteristiche tra loro strettamente connesse. I corpi virtuali

sono realtà intermediarie 24 a mio avviso per due ragioni fondamentali: il corpo ambiente-virtuale in quanto si fenomenizza nell’interattività sfugge alla dicotomia tra “interno” ed “esterno”: non è né un

prodot-to cognitivo della coscienza, non è immagine della mente – in quanprodot-to l’utente è consapevole di esperire una realtà altra anche nel senso di un paradossale raddoppiamento sintetico della percezione – né è “esterno” a essa – in quanto è pur sempre dipendente dall’azione del fruitore. Il corpo-ambiente virtuale è quindi esterno-interno (di questo, che è

un punto che ritengo essenziale, ovviamente si può discutere. Prego soltanto di non ritenere che i termini “interno” ed “esterno” siano presi qui in modo ingenuo o “naturalistico” o che siano privi di “senso fenomenologico”). Ciò significa che i corpi virtuali non devono essere propriamente intesi come rapprentazioni della realtà, ma come realtà costruite in modo essenzialmente differente da quelle costituite dalla partecipazione circolare del corpo vivo con il mondo, il quale grazie alla percezione-visione attraversa il corpo e diviene gesto, movimento del corpo, eventualmente mediato da strumenti di riproduzione analogica, e quindi immagine. I corpi-ambienti virtuali sono piuttosto “finestre artificiali che danno accesso a un mondo intermediario” 25 nel quale lo spazio stesso è il risultato di un’interattività, il mondo non accade al modo della presa di distanza, bensì del senso-sentimento dell’immersio-ne, e il corpo, in quanto percepito come altro, assume il senso della sua realtà, della sua effettualità, come incisione patica e immaginaria, come produzione di emozione e di desiderio, al punto che la sensazione di realtà trasmessa dall’ambiente virtuale dipende in gran parte dall’effi-cacia con cui provoca emozioni all’utente 26. Da questo punto di vista «la realtà virtuale può produrre un’esperienza capace di autenticarsi da sola» 27, ma appunto in quanto realtà, cioè come alterità rispetto all’utente, come ambiente nel quale può agire, come corpi che può manipolare. Dunque il corpo-ambiente virtuale è intermediario non soltanto come mediazione tra modello informatico e immagine sensibile, ma primariamente intermediario tra interno e esterno come facce dello stesso fenomeno, strano luogo in cui il confine diventa territorio. Quin-di corpi-ambienti virtuali non sono né semplici immagini, né semplici corpi, ma corpi-immagini i quali sfuggono alla distinzione ontologica tra “oggetti” ed “eventi”, perché, così come gli “oggetti”, hanno una relativa stabilità e permangono nel tempo, ma, così come gli “eventi”, esistono solo nell’accadere dell’interattività. L’individuo che ne risulta è sì concreto, in quanto percepibile e soggetto-oggetto di azioni, ma “pe-culiarmente sottile”, proprio perché è interattivo. Si tratta di un ibrido dallo statuto ontologico incerto; possiamo anche chiamarlo corpo sottile di un mondo non continuo, composto di punti-dati che si manifestano come fluidità e densità e saturano la percezione: un corpo reso leggero dalla digitalizzazione, che ha l’interattività come condizione di manife-stazione. Possono qui tornare alla mente i corpi derivanti da processi biotecnologici che popolano il mondo creato da William Gibson in

Neuromante e la sua definizione del cyberspazio come “allucinazione

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nella misura in cui questo si trova trasfigurato nel proprio avatar, e partecipa all’ambiente virtuale come un “quasi-cyborg”.

5. Ora da un lato le stesse possibilità artistiche dell’opera virtuale sono (come sempre per l’arte, ma come viene bene in chiaro nelle esperienze di produzioni tecnologiche in grado operazioni precise di simulazione) connesse alle operazioni di scarto rispetto alla riproduzio-ne come simulazioriproduzio-ne di esperienza “reale” o di “realtà”: le operazioni

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