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Art as Experience e l’arte contemporanea

di Marco Senaldi

A lungo trascurato, Art as Experience va senz’altro ricollocato nella giusta prospettiva insieme storica e teorica. Qui proveremo a ricostruire una vicenda – quella della ricezione e delle appropriazioni dell’estetica di Dewey da parte di alcune correnti artistiche americane (e conseguen-temente di grande importanza per i destini dell’arte contemporanea in genere) – e al contempo tenteremo di verificare l’ipotesi se questo testo abbia ancora qualcosa da offrire alle attuali teorie estetiche.

1. Bauhaus, Albers, Dewey

Per cominciare, facciamo un passo indietro al Bauhaus (la celebre scuola d’arte fondata nel 1919 da Gropius a Weimar; trasferita poi a Dessau dal ’26, infine a Berlino dal ’32 al ’33, anno della chiusura) 1.

Il grande artista Josef Albers (1888-1976), che aveva studiato al Bauhaus di Weimar fin dal 1920, era entrato a far parte stabilmente del corpo accademico (insieme alla moglie Anni) nel 1925, e vi aveva applicato innovative teorie pedagogiche 2. Albers era convinto che si imparasse come risultato di una diretta interazione con la vita, e ri-chiedeva che i suoi studenti avessero familiarità con la natura fisica del mondo materiale. Ciò era dovuto in parte all’influenza di Dewey, che aveva difeso un’educazione basata sull’attività di laboratorio e aveva coniato lo slogan «learning by doing». Per Dewey, «le condizioni della vita quotidiana» determinavano la “natura dell’esperienza” e così, l’arte (l’esperienza estetica) significava essere attivamente impegnati. Come per Dewey, la pedagogia di Albers poggiava su esercizi concreti e pratici: secondo le sue stesse parole significava «learning through conscious practice» 3.

Ma ciò che spinge a considerare più da vicino la figura di Albers è il fatto che un anno dopo la pubblicazione di Art as Experience (1934), egli redige il suo primo articolo in lingua inglese sulla rivista Progressive

education che porta esattamente lo stesso titolo: “Art as Experience”.

Il motivo che spinge Albers a scrivere l’articolo è la sua partecipazione al famoso Black Mountain College, ad Asheville, nel North Carolina, dove si era trasferito nel 1933.

Nel suo articolo Albers combina la fraseologia di Dewey con l’ideo-logia Bauhaus, cercando di dimostrare come l’arte non può essere più

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rimossa dalla vita quotidiana. «L’arte non è un fenomeno che può es-sere considerato con distacco storico. È un fatto che non può, nei suoi fini e nella sua esecuzione, essere rimosso dalla vita» (Buettner 1981, p. 129). Idea che ricorda l’attacco di Dewey contro la segregazione dell’arte nei musei: «I nostri musei e le nostre gallerie d’arte d’oggi, in cui sono relegate e depositate opere d’arte bella, rendono evidenti alcune cause che hanno fatto sì che l’arte venisse segregata» (Dewey 1934, p. 35).

Inoltre, sulla scorta della pedagogia deweyana, Albers sottolinea come esperienza estetica e insegnamento (come esperienza pratica) sono due lati inscindibili della crescita individuale (cfr. Kelly, 2000): «Le regole sono il risultato dell’esperienza e vengono dopo, e scoprire le regole è più vitale che non applicarle» (Albers, 1935, p. 391). In una intervista più tarda Albers affermerà: «l’esempio, l’influenza indiretta e implicita, sono il più forte strumento di educazione» (Albers 1969, cit. in Adler 2004).

Stewart Buettner, che ha analizzato dettagliatamente l’influsso delle idee estetiche di Dewey sull’arte americana del secondo dopoguerra tramite le figure degli artisti europei emigrati negli USA, sottolinea come il legame educazione-arte fosse per Albers il modo per connet-tere esperienza estetica e vita vissuta. «In quanto disciplina educativa, l’istruzione artistica deve smettere di essere considerata una attività di aula, dedicata a scopi che sarebbero per natura meramente deco-rativi. In istituti d’arte come il Bauhaus e il Black Mountain College l’arte doveva rappresentare un ruolo di primo piano nelle vite degli studenti. “Real art – scrive Albers – “is essential to life”» (Buettner 1981, p. 129).

