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Fenomenologia ed esperienza estetica

Nel documento Esperienza esteticaA partire da John Dewey (pagine 87-101)

di Elio Franzini

Il termine “esperienza” è, notoriamente, uno dei più ambigui pre-senti all’interno del vocabolario filosofico, al punto che è quasi sempre necessario un aggettivo che lo qualifichi, delineandone l’orizzonte tema-tico. Il problema si aggrava nel momento in cui si usa l’esperienza per tradurla in movimento filosofico, costruendo l’empirismo. Empirismo che è soltanto un modo – di straordinaria importanza storica – per delineare il concetto di esperienza, ma che certo non ne esaurisce la densità sia teorica sia storica.

Questo legame con l’empirismo sembra perseguitare la fenomeno-logia, come se Husserl non fosse stato, a questo proposito, di straor-dinaria chiarezza. Locke – ed è difficile non concordare con lui – è empirista solo per i manuali, dal momento che opera come uno psico-logo della conoscenza, mentre Hume è apprezzato proprio nella parte “non empirista” del suo pensiero, quello in virtù del quale si presenta come il primo tentativo sistematico di una scienza delle pure datità di coscienza, la cui fenomenologia ha come difetto proprio quelli di essere “empirica e sensistica”.

L’esperienza per la fenomenologia non può dunque essere quella dell’empirismo di Hume, notoriamente definito da Husserl, sin da-gli anni Venti, come la «bancarotta della conoscenza oggettiva» o, in modo più radicale, la bancarotta di «ogni filosofia che intenda dare chiarimenti scientifici sul mondo mediante la scienza della natura o la metafisica» 1, che finisce così per essere la bancarotta di qualsiasi conoscenza.

È noto come Husserl risolva la questione, ovvero spostandola sul piano di un’esperienza trascendentale, che non è ricerca dei modi per costituire un’esperienza possibile, bensì il tentativo di coglierne le con-dizioni di possibilità. Non si può ignorare che in questa esigenza vi sia l’eco dell’avvio della Critica della ragion pura, in virtù della quale se è vero che ogni nostra conoscenza incomincia con l’esperienza, tuttavia da ciò non segue che essa derivi interamente dall’esperienza. D’altra parte, è chiaro che anche questa affermazione kantiana – che avvia la problematica della sintesi a priori – non può soddisfare, proprio per il rovesciamento di tale sintesi che la fenomenologia propone.

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tivi di tale assenza di soddisfazione, limitandomi a osservare che nella nozione sia humeana sia kantiana di “esperienza”, manca un concetto qui centrale, ovvero quello di percezione, che qualifica l’esperienza per il fenomenologo. Una percezione che non è “conoscenza del mondo esterno” (espressione che di per sé non significa proprio nulla, e che implica una strana dicotomia tra un occhio e un mondo, come se fos-sero realtà del tutto distinte), ma tentativo di cogliere le operazioni connesse all’esperienza del percepire, vederne l’essenza, che non è un dato immutabile da descrivere, bensì le strutture costanti che si rive-lano nei suoi atti.

Esperienza è dunque, in prima istanza, e al di là dei molteplici giochi linguistici che intorno a essa possono instaurarsi, la percezione in quanto capacità «che ci pone alla presenza di oggetti, e proprio nei modi e nelle forme in cui essa si differenzia» 2. Ma, in un accezione più ampia, è esperienza, sono esperienza, tutti quei “modi” che, “a loro modo” ci mettono alla presenza di oggetti. Per cui, appunto, in un’accezione più ampia, anche il ricordare è un’esperienza «di cui è possibile determinare i modi di operare» 3, come peraltro sono espe-rienza l’immaginare, il desiderare, gli stati emotivi e via dicendo.

Si sarà allora compreso che non si nega affatto la vastità e la ge-nericità della nozione di esperienza – peraltro dimostrata dalla storia stessa del pensiero, del linguaggio comune, delle idee, ecc. – ma che la questione non è quella di fissarne, magari solo linguisticamente, una o plurime definizioni, bensì di indicare suo tramite «uno spazio aperto di problemi» 4.

