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La critica dell’esperienza estetica nella filosofia analitica angloamericana

Nel documento Esperienza esteticaA partire da John Dewey (pagine 113-125)

di Paolo D’Angelo

1. In questo mio intervento intendo soffermarmi brevemente sulle critiche alla nozione di “esperienza estetica” che sono state elaborate in ambito analitico a partire dagli anni Sessanta del Novecento. Queste critiche rappresentano indubbiamente un allontanamento, e quasi un rifiuto, dell’ordine di problemi affrontati da John Dewey nella sua este-tica, e questo è sufficiente a giustificare il fatto che ce ne occupiamo in questa sede. Ma ci sono altri elementi di interesse ai quali vorrei rapidamente accennare.

In primo luogo, anche se è certamente possibile trovare nell’ambito della filosofia cosiddetta continentale altre critiche molto serrate alla nozione di esperienza estetica (si pensi all’attacco portato da Heideg-ger alla nozione di Erlebnis in riferimento all’arte, o alle critiche di Gadamer alla “soggettivizzazione dell’estetica” che avrebbe luogo con Kant, o ancora alle teorie sviluppate da Pierre Bourdieu nel volume sulla Distinzione), l’attacco radicale alla nozione di esperienza estetica resta un fatto tipico dell’estetica analitica. E dato che l’estetica ana-litica comincia appena a essere discussa in Italia, credo non sia male soffermarsi su di un aspetto che, anche se non ha riguardato tutta l’estetica analitica, certamente ne ha segnato in profondità una gran parte. Proprio perché in una vasta area dell’estetica continentale degli ultimi decenni si è non solo continuato a parlare di esperienza estetica, ma le si è anzi assegnato un ruolo spesso centrale (penso all’opera di Mikel Dufrenne Phénoménologie de l’expérience esthétique in Francia, alla Kleine Apologie der aesthetischen Erfahrung di Jauss, ma anche alle posizioni argomentate di recente da Martin Seel in Aesthetik des

Erscheinens) può essere interessante verificare come invece in un’altra

tradizione filosofica si sia cercato di farne a meno.

In secondo luogo, l’attacco all’esperienza estetica portato dall’este-tica analidall’este-tica è stato insolitamente radicale e distruttivo. Non si è trat-tato, per alcuni autori almeno, di affiancare all’esperienza estetica altri principî esplicativi, di mostrare dei limiti o delle difficoltà, ma proprio di eliminare dall’orizzonte problematico dell’estetica la nozione stessa di esperienza. L’esperienza estetica è stata considerata un mito, una chimera, un’illusione della quale sbarazzarsi il più rapidamente possi-bile. Ciò ha avuto naturalmente conseguenze molto nette sul modo in

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cui si è creduto di poter dar conto – per esempio – dell’arte. Ma tutto questo ha per noi il vantaggio di metterci sotto gli occhi posizioni ben delineate e implicazioni molto chiare, il che è sempre istruttivo.

In terzo luogo, credo che il momento sia propizio per una ricon-siderazione del problema. Dopo decenni in cui il tema dell’esperienza estetica era stato guardato con sospetto e diffidenza, gli ultimi anni hanno portato ad una sua riproposizione, anche in ambito analitico. Le tesi liquidatorie non mi pare godano più di molta fortuna. L’esperienza estetica riconquista centralità, si torna a discutere di come si possa ca-ratterizzare, descrivere e utilizzare questa nozione, mentre si fa strada la consapevolezza che la sua eliminazione crea molti più problemi di quanti ne risolva. Per dirla in una battuta, oggi molti filosofi analitici pensano che parlare di esperienza estetica può sì implicare che ci si muova in un circolo, magari vizioso, ma non parlarne, presumere di poterne non parlare, ci chiude in qualcosa di peggio, un vicolo cieco. Il pendolo torna a oscillare dal lato dell’esperienza estetica.