Albers era stato invitato al Black Mountain College da Philip John-son, all’epoca alle dipendenze del Moma di New York, e già suo allievo al Bauhaus. Albers allena gli studenti a tradurre in immagini le relazioni formali e cromatiche astratte. Li orienta anche verso materiali eterodossi come foglie, legno, scarti, indicandone combinazioni incongrue. Inoltre la didattica prevede laboratori di fotografia, lavorazione del legno, me-tallo, stampa scultura, disegni di abiti e tessitura – laboratorio questo diretto dalla mogli, Anni – laboratori finalizzati alle necessità del college (costruzione di mobilio, suppellettili e anche di edifici) (Zevi 2000, p. 89 ss.).

La vicinanza del suo metodo a Dewey è stringente: «il materiale con cui viene composta un’opera d’arte appartiene al mondo comune [...] e tuttavia il sé assimila quel materiale in modo peculiare così da farlo riemergere [...] in una forma che costituisce un nuovo oggetto» (Dewey 1934, p. 122); «una delle funzioni dell’arte è proprio di inde-bolire la soggezione moralistica che spinge la mente a rifuggire da certi materiali [...] fino a comprendere (potenzialmente) ogni e qualsiasi cosa» (ivi, pp. 193-94).

Tuttavia quella di Albers è “una” interpretazione di Dewey. Albers cioè, a differenza di Dewey, che parla sovente di «indivisibilità dell’atto artistico» (p. 215), di polisensorialità e di sinestesia corporea (p. 133), si “ferma” sul “vedere”, tende a non tradurre l’esperienza visiva in esperienza totale: «Quando ai laureati a Yale si chiedeva in che cosa avessero ottenuto beneficio dai loro studi con Josef Albers, invariabil-mente rispondevano “Albers mi ha insegnato a vedere” (“taught me to see”)» (Kelly 2000, p. 133).

Inoltre, Albers resta convinto che il “caso” non possa entrare a far parte dell’esperienza estetica (e le testimonianze degli anni di Yale sono chiare in tal senso, cfr Kelly 2000). «L’enfasi di Albers sull’articolazio-ne, il controllo, la disciplina mentale, e la precisione di esecuziosull’articolazio-ne, lo conducevano ad avere una scarsa tolleranza verso gli elementi del caso e dell’automatismo che erano cruciali per pittori come Pollock» (Buettner 1981, p. 131). Non che Dewey teorizzi un’apologia del caso come tale, ma rimarca spesso come la “forma” dell’opera necessiti dello “scompiglio” del nuovo, e di come la bellezza nasca dalla cooperazione tra «il cambiamento che eccita e il compimento che calma» (Dewey 1934, pp. 166-67).

2. Il Black Mountain College, laboratorio deweyano

Fondato nel 1933 da transfughi del Rollins College della Florida (a causa di divergenze sul genere di educazione da impartire ai giovani studenti), il Black Mountain College si era qualificato da subito come un progetto educativo all’avanguardia, dove vengono arruolati come insegnanti numerosi artisti europei.

Il College nasce nell’epoca entusiasta del New Deal come scuola modello di ispirazione Bauhaus; tuttavia la sua originalità irripetibile consiste nel fatto che è un tentativo generoso di dar vita e realtà al modello educativo delineato da Dewey in Democracy and Education (1916). Per esempio, la gestione e l’amministrazione erano a carico del corpo docente; ogni questione era discussa nelle assemblee studente-sche; vigeva la parità tra insegnanti e studenti, ecc.

Nelle parole di John Rice, rettore del College dal ‘33 al ‘40 e fer-vente ammiratore di Dewey, l’educazione ivi impartita era di questo tenore: «Al Black Mountain College l’educazione era totalizzante. Tre pasti collettivi, il tempo trascorso negli spazi comuni, gli incontri nelle classi e ovunque, l’istruzione impartita per strada. Era il soddisfacimen-to di una vecchia idea, l’educazione dell’uomo nella sua complessità» (cit. in Zevi 2000, p. 89)

L’educazione dell’uomo nella sua complessità, l’idea che l’educazio-ne non sia un training che conduce a uno scopo predeterminato, ma un continuum aperto e armonioso, nel quale «processo e fine dell’edu-cazione sono una sola e medesima cosa» (Dewey 1916) – sono temi che tornano puntualmente nei programmi del College: «Noi stiamo

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tentando, con crescente (ancorché, più o meno, altalenante) successo di insegnare un metodo più che un contenuto. Il nostro sforzo è sul processo più che sul risultato (“Our emphasis is on process as against results”)» (Rice, 1938, cit. in Adler 2004). Nel 1940, inoltre, vengono introdotti campi di lavoro estivi, articolati in programmi accademici informali, condotti da ospiti di rilievo, tra cui, accanto a Gropius e Einstein, spicca, nel 1949, lo stesso Dewey (cfr. Harris 1987).