Ciò significa che l’esperienza che diciamo estetica (fermo restando che, nell’accezione sopra riportata, a rigore tutte le esperienze sono estetiche) è una modalità di questo spazio descrittivo che si apre, di cui si devono dispiegare le “funzioni intellettuali”, nell’ovvia consape-volezza che l’intelletto «non è un complesso di dispositivi predisposti da proiettare sull’esperienza, ma ha le sue radici nell’esperienza stessa in quanto essa si auto-organizza nelle forme di correlazione necessaria tra i dati della sensibilità e la soggettività concreta che li riceve» 5. Per cui alla via trascendentale-kantiana che procede dal giudizio

all’espe-rienza contrapponiamo una via che procede dall’espeall’espe-rienza al giudizio

– senza con ciò ricadere in forme di riduzionismo empirista.

In questa direzione non si ha una definizione astratta o empirica delle rappresentazioni estetiche, ma esse si determinano in una “correla-zione necessaria” che va indagata nelle sue specifiche modalità intenzio-nali. L’esperienza dell’arte è dunque un modo particolare di esperienza estetica, che determina una correlata esperienza giudicativa. In sintesi, sul piano dell’analisi descrittiva va in prima istanza precisato che cosa si possa intendere con “esperienza estetica”, in seguito stabilendo come tale esperienza possa diventare “artistica”.

in-dicazioni fenomenologiche, proprio perché si muove dall’esperienza verso il giudizio. In un saggio dei tardi anni Cinquanta, infatti, For-maggio osserva che egli è un autore che «non ama le nebbie delle estreme astrazioni metafisiche» e piuttosto «s’immerge nel concreto delle esperienze divenienti, ascolta ed opera in esse» 6. La teoria del-l’esperienza deweiana ha dunque un suo significato fenomenologico in quanto, come osserva Formaggio, denuncia le fratture che attraversano il pensiero e la prassi del nostro tempo, proclamando al tempo stesso «la necessità di ristabilire la continuità». Ciò accade proprio attraverso l’idea di percezione, o coscienza, o idea che sono «l’esperienza stessa, il flusso stesso degli eventi, nel momento di crisi in cui ciascuna cosa sboccia in significato» 7. Dewey permette così di delineare un concetto di esperienza che porta con sé principi di connessione e organizzazio-ne, rendendo inutile, come egli stesso osserva, una sintesi sovrannatu-rale o sovraempirica, e ponendo invece l’intelligenza come un fattore di organizzazione all’interno dell’esperienza.

Questo aspetto, peraltro, che segna, come giustamente scrive Mat-teucci 8, la sua posizione eccentrica rispetto alla tradizione cartesiano-kantiana, è anche il segnale di una comune eccentricità, che proprio in un’idea di autorganizzazione dell’esperienza e del suo senso intrinseco, vede operante, negli stessi decenni, la tradizione dell’estetica fenome-nologica (che forse potrebbe essere studiata anche attraverso il lavoro di William James).

È tuttavia indubbio che, se si esce da un’ispirazione generale – che peraltro non può essere sottovalutata – le analogie svaniscono nel mo-mento in cui, approfondendo Dewey, si coglie la sua idea di esperienza connessa all’interazione tra organismo e ambiente, che se da un lato è utile per spazzare artificiose dicotomie, e per sottolineare il valore sociale dell’estetico e dell’artistico, dall’altro enfatizza una visione pri-va di quei connotati “conoscitivi” che sono invece un caposaldo del descrittivismo fenomenologico, e che, come già si è osservato, vedo-no l’esperienza solo come “modo operativo”, rifuggendo da una sua “naturalizzazione”, che è solo l’aspetto uguale e contrario di un’al-trettanto equivoca sua psicologizzazione. La distinzione tra contenu-to apprensionale e apprensione, che è un caposaldo essenziale per la fenomenologia, non può incontrarsi con la sostanziale identificazione tra l’esperienza e i suoi modi di apprensione che si ricava da Dewey.

Tuttavia – ed è un punto dal quale si può ripartire – è significativo che sia per la fenomenologia sia per Dewey il campo estetico-artistico sia un orizzonte esperienziale in cui si verifica il senso stesso dell’espe-rienza, della sua operatività e dei modi in cui essa si articola, permet-tendo così di sfuggire a quegli orizzonti critici che vorrebbero cogliere l’apprensione, lo studio e l’analisi del fenomeno artistico in una sua astratta autonomia, separata dalla concreta prassi esperienziale, da una sua funzione espressiva e comunicativa. Si ha invece consapevolezza,