Non ho usato a caso la metafora del movimento pendolare. Infatti è possibile dire che alla filosofia angloamericana della prima metà del Novecento la nozione di esperienza estetica era tutt’altro che estra-nea, e che quindi la situazione che si sta delineando negli anni a noi più vicini rappresenta in qualche misura un ritorno, se non su vec-chie posizioni, almeno a temi tradizionali. Non credo sia necessario insistere a lungo su questo punto, dato che qualche semplice rinvio basterà a chiarirlo. È noto per esempio che all’inizio del secolo scorso un autore inglese, fortemente influenzato però dall’estetica tedesca, come Edward Bullough, aveva teorizzato la “distanza psichica” come caratteristica essenziale dell’esperienza estetica. Nello scritto del 1912

Psychical Distance as a Factor in Art and an Aesthetic Principle,

Bul-lough interpretava appunto in termini di “distanza psichica” il tradi-zionale concetto di “disinteresse estetico”, e se ne serviva per marcare l’opposizione tra fatti di mero piacevole ed esperienze estetiche vere e proprie, fino a vedere nella distanza psichica il principio fondamentale di quella che chiamava “coscienza estetica”: «È la distanza estetica a rendere l’oggetto ‘un fine in se stesso’. Ed è ciò che innalza l’arte al di sopra della sfera dell’interesse individuale […]. È proprio la distanza a fornirci uno dei criteri per discernere i valori estetici da quelli pratici (utilitaristici), scientifici o sociali (etici) […] pertanto la distanza este-tica incarna uno dei tratti distintivi della ‘coscienza esteeste-tica’, di quella particolare mentalità o sguardo sull’esperienza e sulla vita che […] nella sua forma più significativa e sviluppata condurrà all’arte» 1.

Né si può dimenticare che proprio l’estetica di Dewey, poco più di vent’anni dopo, aveva fortemente contribuito a orientare la riflessione su alcuni caratteri dell’esperienza, ponendo quest’ultima in primo pia-no. Certo, è ben noto, ed è ben ribadito nella Presentazione scritta da Giovanni Matteucci per questa nuova, importante edizione dell’opera

deweyana che per Dewey non esiste un’esperienza estetica come cam-po separato e speciale («l’arte è una tendenza interna all’esperienza e non un’entità in se stessa» 2), e che l’estetico è piuttosto «lo sviluppo chiarificato e intensificato di tratti che appartengono a ogni esperien-za» 3, ma proprio perciò i caratteri che costituiscono l’esteticità (la compiutezza, l’unità, il perfezionamento) si colgono nell’esperienza e attraverso l’esperienza. Piuttosto che appellarsi, nel caso di Dewey, al dato di fatto che il ciclo di lezioni dal quale ha preso origine Art

as Experience si intitolava Art and Aesthetic Experience, insomma, è

utile fissare la nostra attenzione sulla circostanza che per Dewey è dai caratteri dell’esperienza che si va all’arte, cioè l’arte non è che la specificazione e l’intensificazione di caratteri che sono propri dell’espe-rienza, di qualsiasi espedell’espe-rienza, ragione per cui il campo dell’esperienza estetica è assai più ampio di quello che indichiamo tradizionalmente come arte.

In terzo luogo, ricorderò che all’inizio degli anni Sessanta Jerome Stolnitz aveva ribadito, in chiave storiografica, l’importanza della nozio-ne di “disinteresse” nozio-nella nascita dell’estetica moderna, cioè in particola-re nel costituirsi della teoria estetica del Settecento 4, mentre negli stessi anni la nozione di esperienza estetica era il nucleo attorno al quale si andava costruendo la teoria estetica di Monroe C. Beardsley. Nella si-stemazione complessiva che Beardsley offrirà con l’edizione del 1981 di

Aesthetics: Problems in the Philosophy of Criticism, l’esperienza estetica

viene definita come quella esperienza che implica cinque caratteristiche salienti: (1) è rivolta verso un oggetto, (2) è libera da interessi esterni, (3) l’oggetto di tale esperienza deve essere emotivamente distanziato, (4) si deve avere un senso di scoperta, (5) si deve dare un senso di integrazione tra il soggetto e l’esperienza che egli viene compiendo.

Si sarà notato che in questo sintetico quadro storico ho messo as-sieme teorie dell’esperienza estetica propriamente dette, indagini sulla “aestehtic Attitude”, sull’atteggiamento estetico, e teorie del “disin-teresse estetico”. In effetti, anche se si tratta di aspetti diversi, sono tutti strettamente interrelati e in qualche modo coinvolti pressoché costantemente nel discorso sull’esperienza estetica 5. Proprio il loro ripetuto affiorare in autori e momenti diversi dimostra che la nozione di esperienza estetica, nelle sue varie declinazioni, era ben presente nella filosofia angloamericana del Novecento.