Le estati dal 1945 al ’49 sono ricche di novità; soprattutto vi sog-giornano artisti destinati a diventare famosissimi come Motherwell, Noland e Rauschenberg e si nota l’emergere dei giovani americani. In particolare nell’estate del ’48 soggiorna il duo John Cage – Merce Cun-ningham, che suscita entusiasmo con le sue azioni teatrali. Ma anche i poeti W. Carlos Williams e Wallace Stevens teorizzano e praticano l’idea di una poesia aperta, e della composizione come “campo” (invece che come “opera”).

Accanto alle arti visive (insegnate, secondo lo spirito Bauhaus, insie-me a quelle “applicate”) einsie-merge l’importanza del teatro. Xanti Schwain-sky, tra il ’33 e il ’39, insegna al College una forma di teatro totale (che trae ispirazione dal suo maestro Schlemmer, pietra miliare dello spirito Bauhaus; si tratta di “azioni” secondo taluni ante litteram, che relegano in secondo piano la trama a vantaggio di spazio, forma, luce, tempo, e aprono la strada all’happening di John Cage. Proprio Cage, con la collaborazione di Merce Cunningham, mette in scena nel ’48 The rise

of Medusa, che va considerato il primo tentativo di creare un “evento”,

anche se la piéce, tratta da un poema lirico di Satie, è ancora di impian-to teatrale. Cage dirà che in esso vi era «something which engages both the eye and the ear» (cit. in Buettner 1981, p. 114), un’affermazione che va letta in senso deweyano e in contrasto con il predominio affi-dato al seeing predicato da Albers; e anche che in esso vi era l’idea di rappresentare la «vita quotidiana stessa come un teatro» (Cage 1965, in Buettner, ivi), altra affermazione capitale che tende verso l’avvicinamento dell’esperienza quotidiana all’esperienza artistica.

3. Espressionismo Astratto e Dewey

Vi è inoltre una seconda importante direzione di influenza del pen-siero estetico di Dewey che conduce alla nascita del cosiddetto Espres-sionismo Astratto (Jackson Pollock, Marc Rotko, Clifford Still, Roberth Motherwell, Arshile Gorky). In questo senso, la figura chiave è quella di Thomas H. Benton, l’unico maestro riconosciuto di Pollock negli anni tra il 1931 e il 1937. Pittore figurativo, affascinato dal muralismo messicano di Rivera e Siqueros, al punto di realizzare egli stesso dei murales, T. H. Benton era un convinto deweyano perché interessato all’etnico (le forme di rappresentazione non occidentali), allo spazio (il murale come forma di pittura espansa), e all’idea di comunità locale (con riferimento alla “comunità organica” di Dewey). Anche lui, in un

articolo per Modern Monthly, si esprime nei termini di Art as Experi- Experi-ence quando afferma che «Una definizione di arte significativa deve

essere compresa in base alla definizione del genere di esperienza che può generarla» (Benton, 1934; cit. in Buettner 1981, p. 62).

Pollock lo segue: abbandona prima le misure ristrette del quadro per opere di grandi dimensioni (come Mural, del ’43), poi il pennello e infine il contatto diretto (volontario) tra mano e tela, e nel 1947 “inventa” la celeberrima tecnica del dripping.

Più tardi, nel 1950, Hans Namuth fotografa e riprende Pollock al lavoro – foto che lo consacrano quale «primo maestro americano», ma che soprattutto evidenziano l’importanza del “processo” antecedente il quadro come tale, e di cui quest’ultimo non è che «la morta spoglia» 4. Pollock non è solo il “primo” artista interamente (cioè culturalmente) americano, è anche il primo artista in cui opera d’arte come prodotto è inscindibile dal processo e dall’esperienza da cui l’opera stessa è sorta. Secondo la definizione di Dewey, una esperienza (in quanto opposta alla normale esperienza) era vista come un incontro totale con i feno-meni esterni che seguiva un corso completo dall’inizio alla fine ed era completamente integrata nella coscienza come un’entità distinta da altre esperienze. Dato che un’esperienza era continua e potente, non ammet-teva «buchi, giunzioni meccaniche e centri morti» (Dewey 1934, p. 62). Allo stesso modo, Pollock parla della sua esperienza estetica: «Quando sono nel mio quadro, non sono consapevole di cosa sto facendo. […] Non ho timore di fare cambiamenti, di distruggere l’immagine, ecc., perché il quadro ha una sua vita propria. Tento di lasciarla venir fuori. È solo quando perdo contatto col quadro che il risultato è un disastro» (cit. in Buettner 1981, p. 59). Questa definizione del momento crea-tivo come una coinvolgente esperienza di unità, con un inizio e una fine discreti, si avvicina alla descrizione di Dewey, esprimendo gli stessi concetti in forma non-immediata.