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come ancora scrive Formaggio, che compito dell’estetica non è quella di discutere sull’arte, sulle sue opere, sulla loro “attualità”, sui molte-plici risvolti delle sue più o meno ideologiche poetiche, bensì quello di «reintegrare l’esperienza artistica ed estetica nell’esperienza ordinaria», qui descrivendo «i rapporti di distinzione-relazione che all’interno di questa si possono rintracciare» 9. La posizione di Dewey è qui chiara, e coincide con quella di certa tradizione fenomenologica, Dufrenne in prima istanza: scoprire, attraverso l’esperienza estetico-artistica, la qualità estetica dell’esperienza stessa. Cogliere, come avrebbe detto Dufrenne, come dall’esperienza ordinaria si possa afferrare il senso dell’esperienza estetica e, da qui partendo, cercare il potere espressivo e ontologico dell’esperienza stessa, il suo valore simbolico, in modo che l’arte diventi testimonianza di una possibilità antropologica, quella di «trascrivere ed organizzare in ritmo ed equilibrio le energie viventi del mondo» 10.

Allo stesso modo, e proprio perché non ha senso “definire” l’espe-rienza, va osservato che se è termine che non tutta la tradizione fe-nomenologica ama e apprezza (centrale in Husserl, ben presente in Dufrenne, è invece termine quasi del tutto assente nella prima estetica fenomenologica tedesca e, elemento che può destare maggior stupore, anche in Merleau-Ponty), viene comunque sempre considerato come un modo per afferrare le relazioni estetiche tra il soggetto corporeo e il suo mondo circostante, al fine di formare un “intero”, di cui le qualità si determinano attraverso una rete di atteggiamenti, intenzionalizza-zioni, determinazioni qualitative. Descrizione, analisi trascendentale e ricerca del significato metafisico – che sono poi i tre obiettivi che Du-frenne pone per la sua fenomenologia dell’esperienza estetica – sono su un piano comune, che è quello attraverso il quale, al di là di ogni psicologismo, si è consapevoli che «la coscienza che si volge all’oggetto è costitutiva, ma a condizione che l’oggetto si presti alla costituzione», dal momento che «la sussunzione è possibile soltanto se si presuppone un’autocostituzione dell’oggetto che comprende in qualche modo il soggetto, soggetto e oggetto essendo un momento assoluto di cui la finalità è testimone» 11.

Siamo così all’interno di una prospettiva che, in modo esplicito, prende avvio da un’antropologia per concludersi in un’ontologia, dove l’unità carnale e organica di soggetto e oggetto costituisce un insie-me che definisce la vita stessa dell’esperienza estetica, all’interno della quale l’opera d’arte si pone come campo privilegiato, quello che potrà con maggiore sicurezza «condurci all’oggetto estetico e all’esperienza estetica» 12. La conclusione della fenomenologia dell’esperienza estetica è così, per Dufrenne, un’ontologia che, sulla scia di Merleau-Ponty, vede nell’incontro ontologico dei due piani la destinazione finalistica dell’esperienza estetica, che assume, in rinnovata analogia con Dewey (pur mai citato da Dufrenne), aspetti espressivi, dove l’espressione è

caratterizzata da quella stessa interattività che si ritrova in Arte come

esperienza. In tutti questi casi, pur separati da impostazioni, tradizioni

e finalità teoriche, si ritrova sempre una specie di quello stesso elogio naturalistico dell’organico di cui sono grandi esempi Diderot o Goe- Goe-the, che è più rifiuto ideologico di forme precostituite di determinismo, meccanicismo e, all’opposto, di psicologismo ed empirismo ingenuo che precisa opzione teorica. Opzione che invece costituisce l’ossatura dell’argomentazione di Dufrenne: perché, se esperienza estetica è la correlazione intenzionale di soggetto e oggetto, e se quest’ultima rea-lizza il suo senso eidetico come sintesi passiva, si tratta di descrivere lo svolgersi modale di questo incontro, cioè gli atti che illuminano i punti di vista che meglio dispiegano le qualità intrinseche all’oggetto estetico.