2. È contro questo complesso di teorie, ma soprattutto contro le loro elaborazioni più prossime nel tempo (vale a dire contro Beardsley e Stolnitz) che si appuntano le critiche all’esperienza estetica formulate dall’estetica analitica negli anni Sessanta. Le più note, perché espresse con la rudezza e la mancanza di sfumature tipica di questo autore, sono quelle esposte da George Dickie nei due saggi The Myth of the

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dell’anno seguente 6. Nel primo di questi due saggi Dickie attacca la teoria della “distanza psichica” di Bullough e la teoria del disinteresse avanzata da Stolnitz allo scopo di sbarazzarsi della nozione di “atteg-giamento estetico”, che viene definita «an encrusted article of faith» e considerata un mito del quale sbarazzarsi al più presto, perché inutile e fuorviante. La cosiddetta distanza estetica, infatti, è solo una forma di attenzione rivolta all’opera, e chi non la sa attingere non ha una diversa forma di attenzione ma è semplicemente disattento. Perché allora mol-tiplicare gli enti e parlare di un nuovo stato di coscienza, che all’analisi si rivela soltanto illusorio? Anche nel caso del disinteresse estetico, definito da Stolnitz come «assenza di coinvolgimento per scopi ulterio-ri», si può dimostrare, secondo Dickie, che i comportamenti opposti a quello “disinteressato” non sono altre forme di attenzione ma forme di disattenzione. Lo scopo per il quale facciamo qualcosa, sostiene Dickie, è altra cosa dal modo in cui la facciamo, e si può prestare attenzione, la stessa attenzione, a un’opera, per scopi molto diversi.

L’argomento di Dickie è, al fondo, il medesimo sia quando si tratta di criticare la distanza estetica che quando è in gioco il disinteresse: perché si possa parlare della prima o della seconda sarebbe necessario che si potesse parlare sensatamente del comportamento opposto, ossia di un comportamento “non distanziato” e “interessato”. Ma, a parere di Dickie, tutti i comportamenti di questo secondo tipo proposti dai sostenitori dell’esistenza di un “atteggiamento estetico” sono in realtà esempi di non-attenzione all’opera d’arte. E la disattenzione, conclu-de Dickie, non è un tipo speciale di attenzione. D’altronconclu-de, se seguo un’opera letteraria o teatrale con un’attenzione finalizzata (per esempio se voglio riscrivere il dramma o se sono un regista che sta pensando a una sua messa in scena) la mia attenzione non differisce affatto da quella di chi lo segue “disinteressatamente”. Anche in questo caso, il disinteresse non è un tipo particolare di attenzione, ma attenzione tout-court. Porsi in un atteggiamento estetico per Dickie significa sol-tanto “guardare attentamente” un’opera d’arte o un oggetto naturale. La teoria della aesthetic Attitude incammina l’estetica su di una strada sbagliata, inducendola ad assunzioni errate su ciò che è esteticamente rilevante, facendole supporre che l’atteggiamento del critico d’arte sia diverso da quello del comune fruitore, e infine mettendo l’una contro l’altra etica ed estetica.

Nell’anno seguente, il 1965, è la teoria dell’esperienza estetica di Beardsley ad attrarre gli strali di Dickie. Nella prima edizione di

Aesthetics: Problems in the Philosophy of Criticism, apparsa nel 1958,

Beardsley aveva sostenuto che la nostra relazione con gli oggetti artistici è caratterizzata da alcuni tratti specifici che permettono di parlare di un’esperienza estetica. Essa è distinta dal fatto di essere complessa,

inten-sa e unificata. Dickie critica queste determinazioni sostenendo che

su quelli dell’esperienza estetica. Un’opera d’arte può essere completa, complessa e coerente, ma da ciò non segue che sia tale l’esperienza che ne facciamo. L’esperienza di certe proprietà non è un’esperienza con quelle proprietà. La replica di Beardsley arriva qualche anno dopo con l’articolo Aesthetic Experience Regained, nel quale viene offerta una de-finizione dell’esperienza estetica che, pur mantenendo le caratteristiche prima individuate, insiste ora maggiormente sul fatto che qusto tipo di esperienza implica piacere: «A person is having an aesthetic experience during a particolar stretch of time if and only if the greater part of his mental activity during that time is united and made pleasurable by being tied to the form and qualities of a sensuously presented or imaginatively intended object on which his primary attention is con-centrated» 7. Dickie replicherà a sua volta nel capitolo finale di Art and