4. Verso il 1952

Nei primi anni ’50 le varie influenze del pensiero di Dewey tendono a sovrapporsi. Da un lato, in un articolo per Art News del 1952, H. Rosenberg definisce la nuova arte Action Painting – definizione che sposta l’accento dal formalismo di Greenberg (inventore della defini-zione di Espressionismo Astratto), verso un’idea molto più dinamica e processuale dell’“evento” artistico 5. In questo periodo molti artisti più o meno legati all’Action Painting, da Rothko a Motherwell, a Paalen, prendono come riferimento le teorie estetiche di Dewey (cfr. Berube 1988).

Dall’altro lato abbiamo la realizzazione dell’evento puro, senza più nemmeno la “mediazione” del quadro come opera-risultato – cioè il primo “happening”, il famoso Untitled event di Cage, Cunningham, Rauschenberg e altri, proprio del 1952.

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John Cage (1912-1992), già invitato come docente al Black Mountain College nel 1948, nel 1952 organizza un evento considerato il precedente degli happening e dei concerti Fluxus e di tutta l’arte contemporanea performativa e ambientale/installativa: Untitled Event (chiamato anche

Theatre Piece n. 1) che includeva una performance simultanea di

piano-forte, di danza improvvisata, declamazioni poetiche e una conferenza. L’evento non accadeva su un palco ma in una stanza, in mezzo agli spettatori, mentre Tim La Farge e Nick Cernovich proiettavano sulle pareti film e diapositive. L’Untitled Event fu interpretato non come una performance musicale, ma come esempio di “nuovo teatro”. Nella stanza erano inoltre appesi i Quadri bianchi di Robert Rauschenberg. M. Kirby in Happening (1968) ne rintraccia la matrice dadaista (con riferimento al Teatro Merz di Schwitters; ma rispetto a Cage l’influenza più diretta era piuttosto Marcel Duchamp) descrivendolo così: «I se-dili per il pubblico, tutti volti verso il centro, erano stati sistemati nel mezzo del refettorio del collegio in modo da lasciare un passaggio tra la “platea” e le pareti. Calcolate al secondo come in una composizione musicale, le varie azioni si svolgevano tra e intorno agli spettatori. Cage, con abito e cravatta neri, lesse una conferenza su Meister Eckhart da un leggio collocato in un lato della camera [...] Mary Caroline Richard (che aveva tradotto per l’America Il teatro e il suo doppio di Antonin Artaud) declamò solennemente dei versi da una scala a pioli. Charles Olson e altri attori “nascosti” tra il pubblico si alzarono a turno in piedi e recitarono poche battute. David Tudor suonò il piano. Sul soffitto vennero proiettate immagini cinematografiche: all’inizio si vide il cuoco della scuola, poi il sole che tramontò quando l’immagine si mosse dal soffitto al muro. Mentre Robert Rauschenberg metteva vecchi dischi su un fonografo portatile, Merce Cunningham improvvisò una danza intorno al pubblico. Un cane prese a seguirlo e fu accettato nella rap-presentazione (cit. in Balzola-Monteverdi 2004, pp. 457-58).

La componente teatrale era molto forte, ma le differenze rispetto a una tradizionale rappresentazione teatrale erano evidenti: non esisteva una differenza netta tra palco e platea, il pubblico poteva prendere parte all’azione, non era prevista una regia degli eventi e le varie azioni artistiche, oltre ad avere luogo simultaneamente, mescolavano, come si è visto, arti diverse, dalla pittura, alla musica, alla danza.

L’importanza di questo primo happening per una nuova concezione delle arti risiede quindi in diversi fattori. Innanzitutto, di nuovo esso sembra tentare l’antica utopia wagneriana della Gesamtkunstwerk, cioè di un’opera d’arte in grado di unire in un tutto sinestetico musica, parola, rappresentazione e immagini. D’altra parte, però, invece di condurre ad uno spettacolo unitario, delimitato da una forma chiusa e del quale si può essere solo spettatori passivi, il primo happening include elementi accidentali (vedi l’esempio del cane) e tende a coin-volgere gli spettatori nell’azione. In questo modo i limiti formali sono

resi estremamente labili, sia perché l’unica regola dell’azione erano i segnali di inizio e di fine, e inoltre perché ogni volta che, anche in seguito, un happening verrà realizzato, esso costituirà un evento unico e irripetibile, diversamente da quanto accade nella rappresentazione teatrale classica (che comunque resta legata a limiti formali definiti a priori, quali un testo, una regia, una messa in scena, ecc.).