Pur viziata da qualche retaggio humeano, e da alcune utilizzazio-ni non rigorose di Husserl, la descrizione dufrenutilizzazio-niana dell’esperienza estetica ha comunque fatto scuola. Anche senza indulgere in particolari analitici, è importante sottolineare che qui, come in Dewey, vi è una centralità di un piano percettivo, visto non come isolamento atomisti-co, ma in quanto dinamicità attiva. Esperienza è così, in prima istanza, rifiutando Sartre e il suo elogio idealistico e nullificante dell’immagina-zione e della sua eterea libertà, lo svolgersi della percedell’immagina-zione, che è in prima istanza presenza estetica e capacità di costruire rappresentazioni che si sottopongono a un’attenzione riflessiva. Se questo è dunque il piano generale dell’esperienza, vi sono oggetti che “richiedono” un diverso atteggiamento ricettivo, cioè un diverso modo esperienziale, in quanto esprimono (e questo termine va ovviamente sottolineato) un universo di senso che il piano presenziale e quello rappresentazionale non esauriscono. Alle qualità intrinseche a questi oggetti – che Dufren-ne chiama, sulla scia della terza Ricerca logica di Husserl, gli apriori materiali dell’affettività, che è la loro intrinseca espressività – corri-sponde un’espressività del soggetto che viene chiamata “sentimento”, che è un modo per cogliere la “profondità” dell’oggetto stesso.

Vi è, a questo punto, un’implicita divaricazione, che Dufrenne stes-so stes-sottolinea. Se si segue infatti l’aspetto organicistico ed empatico della relazione espressiva e sentimentale con l’oggetto estetico, sorge la domanda su che cosa esso si fondi, introducendo quell’ipotesi or-ganicistica cui si accennava, che ha esiti ontologici. Se si lascia cadere questo aspetto, ci si concentra invece sulla relazione sentimentale ed espressiva, chiedendosi che significato abbia la “profondità” espres-siva e sentimentale che rende possibile quella particolare tipologia di esperienza che è chiamata “estetica”, esperienza dove la percezione e la rappresentazione tendono “al di fuori” di sé, verso territori de-scrittivi che, a partire dal visibile, hanno come orizzonte l’invisibile o il sovrasensibile.

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pone quel particolare oggetto che eccede la percezione “ordinaria”, che con le sue sintesi estetiche stimola l’attenzione sinergica di un corpo vivo organico e operante: oggetto che, appunto, si è chiama-to “opera d’arte”. L’esperienza estetica non è esperienza dell’arte, ma l’arte è l’orizzonte estetico che permette di far venire in luce il senso espressivo dell’esperienza stessa, la forza sentimentale e organica di un corpo proprio, che è, come tutti gli autori citati potrebbero dimostrare da vari angoli di visuale, il vero protagonista dell’esperienza estetica, sulla scia di quel che Husserl scrive nel secondo volume di Idee e nelle

Meditazioni cartesiane. Senza il Leib, e le cinestesie che ne costituiscono

la prassi descrittiva e operativa, non sarebbe possibile porsi nell’oriz-zonte dell’esperienza estetica, che è capacità di cogliere nella variazione immaginativa l’essenza delle cose stesse, che non è nulla di immutabil-mente platonico – come spesso ancora non si comprende – bensì una struttura corporea, una struttura d’esperienza. È una corporeità che, come scrive Formaggio, è «una emergenza polifonica da molti conte-sti» e che dunque «chiede di essere considerata in tutta la sua ampia complessità fenomenologica» 13 perché è solo da questa che il corpo può apparire come «qualcosa di geneticamente dinamico, qualcosa che non è mai un se stesso, poiché è sempre il sé e l’altro» 14. Un corpo, quindi che, come afferma Husserl, ma come si può desumere anche da Dufrenne, nel suo essere Leib, corpo vivo e vivente, muta, proprio in virtù della sua costitutiva dinamicità, i suoi atteggiamenti descrittivi, cercando nelle anse percettive non solo rappresentazioni, prospezioni immaginative, nessi memorativi, cause finali ed efficienti, bensì, ove l’oggetto lo richieda, interrogando in questa direzione la percezione, orizzonti motivazionali, qualità espressive, contenuti spirituali.

Un corpo in movimento è il motore mobile di un’esperienza dina-mica, che su di esso disegna i suoi percorsi: ed è questa la mobilità di un’esperienza estetica che cerca sempre di nuovo, attraverso l’arte e i suoi complessi piani motivazionali, di uscire dalle strettoie della ripetitività, della “museificazione”: sia Dewey sia Dufrenne, attraverso la mobilità organica dell’esperienza espressiva del corpo, vedono un modo per “liberare” l’esperienza, liberando con essa l’arte. L’opera, scrive Dufrenne, «deve offrirsi alla percezione: deve essere eseguita per passare in qualche modo da un’esistenza in potenza a un’esistenza in atto» 15. L’arte autentica, aggiunge, «è una parola originale che al tempo stesso desta un sentimento e scongiura una presenza, più che recarci un senso concettuale» 16.