the Aesthetic del 1974, nel quale ribadisce che, a suo parere, non ci

sono tratti caratteristici che differenzino l’esperienza estetica da altre esperienze, e che quindi quest’ultima può essere identificata solo se si è prima e indipendentemente definito che cos’è un oggetto estetico. La strada non va dall’esperienza estetica all’arte, ma caso mai in senso inverso, dall’opera d’arte all’esperienza estetica 8.

Quest’ultima conclusione non è solo di Dickie, così come Dickie è tutt’altro che solo, in questi anni, a pensare di potere fare interamente a meno dell’esperienza estetica. Si prenda il caso, indubbiamente più rilevante per la statura dell’autore e per la complessità della cultura che lo ispira, di Arthur Danto. Danto non accetta la teoria istituzionale del-l’arte proposta da Dickie, ma approva le critiche di Dickie alla nozione di “atteggiamento estetico” e al disinteresse estetico. Quasi all’inizio di

The Transfiguration of the Commonplace troviamo il rifiuto di Danto

per queste nozioni, così come per quella di “distanza psichica”. Il fatto che sia possibile assumere un atteggiamento “distanziato” o “disinteres-sato” nei confronti di qualsiasi oggetto o avvenimento dimostra che il riferimento all’atteggiamento estetico non ci è di nessun aiuto quando si tratta di identificare le opere d’arte. Inoltre il discorso sul disinteres-se non fa che elevare a norma generale un atteggiamento che è proprio soltanto di periodi limitati della storia dell’arte: a lungo l’arte ha avuto una serie molto ampia di concreti scopi pratici 9. Perché Danto può es-sere per una volta d’accordo con Dickie? Perché anche per Danto una definizione estetica dell’opera d’arte (cioè una definizione che si basa su di un tipo particolare di esperienza che compiremmo dinanzi all’opera d’arte) è minacciata dalla circolarità. Ora è vero invece che per apprez-zare esteticamente le qualità sensibili di un’opera d’arte secondo Danto noi dobbiamo già sapere che quell’oggetto è un’opera d’arte, e questo non lo sappiamo dall’esperienza che compiamo con quell’oggetto, ma dalla teoria e dalla storia dell’arte 10. Il che è confermato, a parere di Danto, dal fatto che ci sono opere d’arte che non presentano affatto requisiti estetici, cioè che sono del tutto prive di qualità esteticamente

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valutabili o pregevoli. Ci possono dunque essere, tra un oggetto che è un’opera d’arte e un oggetto che non lo è, differenze che non sono in alcun modo differenze percettive. Non tutte le differenze artisticamente rilevanti sono di natura percettiva. Quindi non è l’esperienza estetica quella che ci permette di decidere che cosa è un’opera d’arte e cosa non lo è, ma piuttosto un atto interpretativo nel quale ci basiamo su teorie e tradizioni storiche. Per Danto, l’interpretazione deve andare a occupare il posto che nelle teorie tradizionali era occupato dall’espe-rienza estetica.

Si potrebbero facilmente moltiplicare gli esempi di autori che condi-vidono il rifiuto di Dickie o Danto nei confronti dell’esperienza estetica. Per venire ad anni ancora più vicini, ricordo che entrambi gli aspetti, ossia tanto la critica al disinteresse quanto quella più generale all’espe-rienza estetica, sono espliciti nel volume del filosofo israelo-americano Eddy Zemach, Real Beauty (1997). Zemach sostiene che il cosiddetto “disinteresse” è solo un tipo particolare di interesse, e che l’esperienza che noi facciamo dell’opera d’arte non sono altro che i suoi effetti su di noi. Ora, molte opere hanno effetti del tutto diversi, e non c’è nessun effetto che sia comune a tutte le opere d’arte. Inoltre Zemach sottolinea come teorici dell’esperienza estetica da Dewey a Beardsley abbiano sem-pre fatto riferimento ai caratteri positivi dell’esperienza estetica, mentre noi possiamo fare esperienza anche di proprietà negative (squilibrio, ari-dità, bruttezza), il che dovrebbe implicare che l’analisi dovrebbe andare dalle proprietà all’esperienza, e non the other way around 11.