L’influenza di questa inedita forma espressiva sulla musica, le arti e il teatro è stata enorme perché ha cambiato la forma dell’opera, il ruo-lo dell’artista e quelruo-lo delruo-lo spettatore. L’essenza dell’opera non è più legata necessariamente ad artefatti materiali, ma può essere costituita anche da gesti, eventi, azioni; non è più solo un prodotto, ma è anche un processo. La volontà artistica dell’autore è messa radicalmente in crisi, sia dal fatto che gli autori sono più di uno, sia dal fatto che ele-menti casuali e accidentali devono essere considerati non come errori da eliminare, ma come parti integranti del “lavoro”. Infine, il pubblico stesso diventa co-autore – quindi, secondo l’intuizione che fu già di Duchamp, l’opera d’arte stessa non potrebbe nemmeno esistere senza la presenza e la partecipazione attiva del pubblico. Da ultimo, ogni

volta che un happening, cioè un evento-accadimento, viene “riprodotto” esso ha luogo nella concreta attualità del momento in cui accade.

Il più famoso prosecutore degli happening, cioè Allan Kaprow, riconoscerà, alla fine degli anni ’50, proprio in Pollock e Cage i suoi due maestri. Lo stesso artista in una intervista racconta di essere stato colpito particolarmente dal pragmatismo contestualista di John Dewey

– che sottolineava la fluidità del significato, rapportandolo al contesto in cui una azione viene compiuta – e dal suo Arte come esperienza, che legava strettamente l’arte alle altre esperienze umane, e in definitiva alla vita quotidiana.

5. Dewey e l’arte contemporanea

Ora, secondo Dewey non esistono oggetti d’arte, in quanto tali, stac-cati dall’esperienza che ne fa l’uomo; se noi li vediamo così è a causa delle istituzioni museali, che a loro volta riflettono condizioni sociali ed economiche di antagonismo e separazione. Ne segue così che oggi le opere d’arte siano esperite come un alcunché di separato dalla vita comune, oggetti di collezionismo o direttamente prodotti nati per il mercato – oggetti «feticizzati» (Shusterman 1997, p. 33). Occorre ri-scoprire la continuità fra l’esperienza estetica e il normale processo di vita; occorre ritornare a focalizzarsi sul processo più che sul prodotto e sul godimento (enjoyment) della sua percezione. Occorre insomma che l’arte ritorni alla sua radice estetica in senso proprio che è quel-la esperienziale: ossia che l’arte ritorni ad essere esperienza nel senso pieno del termine, in quanto azione determinata dalle condizioni di vita che il soggetto sperimenta interagendo coll’ambiente. È sintomatico che Dewey citi fra le esperienze del vivente fatti come il respirare, il

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deambulare, il prendere interesse alla cura del giardino: esperienze che senz’altro qualifica come estetiche, ponendo in tal modo per la prima volta il problema della «continuità dell’esperienza estetica con i processi normali di vita» (Dewey 1934, p. 37). L’arte è considerata separata dalla vita solo perché la vita è separata da se stessa, divisa in compartimenti dove l’arte dovrebbe trovare il suo posto. Ma così anche l’esperienza viene abbassata al rango di mera sensazione, perde il suo significato profondo, che invece è quello di essere vera interazione del vivente con l’ambiente. «Non ci sono buchi, giunzioni meccaniche o centri morti» quando abbiamo un’esperienza; quest’ultima è una unità, dotata di una singola qualità che la pervade tutta, a dispetto delle variazioni delle sue parti; è un evento integrale.

Da un punto di vista teoretico, l’happening costituirebbe esatta-mente quella forma d’arte in grado di restituire la continuità tra arte e esperienza quotidiana – cosa che però implica un profondo rovescia-mento dialettico nella nozione stessa di “arte”. «Nell’ottica dell’arte come esperienza di Dewey, molti esempi di forme d’arte istituzionali non andrebbero qualificate come estetiche, qualora le loro condizioni di esperienza non fossero soddisfatte [fulfillment]. Allo stesso modo,

molte esperienze in precedenza considerate in- o an-estetiche diventa-no il materiale di base per il sorgere di esperienze artistiche. Mentre Dewey rifiutava di fare distinzioni fra l’esperienza e ciò che costituisce l’oggetto d’arte, il prodotto dell’espressione artistica diventa una forma di esperienza [...] L’oggetto d’arte stesso era un’esperienza, sia per