Lo schema dell’esperienza estetica ha dunque una sua lineare chiarezza concettuale: possiede una struttura percettiva, una concet-tualizzazione rappresentazionale, una organica mobilità corporea, che diviene espressività e sentimento quando un oggetto estetico denso di “profondità” – che la tradizione chiama “opera d’arte” – sollecita una percezione a sua volta più “profonda”, una tipologia di esperienza che

è antropologica, organica, fors’anche ontologica, una percezione che non può rimanere rinchiusa in una “istituzionalizzazione” dell’artistico proprio perché, per dirla con Dewey, «l’opera d’arte ha una qualità peculiare, che è, però, quella di chiarire e concentrare significati che sono contenuti in modo disperso e debole nel materiale di altre espe-rienze» 17.

Ci si può chiedere, a questo punto, che cosa tutto ciò significhi, e soprattutto a che cosa conduca. Il significato generale è, si ritiene, evidente, e ha anche recentemente trovato vari avversari in alcune ma-nifestazioni della filosofia analitica. Infatti, se l’esperienza estetica defi-nisce il suo più alto livello di consapevolezza avendo di fronte l’oggetto artistico, anche quest’ultimo non può che sprigionare il suo senso se non inserendosi nei processi di questa stessa esperienza, nelle dinamiche motivazionali, storiche e intersoggettive che stratificano la dottrina e la prassi dell’esperienza – che è sempre esperienza corporea, intercorporea connessa agli atti della percezione e delle sue modificazioni immagi-native e memorative. Un’arte senza estetica – posta, come avrebbero detto Banfi e Formaggio, in un’astratta autonomia – può forse essere oggetto di ricerche critiche, iconologiche, linguistiche, storiche, non di una dinamica filosofica di carattere conoscitivo. È questo un caposaldo che, se unisce Dewey e la fenomenologia, è anche perché fa da spar-tiacque tra ricerche, segnando differenze che troppo spesso si preferisce ammorbidire o annegare in raffinatissime storie delle idee. Se le opere d’arte sono forme di vita, ebbene, la vita non è quella del linguaggio, ma della prassi esperienziale e corporea, pur coniugata secondo diffe-renti e articolate modalità.

L’analisi di singole esperienze, di singole forme di vita artistiche, non dice nulla sul significato generale del processo: è soltanto una forma di empirismo, non sempre raffinato, che riporta ogni cosa a un orizzonte fattuale che si può definire solo come pre-critico (in senso kantiano) o addirittura, per dirla ancora con Banfi, «pregalileiano». Si eserciti pure lo sguardo, più o meno definitorio, sull’arte o sulle sue singole esperienze, purché non si dimentichi il monito aristotelico, da cui la filosofia ha preso avvio, cioè che del particolare non si dà scienza. La singola esperienza, l’esempio, deve cercare di far risalire alla condizione di possibilità, ovvero al valore generale conoscitivo dell’esperienza estetica dell’arte. È significativo che molte esperienze della cosiddetta arte concettuale – che sembrerebbe un mero elogio del linguaggio accompagnato da una anestetizzazione dell’esperienza estetico-artistica – possa in realtà condurre in tutt’altre direzioni. In-fatti, come ben osserva Migliorini 18, a partire da Duchamp e dalla sua volontà di “annullare” la definizione dell’arte, si vede nell’arte non un luogo sacrale e museale, da sottoporre alle raffinate indagini dei critici e dei sociologi, bensì «il luogo dove si svolgono gli esercizi e i riti della sensibilità».

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È tuttavia indubitabile, come ancora osserva Migliorini 19, che siano stati certi eccessi – peraltro proprio in stile con esperienze filosofiche come quelle di Dewey o di alcune espressioni della fenomenologia – ad avere originato «una ricerca nel senso opposto», che alla hyle preferisse, con procedimento astrattivo, la morphè intenzionale (sviluppando, a ri-gore, un’altra direzione implicita nella fenomenologia stessa). È questo, appunto, il primo risultato cui un’enfatizzazione del valore corporeo dell’esperienza estetica può condurre, cioè alla restaurazione di una

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