Visto che ho citato le proprietà estetiche, accenno infine a un altro ordine di attacchi che sono stati rivolti all’esperienza estetica. Mi riferi-sco alla critica, elaborata da Ted Cohen, alla possibilità di distinguere fra termini “estetici” (come grazioso, elegante) e termini non-estetici (come cilindrico o curvo), così come essa era stata argomentata da Frank Sibley. Cohen sostiene che non sia possibile dividere i termini sulla base del fatto che si applichi loro, o non si applichi, il gusto. Ci sono esempi di distinzioni sensoriali che implicano particolari abilità (si pensi al riconoscimento delle grafie), senza che con ciò sia implicato il gusto. Insomma, non è possibile arrivare a una definizione di cosa intendiamo con “estetico”, e, quel che più conta, è possibile parlare di arte senza fare riferimento alla distinzione tra estetico e non estetico, che anzi si rivela non solo superflua ma dannosa 12.

3. Non intendo discutere in dettaglio queste critiche alla nozione di esperienza estetica. Non solo perché in questa sede ci verrebbe a mancare il tempo per farlo, ma anche perché sulle singole contesta-zioni si è sviluppato un dibattito assai ampio. Del resto molte delle obiezioni che sono state mosse da parte analitica al concetto di disin-teresse possono trovare risposta anche nella tradizione continentale che si è misurata con l’estetica kantiana, e che spesso si è trovata a

fronteggiare critiche analoghe. Ma soprattutto vorrei concentrare la mia attenzione su alcune conseguenze che si sono prodotte quando si è pensato di poter fare a meno della nozione di esperienza estetica. Mi pare, come accennavo in apertura, che oggi sia divenuto chiaro che le strade percorse in alternativa alla nozione di esperienza estetica si sono rivelate irte di difficoltà, e assai meno produttive di quanto era parso in un primo momento.

Per esempio, il rifiuto dell’esperienza estetica ha indotto una parte dell’estetica analitica a puntare tutto su una definizione dell’arte che rendesse superflua tale nozione. Così sono fiorite le definizioni di tipo istituzionale e procedurale, pensate appunto come definizioni che pre-scindono totalmente dalle qualità estetiche dell’oggetto, e si appoggia-no invece al puro dato di fatto del ricoappoggia-noscimento di un oggetto come opera d’arte. Queste teorie presumono di poter descrivere tale rico-noscimento senza alcun riferimento ai motivi per cui viene compiuto, ossia appoggiandosi alle mere procedure che portano all’identificazione dell’opera d’arte. Il legame tra esclusione dell’esperienza estetica e ri-corso alla definizione procedurale è del tutto evidente in Dickie, nel quale il rifiuto di nozioni quale distanza estetica, disinteresse, atteggia-mento estetico ecc. serve appunto come pars destruens che dovrebbe dimostrare come l’unica alternativa percorribile sia rappresentata dal nudo fatto del conferimento dello status di artisticità da parte dei com-ponenti di un mondo dell’arte. Ma le cose non sono poi troppo diverse anche nel caso della cosiddetta teoria storico-intenzionale di Levinson, nella quale il ruolo svolto dal mondo dell’arte è soltanto sostituito dal riferimento alla storia precedente. Ora, non solo i limiti di questo tipo di definizioni si sono fatti sempre più chiari (scarsa o nulla informa-tività, circolarità, difficoltà a dar conto degli stati iniziali dell’arte o dell’arte elaborata al di fuori dei circuiti deputati, illusione di poter trattare il concetto di arte come concetto puramente classificatorio e avalutativo, ecc. 13) ma, quel che più conta ai fini del nostro discorso presente, non è affatto detto che questo tipo di definizioni riescano

ve-ramente a fare a meno di ogni riferimento all’esperienza estetica.

Si prenda in esame la teoria istituzionale di Dickie. Nella sua forma più semplice, essa definisce l’opera d’arte come un artefatto che pos-siede degli aspetti i quali lo hanno “candidato all’apprezzamento” da parte di uno o più agenti che operano a vantaggio di un modo dell’arte.

Nel documento Esperienza esteticaA partire da John Dewey (pagine 113-125)